Gabriele Sassone. foto di Piotr Niepsuj

Sul lavoro interiore: Gabriele Sassone

Chiunque abbia letto o visto Henry Potter e la pietra filosofale – m’inorgoglisco per i miei riferimenti raffinati – sa benissimo che gli unicorni non si toccano: il sangue di questi animali, quintessenza del bene, dona infatti lunga vita, ma condanna a un’esistenza disgraziata. Nel romanzo di Gabriele Sassone Uccidi l’unicorno, la creatura appare al protagonista in piena notte, mentre si trova a scrivere l’intervento per un convegno in programma la mattina successiva. Un ospite importante ha perso il volo e lui è il rimpiazzo designato. Così, in uno stato di allucinazione causato dalla veglia, il delitto si consuma. Questo significa uccidere l’unicorno: rinunciare, in nome di un ingresso (dalla porta di servizio) nel mondo dell’arte, al meglio della vita. A quali condizioni? Lo abbiamo chiesto, tanto per cambiare, all’autore, che insegna Critical Writing alla Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e collabora con Il Foglio, Mousse Magazine, Camera Austria e Flash Art. Uccidi l’unicorno. Epoca del lavoro culturale interiore (Il Saggiatore, 2020, Euro 19.00) è il suo primo romanzo.

Il sottotitolo del tuo libro: Epoca del lavoro culturale interiore. Avresti potuto sostituire “inferiore” ad “interiore”. Chiarisci infatti come il sistema dell’arte, nel quale circola una quantità di denaro davvero fuori dal comune, si fondi sul lavoro sottopagato o addirittura gratuito di migliaia di persone.
È vero. Il lavoro culturale tanto è interiore quanto potrebbe essere inferiore. Se ci pensi, la base della piramide è composta da migliaia di persone che accettano qualsiasi condizione pur di raggiungere una posizione più stabile nel mondo della cultura. Nel romanzo, questo periodo dalla durata indefinibile lo definisco “la cosiddetta gavetta di ‘sto cazzo”.  Poi per fortuna ha prevalso la dimensione interiore che cerca di compensare gli effetti del lavoro estensivo: quello che tracima le classiche otto ore giornaliere e rende la vita una perenne messa in produzione; e inoltre quello che ti entra sotto la pelle, si radica nelle ossa e – da quella profondità – inizia a modificarti. A cambiare il tuo modo di percepire il mondo. Ecco, io cerco di descrivere questo cambiamento causato dal lavoro.

Hai anche scritto che “Il sistema dell’arte” è “uno dei luoghi in cui il postfordismo ha trovato pieno compimento”. L’artista, in parole povere, non obbedisce a un padrone in carne ed ossa, ma a “dispositivi di potere”.
Ho deciso di raccontare alcune vicende di artisti (famosi e non, contemporanei e non) per descrivere come il loro mestiere col tempo si sia modificato. Certo, l’attività principale rimane la produzione di opere d’arte e di mostre e via dicendo, eppure c’è molto altro ancora da considerare. I rapporti con l’economia o con la burocrazia per esempio. Quelli con la comunicazione. Perciò anziché riferirmi ai soliti valori, quali il piacere estetico o l’emotività, ho tentato di collocare la figura dell’artista dentro le dinamiche di mercato. A un certo punto, per provocazione, scrivo che l’artista non lavora in fabbrica perché la fabbrica l’ha costruita dentro di sé.

Non a caso hai parlato, con Paul B. Preciado, di “femminizzazione del lavoro”.
Be’ sì. Ne parlo per riuscire a spiegare la mia disperata ricerca di un’occupazione in seguito a un apprendistato in galleria. È il 2011 e io sono in piena gavetta. Senza accorgermene mi trasformo in una specie di agente porta a porta: frequento tutte le inaugurazioni, cerco di recuperare numeri di telefono e indirizzi email, di allargare la rete di contatti. Sono affamato di occasioni. Non ho un bel ricordo, anche se qualche episodio ora mi fa sorridere. In quel periodo, sopra alla fototessera della mia carta d’identità tengo un foglietto con un teschio stilizzato, tipo quello dei pirati, e appena sotto, a mo’ di didascalia, aggiungo questa frase: “La precarietà rende penetrabile anche il corpo del maschio”. È di Preciado.

Il titolo, Uccidi l’unicorno, deriva invece da una canzone dei Savatage. Ti rispondo citando i Pink Floyd: “Togheter we stand, divited we fall”. Non credi che il sistema vinca sempre perché i lavoratori – a cominciare dagli artisti “giovani” – sono soli come il Cane interrato nella rena di Francisco Goya?
È probabile. Negli occhi di quel cane che affonda rivedo i miei. Goya l’ha dipinto nel periodo più difficile della sua vita, quando era sordo e anziano, e quel piccolo animale continua a comunicare tutta la sua solitudine anche a duecento anni di distanza. La prima volta che lo vedo al Prado è nel 2006; mi mancano ancora due anni di laurea specialistica, ciononostante capisco che la strada per diventare un professionista sarà un continuo avanzare nel fango, con il collo che affiora per pochi millimetri, in mezzo all’indifferenza generale.   

Veniamo al libro vero e proprio. Taluni commenti della dramatis persona, come la stroncatura del Grande Vetro di Duchamp (ma non delle impressioni suscitate), “potrebbero apparire le semplificazioni di una persona confortata dall’assistere alla disfatta della cultura”. Ammettendo per un instante non lo siano – “il moralismo”, come afferma Marco Meneguzzo, è “il peccato mortale del modernismo” – quali strategie di resistenza suggeriresti agli “emergenti”? Che cosa significa oggi rendersi “immarcabile”?
Io insegno Critical Writing alla NABA di Milano, nel Dipartimento di Arti Visive. Ai miei studenti ripeto ciò che ho sentito dire da quelli più bravi e più esperti di me. Verso la fine del libro, nella parte dedicata al rapporto con i propri maestri, cito una persona molto speciale, che mi ha sempre incoraggiato. Nei momenti di sconforto, che tornano ciclicamente, mi ricorda di non avere fretta e di continuare a lavorare. Ecco, direi che questa è una buona strategia: avere fiducia nel proprio operare senza farsi distrarre. 

Le pagine più divertenti, nonché ricolme di segni criptici e indizi sepolti, sono quelle in cui smentisci la percezione comune di un’arte accessibile, per tutti, accompagnandoci nei party e nelle inaugurazioni riservate… 
Nel 2008, appena laureato, già dalle prime esperienze intuisco che il sistema dell’arte sia tutto fuorché inclusivo. Accedere alle situazioni utili ad allacciare rapporti, tipo cene e inaugurazioni, è come superare un circuito di allenamento alla sopravvivenza. Un ostacolo dietro l’altro. Tutti i professionisti conoscono queste dinamiche eppure le esaminano poco, ne scrivono ancora meno. Anzi, quasi sempre le confinano nell’aneddotica. Io invece queste dinamiche le considero alla pari di documenti. Per esempio, raccontare la serata in un bordello in Svizzera per festeggiare l’apertura di una mostra mi permette di allargare il discorso, di descrivere i rapporti di potere fra artisti, galleristi e collezionisti e le politiche alla base del mercato culturale.

Se il sistema dell’arte, come scriveva Rosenkranz, “non solo è grottesco ma è anche grossolano, lascivo, rozzo, lubrico, buffonesco, osceno, ripugnante, goffo, orrido e nauseante”, che senso ha fare la fila per entrare? 
Quante volte me lo sono chiesto. Che senso ha il percorso che hai fatto? Perché scriverne addirittura?
Io c’ho messo più di cinque anni a realizzare il libro. Tempo sottratto ai rapporti personali, al riposo, al divertimento. Inoltre è stato complicato perché ho deciso di sovrapporre temporalità e registri di scrittura diversi, che spaziano dal romanzo, al saggio, al memoir. È come mischiare il Giuseppe Berto del Male oscuro con alcuni brani teorici di Boris Groys. Alla fine ho concluso che l’obiettivo non è spiegare il senso di questo sgomitare verso il sistema dell’arte né, tanto meno, verso l’età adulta; al contrario, serve porre alcune domande per fare in modo che ognuno possa trovare le proprie motivazioni.   

Altre due domande “retoriche”, che rispedisco al mittente: “Che cosa significa organizzare un evento culturale mentre attorno a noi la vita si stravolge? Che cosa significa fare esperienza di una mostra attraverso lo schermo?” 
Queste domande le avevo scritte molto tempo prima della pandemia. Poi, un anno e mezzo fa, quando davvero il mondo è stato stravolto, mi sono aggrappato a simili riflessioni per relativizzare alcune assurdità che ho letto su newsletter e comunicati stampa. Frasi del tipo: “nonostante la situazione di emergenza, la galleria XY non si ferma e vi invita al virtual tour della mostra”. E allora mi sono chiesto se, per assurdo, la Gioconda o la Pietà siano un argomento valido per ritardare la fine del mondo. Davvero l’arte è necessaria?  

Lo spazio: nel tuo libro è tutto concentrato nella casa. Il “biloculo”, per dirla con la moglie del protagonista, non è più locus amoenus, paradiso degli affetti, ma inferno lavorativo. È tempo di uscire fuori di casa?
Sono sincero. Fin da piccolo ho adorato stare dentro le mura di casa. Gran lettore e gran giocatore di videogame. Ma oggi, dopo l’esperienza del primo lockdown, che davvero è stata un inferno, ho perso il mio equilibrio. È la prima volta in cui non riesco a desiderare qualcosa. Tanto lo stare in casa, tanto l’uscire con queste modalità mi risulta difficile. Sono frastornato. In questo preciso momento, vale a dire giugno 2021, mi pare di vivere in una strana dimensione temporale, in cui trovo assommati gli aspetti negativi della pandemia e del periodo precedente.   

Ma uscire poi per fare cosa? Di sicuro non per incidere sulla vita degli altri “attraverso la produzione di oggetti di lusso”. 
Allora, io ho la fortuna di essere papà di un bambino di tre anni. Grazie al suo modo di conoscere il mondo, anch’io sto cercando di imparare a conoscerlo una seconda volta. Per quanto mi riguarda, scrivere è il modo migliore per fare il punto della situazione, per capire qualcosa in più di me stesso, del perché sono così e agisco in un certo modo, per capire che cosa mi fa paura e che cosa desidero.  

Il protagonista del libro scrive pressappoco che, se Pollock si fosse candidato a presidente e lui fosse vissuto in quel tempo, lo avrebbe eletto senza pensarci due volte, essendo il suo “il gesto isolato e insindacabile di un uomo in grado di liberare tutti gli altri individui oppressi dalle costrizioni della società moderna”. C’è, in Italia, qualche artista che ti sentiresti di votare?
Sì, e si chiama…

A me purtroppo viene in mente solo un critico che, come lui stesso è solito definirsi per difendersi negli innumerevoli processi in cui è trascinato, è soprattutto un “comico”. Quale ruolo per la critica nell’epoca del mercato onnipossente e dell’artista tuttofare?
Eh, purtroppo ti rispondo con la cosa più scontata: ricominciare a fare critica.Io stesso collaboro con riviste e giornali, però lo spazio per riuscire a raccontare alcuni episodi e per dire che cosa penso del sistema dell’arte me lo sono conquistato al di fuori, con un registro di scrittura e uno sguardo diversi dal giornalismo o dalla critica d’arte. È grazie all’intuizione di Andrea Gentile e a al lavoro di tutto lo staff del Saggiatore che ho avuto la possibilità di rischiare, di scrivere una sorta di romanzo critico. 

Siamo tornati al punto di partenza. Concludiamo con un selfie o con una diapositiva? [ride]
Preferirei con una stretta di mano.