Crisi totale della cura. (I par.)

Ora sarà sempre più necessario sviluppare la critica alla curatorialità, renderla sempre più progetto, sempre più tersa, avere fra noi l’attenzione forte come la curiosità sul futuro. Questa è la misura. Facciamo allora ogni sforzo per attirare sempre la critica fra noi. Con lei saremo chiari, saremo pietre vive dell’opera, membra vive della cura di domani.

Le armi improprie della curatorialità

1. Cos’è la curatorialità? Qualcuno ha detto (o qualcun altro ha già dimostrato) che: “la curatorialità d’arte è come il sesso. Più se ne parla, meno se ne fa”. Dunque non ne dovremmo parlare, ma la domanda ritorna, comunque. Che cos’è la curatorialità e da dove arriva? La curatorialità non arriva da nessuna parte. Semplicemente esiste, come esistono le fobie, le menzogne, le ossessioni di potere, le strategie di affermazione di una paranoia rispetto ad un’altra. Il punto è: come si usa? Come si gestisce la curatela? E poi, in realtà, chi sono i curator? Nella nostra maledetta abitudine di dividere (il bello dal brutto, il buono dal cattivo, il giorno dalla notte, il dolce dal salato, l’artista dal curatore, il teorico dal pratico, le biologie dalle chimiche e le antropologie dalle economie) abbiamo creato le caste anche nell’«habitus curatoriale».

Da una parte le idee, dall’altra il servizio, l’economia, l’ideologia. Di qua i curatori, di là gli account. E a proposito di divisioni, da una parte i gruppi di potere, dall’altra i centri dei media con i loro errori e con le loro fobie. Da una parte il pubblico dell’arte che confeziona la ricezione dei messaggi più attivi e più elitari, quelli che producono la fertilità dell’ideologia borghese e dall’altra quello che li emette, la nazionalizzazione sovrana, ovvero lo Stato regio, truccato, che dell’arte contemporanea non è abituato a saperne, anzi che non ne sa niente dell’arte contemporanea e che – forse – non ne vuole sapere. Per fare questo abbiamo inventato, tramite la pop art, «l’elitismo del populismo» e il «populismo dell’elitismo», impregnando di Pop anche l’aristocrazia del consumo. In mancanza di una teoria e di una strategia offensiva, la sinistra (o quel che  di essa è durato) rimane pubblicitariamente attrezzata, e si contenta di denunciare la cultura generata dai mezzi di «curatorialità mediale» come «manipolazione ideologica». Sogna di assumere il potere sui «macro e microrganismi (curatorial-mediali)», a volte come mezzi per aiutare il furto di coscienza delle masse, a volte come conseguenza di un cambiamento radicale delle strutture sociali di comando; un’arroganza contraddittoria che riflette semplicemente l’impossibilità di integrare media e cura entro una teoria dell’infrastruttura, della sovrastruttura e dell’industria culturale stessa. In luogo di considerarli come un nuovo e gigantesco potenziale di forze produttive, i media delle infrastrutture espositive rimangono, per la sinistra un mistero sociale. La sinistra si trova sbriciolata e ipercontrollata dentro un atteggiamento di fascinazione e un andatura pratica, nei confronti di questo incantesimo curatoriale, al quale non può sfuggire, ma che fa finta di punire (Intellettualmente e moralmente). Questa ambivalenza dell’ideologia curatoriale si limita a riflettere la stessa ambivalenza del ruolo del curator, senza superarla, né ridurla. Da buon  semiologo riformista, il conformismo curatoriale imputa questa «fobia» degli intellettuali e dei movimenti artistici alla loro origine borghese o piccolo-borghese: si difendono dalla cultura curatoriale di massa perché mandano in frantumi il loro privilegio curatoriale. Sia vero o falso questo riferimento, sarebbe più utile chiedersi quale responsabilità abbia, per questo disprezzo affascinato, per questa confuzione tattica, per questo sottile rifiuto all’impegno dei curator di sinistra di fronte ai media, proprio il pregiudizio astrattista, il suo fuffismo pieno di nostalgia e conservazione e la sua allergia teorica per tutto quanto non sia meccanicisticamente produzione industriale e lavoro produttivo oscurato dall’immaginifico (ovvero Il latte dei sogni). Il rappresentante più noto della concezione funzionale dell’élite (non si dice funzionalista), è probabilmente Karl Mannheim, che negli anni in cui si affermava il nazismo si chiedeva quali fossero le condizioni più idonee per la formazione e la selezione di élite favorevoli alla democratizzazione come fenomeno culturale generale, e quali rapporti esse dovessero stabilire con le masse. Il concetto di massa è invero, per parecchi versi, complementare a quello di élite. Secondo W. Pareto la concezione funzionale delle èlite può dare origine a tipologie molto differenti, a seconda del ramo di attività e di curatorialità, attributo o parametro preso in considerazione. Di contro alle concezioni genericamente funzionali di élite, gli anni ’60 hanno visto affermarsi il concetto di élite politico-curatoriale, spesso chiamata anche élite-dominante (ruling elite), nella scia della discussione aperta dall’opera più nota di C. Wright Mills (L’élite del potere, del 1956). Mills definendo l’élite in termini istituzionali definiva indirettamente anche il ruolo del nuovo manager, in termini di posizione istituzionale: l’élite curatoriale, maschile, femminile o di altro genere che si affermi, è costituita da coloro che occupano le posizioni di vertice nelle grandi imprese, nelle forze armate, nel governo, nell’amministrazione e nell’organizzazione di enti e fondazioni che sdoganano la mediazione tra mercato e istituzioni. L’avvenuta integrazione e i continui scambi di persone e di risorse tra queste varie sfere portano a scorgere in esse un’unica èlite curatoriale. Tutto questo è ridicolo. Se vogliamo fare uno schema, vediamo che la percezione della curatorialità è piramidale. In alto i curatori che usano l’intuizione liberale e assetata di potere, più in basso i merchants (di cassetta) che usano la logica di piazza, poi i “mezzi e i fini” che usano il denaro, i clienti che usano l’intelligenza e infine il consumatore che fa finta di utilizzare l’istinto cercando di mascherare le fobie.

È una situazione più o meno accettata e più o meno condivisa da tutti i protagonismi della società liberale. In sintesi: la società dell’ideazione, quella della produzione curatoriale, quella dell’emittenza e quella della ricevenza dei beni culturali, delle politiche curatoriali e delle progettualità espositive, è dominata da fobie neo-liberali e pianificatrici. Da questo schema è facile intuire che la curatorialità è dei tutori fobici, è di loro spettanza, sembra che sia il loro diritto. E’ il loro giardino riservato nell’ortomercato della fobia, della trasposizione, del racconto fasullo, dell’affermazione dell’idiozia. Così tutti abbiamo la coscienza a posto. La dottrina curatoriale non ha mai fatto un uso, se non meramente funzionale, dello scambio dei segni: per l’informazione, la diffusione, la propaganda. E i nuovi atteggiamenti in materia di nessi comuni, tutta la subcultura modernista dei partiti di sinistra non contribuiscono certo a romperla con questa tendenza: dimostrano anzi a sufficienza come l’ideologia curatoriale elittaria e mondana può affermarsi attraverso vie bel diverse dall’origine sociale. Il risultato di tutto ciò, secondo il medialismo, è una schizofrenia politica  dei riformisti liberali. 

L’amministratore ha disegnato il suo perimetro, il luogo sacro dell’intoccabilità curatoriale. E la sfera mercantile ha dichiarato, attraverso di esso, la sua propensione a far denaro, ad acquisire potere, a scartare il sapere, a manomettere i meccanismi di difesa e di realizzazione della critica, gettando la spugna dell’ideazione. Cos’era – un tempo – una ideazione? Attività di formazione, ordinamento e connessione delle idee. In arte il termine è impiegato per indicare il normale svolgimento del pensiero e della realizzazione di una mostra in opposizione al suo alterarsi in caso di disturbo. In questa accezione l’ideazione comprende: la formazione del disegno e del progetto; la strutturazione di esso in un rapporto di connessione con le opere e l’ambiente curatoriale di collocazione e installazione; il ragionamento e la critica che si fa ex-posizione. L’associazionismo ritiene che l’ideazione sia il risultato della combinazione di elementi di ordine sensoriale che si organizzano sulla base di determinate leggi associative; mentre il cognitivismo ritiene che l’ideazione non sia guidata dalle associazioni, ma dalla comprensione logica di una ex-posizione. Attraverso la psicopatologia possiamo parlare di «ideazione coatta» o «ossessiva» a proposito di quei meccanismi anancastici, come l’impulso a fare importi, contare i piani delle case, sommare i numeri dei target, che si presentano in modo insistente e incoercibile a disturbare il normale flusso della distribuzione di culture o sottoforma di “curatorialità (liberista) obbligata”, innescando un’ideazione estranea che il soggetto non riesce ad estromettere pur essendone infastidito e pur riconoscendone l’inutilità e l’illogicità. L’aspetto più negativo della curatorialità artistica e letteraria è oggigiorno nella confusione che continuamente si compie tra i concetti di gusto, di genio, di gender e di cura. “Curatorialità coatte” assunte – sulla scorta della vieta formulazione post-moderna e post-democratica – come creazione l’una del giudizio e l’altro della creazione. Cosicché, a dispetto anche della teoria dei “distinti atti espositivi”, la “curatorialità coatta” è sempre pronta a manovrare, a discutere, giustificare ed a proporre formule capaci di raggruppare e classificare l’assolutismo liberista. Ne deriva che la curatorialità non ha più la capacità e la forza di esprimere un giudizio chiaro su un gruppo di opere che ha scelto e che ha aperto il campo alla faciloneria ed al pressappoco della licenza curativa stessa. Fioriscono le schiere degli apologisti della finanza capitalistica, i mentori del neo-liberismo d’assalto; i giornali e le riviste sono pieni di “informatori dell’informazione occulta”: nell’internazionalismo delle arti, la moda è tiranna! Con sicumera e con bronzeo vigore, il cosiddetto curatore/rice si batte indiscriminatamente per sostituire “Il latte dei sogni” alle stanze della gender-medium-liberal, i manicaretti della gastronomia, la simulazione dello sperimentalismo d’assalto ed altre consimili cose. Insomma: non regnum sed excidium, non felicitatem sed miseriam, non triumphum sed perniciem. Perduto il senso della cura, e dimenticata la paradigmaticità concreta del suo esercizio, nonché l’empirica realizzazione del suo stesso significato, con le signore della borghesia universalistica e Me-too, queste fatali strategie dicono tutto, cercano di giustificare il proprio operato appellandosi a teorie estetiche (e forse politiche), o sociologiche che, non capite e peggio conosciute, fanno le spese di una situazione di costume fortemente preoccupante: Crisis of Care? On The social reproductive contradictions of contemporary capitalism, scrive Nancy Fraser nel 2016. Questa è la ragione per cui le correnti neoliberali hanno caratteristiche diverse. Ciò che, però, le accomuna è l’accentuazione dell’autoritarismo nel modo di governare e una tendenza a imporre una logica di governo che sottrae l’orientamento delle politiche economiche e sociali alla deliberazione pubblica. In effetti, le strategie neoliberiste si impongono tramite una apparente considerazione della «società aperta». 

A chi si contrappone alla «democrazia illiberale» alla Orbán bisogna ricordare che una democrazia liberale presuppone almeno la divisione dei poteri. Esiste una tendenza comune a considerare gli altri, i cosiddetti «illiberali», come autoritari o populisti, e a presentarsi come liberali contrari allo sciovinismo. Ma questi «liberali» sono i primi a cantare ritornelli molto nazionalisti e a situarsi sul terreno della destra, quando gli conviene. Si deve comprendere che il neoliberalismo è una strategia che satura lo spazio politico, cancella le alternative e canalizza la protesta verso soluzioni che non sono in rottura con lo status quo. Nazionalismo e neoliberismo si servono di una strategia pubblicitaria aperta per occultare le forme di schiavismo e di repressione sociale.

Il patriottismo concorrenziale e il progressismo modernista praticano in maniera diversa la stessa politica. Quando tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo è stata creata la dottrina neoliberale, i suoi fiancheggiatori si ispiravano all’idea di Ortega y Gasset della «dittatura delle masse». Oggi questo modello non ha più corso. Si denuncia il rischio di un ritorno dell’estrema destra, ma la situazione è molto diversa dal tempo del nazi-fascismo, potremmo dire che nell’ambito artistico e culturale le destre sono già attive. Le destre più dure, quelle più votate perlomeno alla produttività culturale, non hanno il culto dello Stato e sono subalterne alla logica dell’impresa. Esse si nascondono dietro il liberalismo progressista. Il curatorialismo mediale costituisce oggi un monopolio delle classi dominanti, che li distorcono a loro vantaggio. Ma la loro struttura rimane fondamentalmente pseudo-egualitaria, e spetta alla pratica curatoriale stessa che impugna neo-surrealismo e sociologia marxista il compito di far emergere questa virtualità, che essi contengono, ma che la pratica capitalistica corrompe. 

La sinistra, soprattutto quella che dirige il lavoro culturale, quella che pretende di sciogliersi nell’immagine progressista e tardo-avanguardistica, non riesce a sganciarsi da queste trappole e tende a cascare nell’errore di appoggiare un campo del neoliberalismo contro l’altro. Non riesce a presentare un’alternativa reale basata sulla politica del comune.

La logica della sovranità è centrata, quella del Comune è decentrata e polimorfa. Spesso esistono sperimentazioni promettenti ma che restano isolate, perché non si conosce quello che accade nei paesi vicini. Una sinistra preoccupata di una vera alternativa dovrebbe aumentare lo scambio delle esperienze e favorirne il coordinamento. Per ora c’è una segmentazione tra le lotte su temi specifici, ma nel lavoro culturale non appare nessuna strategia autonoma e alternativa. Tutto l’universo del sistema artistico è condizionato dalle politiche liberiste e impositive della destra e soprattutto della sinistra.

I bisogni sentono la necessità di una «convergenza delle lotte» e propongono una strategia di trasversalizzazione, ma soprattutto l’arte e il suo sistema culturale, che durante il Covid-19 è collassato, non mostra nessuna possibilità di recupero. È una questione posta anche dai movimenti femministi e va ripresa direttamente da altri movimenti in altri settori. In Cile, ad esempio, nel novembre del 2019, una rivoluzione popolare ha sostenuto le rivendicazioni femministe e quelle dei Mapuche. Tutto quello che era stato nascosto dal colpo di Stato nel 1973 è riapparso alla luce. C’è stata una trasversalità tra rivendicazioni, non una semplice giustapposizione. Ci sono stati risultati anche sul piano elettorale. Alla Costituente sono stati eletti molti attivisti del movimento del 2019 e il voto delle donne è stato decisivo. I popoli nativi hanno ottenuto un’ampia rappresentanza. Penso sia una lezione straordinaria di cui la sinistra dovrebbe fare tesoro al di là del Cile e al di là della politica. Una rivoluzione popolare contro il neo-liberalismo, senza leader, fatta dal basso, dalle assemblee di quartiere, che sono riuscite a durare anche in piena pandemia e in condizioni terribili, riportano a galla il disegno «popolare proposto dalle community di art.comm» (vedi G. Perretta,art.comm, Castelvecchi Roma 2002). 

Ricorda la Nancy Fraser in un libretto recente denominato: What should Socialism mean in the 21st Century, che per decenni la parola socialismo è stata fonte di intoppo come fosse la reliquia di un’era passata. Mentre decostruisce i pilastri su cui si fonda il capitalismo neoliberista, la Fraser, apre la pista ad una meditazione nuova, per costruire finalmente una proposta politica seria che possa essere una vera alternativa socialista all’ordine dominante: che non si limiti a trasformare l’economia attuale, ma porti con se anche un cambiamento ecologico, femminista, antirazzista e democratico. 

Due sono i temi fondamentali nella sua meditazione e qui esaminati: “Evitando il free riding e l’accumulazione primitiva, il socialismo deve garantire la sostenibilità di tutte le condizioni di produzione, che il capitalismo ha così insensibilmente spazzato via. In altre parole: la società socialista deve impegnarsi a rinnovare, riparare o sostituire tutta la ricchezza che utilizza nella produzione e nella riproduzione. Deve reintegrare il lavoro di cura e lavoro di creazione delle persone come il lavoro che produce valori d’uso o merci” (Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo? , tr. di A. Gasparini, Castelvecchi Roma 2020, p.39).