La rottura del dialogo, non c’è dubbio, è tra i mali della nostra epoca…
Nel nostro mondo i dialoghi sono sempre multipli, non c’è mai un solo dialogo. La rottura del dialogo, dunque, racconta le ferite profonde di correspondances, spesso nate prima che si arrivi ad aprirsi alla conoscenza. La rottura del dialogo, il principio di castrazione, la forzatura e l’interruzione della parola si innesta sulle debolezze cavalcate da una società in cui tutto è corpo e niente si può sfiorare. La cultura dei corpi sta organizzando il suo distanziamento, prospera grazie ai ritmi frenetici del vivere e all’assenza di comunicazione. E può segnare per sempre un contributo alla comprensione o al suicidio della parola. A meno che…
Prevenire la castrazione della parola si può. Basta tentare il dialogo non una, ma due, tre… ennesime volte. Quando serve e sempre con una speranza diversa. La stessa che ci è cresciuta accanto, che è cambiata come tutti cambiano con il trascorrere della vita, che riconosciamo diversa ma ancora l’altra metà del nostro essere uno. Come dicono Mehler e Dupoux: “Difendere il concetto di natura umana e mettere in evidenza i caratteri del prototipo umano non equivale necessariamente a condannare ogni forma di psicologia che si occupi delle differenze. […] Il reale non contiene, allora, solo un’infinità di differenze …[…] (Appena nato, Mondadori, Milano, 1992, pp. 230-32). Per questo affermare il dialogo, la pratica delle corrispondenze significa privilegiare l’unico e la differenza di esso.
Celibi per sempre, direbbe Marcel Duchamp, ma per sempre in dialogo: «Ci sono momenti dell’esistenza in cui è necessario ridefinire il dialogo, ritrovare le ragioni di una poiesis che cambia, altre e nuove dimensioni dell’affetto». Ingeborg Bachmann esponeva, con In cerca di frasi vere, la reiterazione, possibilmente infinita, della parola e del dialogo della parola. Senza cerimonie, ne basta una, la prima, è sufficiente guardarsi negli occhi con sincerità, disponibili a fare il punto della situazione, pronti ad aggiustare il tiro, a trovare obiettivi inediti da aggiungere al progetto comune, ad accantonare quelli ormai superati. La castrazione della parola è spesso l’esito di un adulterio più profondo, che riguarda i valori su cui la parola si fonda, le semantiche segrete tra i dialoganti, la corrispondenza biunivoca nell’attinenza della parola. La castrazione della parola è difficile da perdonare, ma non è imperdonabile. Ci vuole tempo per smaltire la rabbia, per superarla: è un processo lento, non a buon mercato. Tutto dipende dalla capacità di rielaborazione della parola, dalla voglia di mettere in campo tutte le risorse per andare al di là di una semplice concordia. Lo sterminio della parola è stato giustificato, filosoficamente spiegato, metodicamente preparato, sistematicamente perpetrato dagli iconografi più pedanti che siano mai esistiti; esso risponde a una intenzione sterminatrice deliberatamente e lungamente maturata. È l’applicazione di una teoria dogmatica che esiste ancora e che si chiama silenziamento forzato. Nell’universale amnistia morale concessa da molto tempo agli assassini, le vittime del parolicidio hanno soltanto la critica che pensa a loro. Se cessasse di farlo, finirebbero sterminate, come è stato per G. Ribellì sarebbero state annientate definitivamente. Le stragi della critica dipendono dalla nostra fedeltà alla parola. Questo è il motivo per cui perdonare non significa dimenticare. I dialoghi che sono scomparsi per sempre non esistono più, dando spazio al diffondersi della coltre di fango del trash e delle fake news. Il passato, come le parole soppresse, ha bisogno di noi; non esiste che nella misura in cui noi lo consideriamo. Dunque, bisogna tenere vivo il ricordo di questi verbicidi, per non consentire che ricadano nel Lago Oscuro e che le parole siano per sempre inghiottite dalle tenebre. E cosa può far sì che il nostro pensiero si possa opporre al Lago delle tenebre? Il nostro vuole essere un invito a leggere e diffondere il dialogo, perché un po’ tutti si decidano finalmente ad aprire gli occhi, concretamente, senza palliativi, schermi, diaframmi pseudoumanitari, sull’importanza e l’imprescindibilità della lotta contro il silenzio forzato. Onde prevenire le disastrose conseguenze, ed estirpare le cause all’origine, bisogna operare attraverso l’arte, la poesia, le infrastrutture comunitarie e sociali, perché la parola mancata è un male distruttivo. Essa annulla l’uomo e la donna: il dialogo interrotto tra i due, anziché mantenerli come soggetti, li schiavizza, anziché renderli liberi, li fa simili al mutismo dell’immagine, facendoli precipitare oltre il segnale di guardia ai limiti dell’insensibilità, della criminalità iconografica, dell’autodistruzione della società dello spettacolo.
Uccidere la corrispondenza con la castrazione della parola è omicidio.
Al giorno d’oggi il delitto è piuttosto diffuso e di omicidi – nello stesso senso di Penelope Lacordella in viaggio — ne circolano parecchi a piede libero, mentre la repressione del dialogo scivola tra le maglie e i guinzagli di una morale sempre più permissiva, derubricata a peccatuccio.
Ci sono correspondances che, in nome dello spontaneismo passano al poeticidio, in questo modo esponendosi a un dolore profondo, tanto per chi subisce l’inganno tanto per chi lo infligge. Sì, anche per chi lo infligge, perché il poeticidio intacca l’identità del traditore e del vigliacco, che si vede costretto nella morsa dei suoi stessi inganni e che per lenire tale sensazione deve necessariamente continuare a rimuovere reiterando l’omicidio, normalizzando lo stato di guerra trash. E chi non si riconosce comincia a chiedersi chi è, cosa vuole, dove sta andando … con tutte le conseguenze che ne derivano.

Charles Baudelaire ha in serbo un’altra brutta notizia: nessuno può sentirsi al sicuro, immune dal tradimento: perché alla sottrazione della poesia ci si prepara, disponendosi – inconsapevolmente – in una condizione che la favorisce. L’unica cura — spiega Baudelaire — è la frequentazione delle puttane, l’elogio dell’innocenza delle puttane, direbbe Walter Benjamin: “Perché nel bordello e nella sala da gioco c’è lo stesso peccaminoso godimento: porre il destino nel piacere. Solo degli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura sia, possa determinare il concetto teologico del peccato. Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere dal corso della vita con Dio, il cui legame con questa dimora nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Quest’elemento sobrio e in sé privo di destino – il nome – non ha altro nemico che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione. Di qui tanto nel giocatore che nella prostituta la superstizione, che fissa la figura del destino, riempie ogni conversazione amorosa con una saccente bramosia di destino, e davanti al trono di questo umilia persino il piacere” (Walter Benjamin, Parigi Capitale del XIX secolo, a cura di Rolf Tiedemann, Einaudi, Torino, 1986, pp. 635-6). Grazie a ciò, insieme a Walter Benjamin, possiamo riprenderci il rapporto con Asja Lacis, quest’ultima non ha avuto a che fare con il fotograficidio e con le trasposizioni metaforiche, applicate male, dei meati e che utopicamente volevano ricordare strade a senso unico. Le differenze le abbiamo ritrovate nelle in.finite vie di toni e, in questa in.finità c’è la memoria di Ribellì, come quella della Lacis, ma non ci saranno più, mai più, le immagini irrisolte colpevoli di parolicidio.
Les correspondances vanno nutrite e coltivate, devono durare tutta la vita e non basta trascinare avanti le illuminazioni, fedeli e tristi, basandole sulla sopportazione, piuttosto che sulla poesia. La profilassi anti-correspondances richiede una serie di strategie. Dato che è principalmente nell’ambiente creativo che si nascondono le tentazioni, bisogna trincerarsi dietro una netta separazione tra ciò che è pertinente alla pratica poetica e ciò che inerisce alla relazione letteraria: «Ogni intimità con musicisti, registi, scenografi, etc … rappresenta un rischio. Bisognerà essere disponibili, accoglienti e collaborativi sul piano lavorativo, ma non entrare solo nella sfera timica, in intimità spirituale, in sintonia affettiva. E se una simpatia c’è, tale deve restare: l’artista che ho scelto di individuare è quello che mi ha emozionato, quello con cui mi abbandono fiducioso alla confidenza e all’intimità poetica perché l’ho scelta. Ho scelto di aiutarla a vivere l’arte e siamo due esseri che dalle rispettive diversità ricevono impulso per la crescita della propria tecnica artistica».
Vi sono di certo nel nostro corpo e nella nostra dimensione artistica, e quindi nel cervello dell’arte, pozioni capaci di sviluppare comportamenti che possiamo o no essere in grado di escludere, attraverso una forte determinazione estetica e virale dell’arte. L’arte, le corrispondenze, la sperimentazione dello spirito di condivisione, la disciplina collettiva di costruzione di un processo creativo non sono il risultato di una regolazione neurobiologica, conscia ma individualista, non possono negare la possibilità dell’altro e il libero arbitrio. Esiste una vera arte, un processo comunitario di costruzione semiotica, timicità e affezione di correspondances. L’arte è vera, la condivisione è sincera, la relazionalità è genuina, se io non fingo riguardo alle mie tensioni espressive, se io davvero mi sento partecipe di un sentimento collettivo, se io veramente sento di spendere e spandere poiesis. L’autenticità del sentire, la grandezza del sentire artistico, la bellezza del sentimento espressivo, non sono compromesse dal rendersi conto che il cervello e un’educazione estetica adeguata hanno molto a che fare con il “sentire”.
Il trash, invece, non ci lascia respirare: pendiamo dalle labbra dei suoi sanguinanti attori, ogni volta investiti da nuove sorprese, da imprevedibili rivelazioni, da straordinarie coincidenze. Chi è che dice la verità? Meneceo, Giocasta, Laio, la Sfinge o Glap? Tutti o nessuno? O forse la morte stessa della parola? O magari il volto sanguinario di Glap? O è tutta un’illusione della società dello spettacolo, attraversata da segnali che sono infidi barlumi, che alludono a un disegno incomunicabile, voci plurali di un maleficio che si nasconde dietro alle immagini fotografiche, contro la parola? Forse le strategie dell’occulto – osserva Glap un momento prima di entrare nelle tenebre assieme alla fotografia della Pizia -, ammesso che esistano, potrebbero godere dall’alto una certa visione di insieme, sia pure superficiale, di questo nodo immane di avvenimenti inverosimili che danno luogo, nelle loro disseccatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate. Mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio, brancoliamo disperatamente nel buio alla ricerca della verità. Coi nostri libri sacri sia tu sia io, cara Asja Lacis, abbiamo sperato di portare la timida parvenza di una parola in una strada a senso unico, il tenue presagio di una qualche legittimità del truce, lussurioso e spesso sanguinoso flusso di eventi dai quali siamo stati travolti, proprio perché ci sforzavamo di arginarli, sia pure soltanto un poco. Ma non ci siamo riusciti. La storia non è ironica, sulfurea, dissacrante, come si ci potrebbe immaginare o, per lo meno, non è solo questo. L’irriverenza, la furia iconoclastica, il gusto grottesco di demolire, affidandosi all’intelligenza degli altri, appartengono ai poeti tanto quanto eterne domande sul caso e la necessità, sulla causa e l’effetto, sulla maschera e il volto come duplici insegne dell’uomo e della donna. Quante inestricabili truffe, travestite da criptiche sentenze, ha intessuto Glap!
Premessa alla lettera per Carla Lonzi…
Nel 2017 Angelo Shlomo Tirreno scriveva questa lettera indirizzata a Carla Lonzi, un esule del pensiero femminista radicale, da Parigi studioso di filosofia e diritto sociale che un anno più tardi, entrato intanto nei ritrovamenti dei diari di Gerard Ribellì, sarebbe stato accerchiato dalle forze dell’Occulto taurinensi e deportato fuori dalla stampa culturale. Quel sessantenne sarebbe diventato lo scrittore e critico d’arte Angelo Shlomo Tirreno, detto Ismael Shlomo Ribellì. E della possibilità, delle difficoltà e dei compiti, di una vocazione parla questa lettera: della vocazione della letteratura. Perché vocazione? Perché scrivere è un’azione grave, che non lascia indenne chi la pratica e chi l’ascolta o la legge, ci avverte Ismael Shlomo Ribellì: non è un gioco da apprendisti stregoni. Né ci si può affidare alle sole risorse del linguaggio, come se dà uno spontaneo prolungamento del linguaggio sbocciasse, da sé sola, la scrittura. Ismael Shlomo Ribellì, in forma di autocoscienza, riconosce e indica quella malattia del 900 e chiama la disperazione letteraria, quella che si impadronisce dello scrittore quando dispera della letteratura e per sua stessa causa. Contro tale disperazione, Ismael Shlomo Ribellì non si stanca di ricordarci che, quando si è scelto il cammino della scrittura e dell’interpretazione dissidente, si è scelto un compito infinito, che non può essere dismesso come un vestito logoro o fuori moda. La letteratura: esercizio vano e pericoloso, ma che misura in maniera implacabile il grado di realtà spirituale, al quale è stato concesso all’uomo di arrivare; afferma una pratica organica, strumento imparagonabile con qualsiasi altro mezzo di affermazione della parola.

Mia cara Carla Lonzi,
il tuo amico Ismael, tempo addietro, dichiarava di apprezzare quelle che chiamava le mie riflessioni; e quanto mi scrivi, degli scrupoli che ultimamente ti sono venuti sulla tua vocazione letteraria, mi fa venir voglia di indirizzartene una. Anch’io, spesso, mi sono chiesto quali giustificazioni offrire per questa intatta fede nel valore dell’autocoscienza, quali radici possa mai avere da renderla così tenace; al punto che quando degli amici – la cui vita interiore, so bene, può sussistere senza scrittura – mi confessano la loro pigrizia, provo una qualche sorda tristezza, per rinfrancarmi solo davanti alle prove materiali della loro attività. Tra i fotografi oggi va di moda disprezzare l’atto di scrivere, sospirare quell’istante quando, finalmente, si sarà oltre la parola. E, intanto, ognuno sa che, altrettanto o ancora meno di quanto l’amore non abbia come fine la procreazione, ciò che conta non è certo il poema, esito irrisorio e in fin dei conti indifferente, ma conta solo l’esperienza interiore che l’ha generato: i più forti, così si crede, sono coloro che effettivamente tacciono dopo che li hanno costretti a tacere. Silenziosamente condannati alla riflessione post-mortem di Ribellì, la scrittura, dinanzi ai tuoi libri alle tue produzioni letterarie, arrossisce della sua materialità, della sua tensione, del suo desiderio di liberazione, e trova pace solo quando ha riguadagnato – senza essersi fatta troppo notare – quel silenzio dal quale non sarebbe mai dovuta uscire, se non fosse stato per l’uccisione della sua stessa parola. Un’introduzione alla scrittura auto-coscienziale (come l’hai definita tu e come l’ha definita la riflessione sul tuo lavoro di Maria Luisa Boccia) costituisce sempre un problema, soprattutto perché ciò che fa problema, nella tua opera, è proprio il singolo soggetto o la singola esperienza umana. Questo singolo soggetto è tanto importante, quanto è imprescindibile e, proprio per questo, pone una domanda importante: il soggetto è sia nel bene che nel male? Non c’è dubbio che la questione della scrittura auto-coscienziale, alla quale tutto è concesso rispetto ad altre forme possibili di comunicazione, pone una differenza tra soggettività deviata e umanità femminile, azione femminile… La scrittura deve diventare il proprio scacco e, nella fucina poetica, chi deve entrare per evadere subito, senza sostarvi quel tanto o quel troppo che basti a dichiararsi solo donna? Ma, prima di archiviare ogni indagine sui personaggi femminili, che hanno caratterizzato questo ciclo di scritti sulle figure che abitano il territorio taurinense e capeggiano l’Istituto dell’Occulto, occorre riflettere sul fatto che l’avversione nei confronti della cattiva azione di qualche soggetto donna, soprattutto in polemica con l’assolutismo hegeliano di alcune di esse, mosse letterariamente alla pratica del male, non significa prendersela con qualche genere o sui generis con qualche donna, ma ammettere soltanto che anche fra le donne ci possa essere una Giselda Brebbia o una Regina Terruzzi e tante altre che non sono la totalità dell’umanità femminile, ma il simbolo del male. Non è che solo perché si è donna, si è salve e non si può essere fasciste. Ormai è chiaro che cosa significa nel linguaggio di Gérard Ribellì questa apparente opposizione, non certo un rifiuto totale tra la scrittura auto-coscienziale da te introdotta e qualche soggettificazione del male come Glap, nei miei stessi racconti. Nonostante ella non abbia mai cessato nella sua vita di contrapporre alle terres de Tresor dell’intimismo della Bachmann, la banalità di una squallida fotografia, per portare degnamente il nome di Penelope Lacordella in viaggio, non ha fatto altro che seminare odio, rancore e vigliaccheria. Noi abbiamo il grande dono della parola. Con essa comunichiamo ai nostri simili i desideri, i divisamenti, i convincimenti di ogni genere. L’animale che non ha questa grande virtù, né ha intelletto, si fa intendere coi movimenti; ma i desideri che ha, si riducono a pochissimi istinti. L’uomo e la donna, con la loro perfezione sensitiva e le capacità intellettive del loro spirito, colorano, amplificano, giustificano, approfondiscono anche le più materiali sensazioni. L’animale recalcitra alla vista di un’ombra, poiché non è in grado di intendere se quella costituisca veramente un pericolo: ne ha avuto solo la sensazione, l’istinto si è gettato alla preda di tutte le sue forze. L’uomo e la donna non soggiacciono giammai alla prima impressione. Possono, per un imprevisto, subire anche una grave sensazione di paura; ma la ragione, che si rizza di subito, penetra, chiarisce, organizza, deducendo se sia in pericolo, qual pericolo corra e come possa opporvisi.
Dunque, la vera grande virtù degli uomini e delle donne è la ragione; ma il mezzo più completo ed efficace di essa è la parola, che rende intellegibile a tutti Il pensiero di un singolo. La parola, invero, è l’espressione concettuale della cosa; è ciò in cui la cosa formalmente ed essenzialmente si chiarisce. E tu l’hai fatto con Autoritratto. La parola è quella che ha reso intellegibile anche la tua espressione per sentenziare: «sputiamo su Hegel». La parola ha bisogno di parole; è, cioè, ciò in cui le cose formalmente ed essenzialmente si chiariscono e si oppongono al silenzio. Ma esse, perché siano intese, hanno bisogno di concretizzarsi in un’apposita grafia, in un complesso di suoni che corrispondono a dei colori, ad una forma, alla forza dell’oggetto chiarito e di corpi che ne fanno la differenza. Senza di che, e pur con la medesima intelligenza, gli uomini e le donne potrebbero intendersi tra loro, ma con non poche difficoltà. Le difficoltà che io stesso ho provato nel momento in cui la nostra parola, la mia parola così come la tua, quando strumentalmente è stata usata dalle ideologie, si sono sentite reprimere. Una società di silenziati, infatti, non sarebbe ideale, poiché tarda, impacciata, con molte minori esigenze e un apparecchio tecnico diversamente attrezzato sarebbe la rappresentazione reale di ciò che oggi, attraverso il trash. è divenuta la società del suo stesso spettacolo. Vero è che l’occhio sarebbe più intelligente, ma vi mancherebbe la parola. Ed è come dire che, a chi ha un grande spirito manchi la possibilità di esprimersi o di ammirare.
Tu stessa cara Carla hai scritto Taci, Anzi parla, diario di una femminista, e in questo diario hai tracciato le sorti di una politica che ancora oggi rimane di fervida attualità. Quindi tu stessa sai che la parola è il più celere, preciso, chiaro mezzo di comunicazione che esista fra gli spiriti: celere quanto il ragionamento della differenza, chiaro quanto il più elementare disegno geometrico. La parola è né più né meno che il riflesso del nostro pensiero, come leggere è il riflesso della voce e la figura specchiata il riflesso della nostra persona. Senonché, la parola in sé e per sé non avrebbe alcun significato, perché abbia un significato, deve appartenere a un complesso di altre parole, disposte in ordine logico-concettuale. Allora essa diventa l’espressione dei concetti della nostra mente ed è, quindi, intellegibile anche per te. L’autenticità di Vai Pure è un po’ come Il gergo di Essere e tempo di Martin Heidegger: vittima del progresso e della regressio della liberazione del rivelato, dal momento che le parole per arrivare alla loro funzione devono passare sotto le forche caudine della rivelazione. Ma cos’è la rivelazione? Forse è la psicosi dell’autenticità? Secondo te l’omertà erutta dalla rivelazione, qualcosa che è molto vicino alla veggenza, alla verità di fede, al diretto intervento della divinità. Il nome greco del libro biblico di Rivelazione, apocalipsis, significa scoprimento o svelamento, come se molte delle profezie debbano ancora adempiersi e fra esse vi fosse il gergo dell’autenticità separatista più che auto-coscienziale. Il gergo dell’autenticità, criticato da Adorno, è quella forma di linguaggio sorta dall’interpretazione dell’ontologia dell’autenticità. Noi enunciamo gli effetti sociologici del linguaggio di Vai pure, che da te viene definito un gergo longhiano. Le immagini adottate, cara Lonzi, vengono definite come un gergo, perché esse stesse e le metafore adottate da Vai pure, allo scopo di descrivere la rottura dell’omertà del rapporto a due, rispecchiano ideologicamente una forma di vita sociale ambigua ed anacronistica, come quella del mondo dell’autocoscienza assoluta. Una società basata sulla separazione, effettivamente chiusa e distinta, come fa ad essere superata dal magnetofono che ha registrato l’intimità tra te e Pietro, o dai soggetti che ne hanno estratto la svelatura. La chiacchiera, la curiosità, l’angoscia e l’essere per l’autocoscienza assoluta si contrappongono ad altre verità.
Le registrazioni di Autoritratto rappresentano un documento storico di un momento della vita di quei quattordici artisti. Col passare del tempo, quella dimensione, privata e innocente, ha scartato il bisogno di salvezza. Quando nel 1970 hai lasciato la professione di critica d’arte, la critica era già, anche prima del tuo articolo su Ben Shahn per la rivista Paragone. Forse nel ‘54 ti sei iscritta al Partito sbagliato, un Partito di ferrei hegeliani.
Mi pare che ormai dobbiamo imparare a convivere con una quotidianità accompagnata dal nostro sé. È la prima, ma è una lunga volta, per la nostra generazione. Ci siamo mobilitati contro guerre lontane, anche queste ormai croniche. Abbiamo osservato conflitti estetici ed etici con il distacco tipico gli abitanti del primo Mondo: Mondo 1, Mondo 2, Mondo 3… abbiamo visto il trash avvicinarsi con le sembianze del maestro del camp, con un senso del tragico intriso di rara lucidità pragmatica e realistica, definire la guerretta tra archeologia del cripto e del proto imperialismo del Trash. Una cultura che ha perso il senso del tragico di fronte al riapparire dei profughi della post-avanguardia, degli apolidi della catastrofe del 900 e dei risultati dell’Industria culturale Europea, ovvero della sua politica e vita neoliberista. Le risorse collettive e lo spazio pubblico europeo sono stati mobilitati, negli ultimi anni di crisi, per raggiungere i parametri dell’imperialismo proto-trash. Ci siamo svenati per avere lo scudo all’apoteosi dell’etica protestante e lo spirito del capitalismo, mentre ai confini di questo debole spazio di commistione, tra riforma religiosa e fedeltà economica, quale doveva essere il capitalismo, cresceva l’ipertrash, parallelamente alla società bodybuilder: voglio un’immagine magra, compatta e forte, in grado di muoversi a comando della volontà dell’autentico, con l’efficienza di una macchina; una scultura statuaria che raccolga i frammenti del poverismo, la muscolatura sviluppata dal ready made, per far apparire alternative di soggetti forti, rinnovare la spontaneità e la vitalità del corpo, per limitare seriamente la respirazione. Ora che il trash ci è arrivato in casa, siamo in guerra gli uni contro gli altri e a gruppi, a piccoli gruppi, l’uno contro l’altro spingiamo per mitigare tutti quei valori positivi che avevamo conquistato con l’autopoiesi della soggettività post ‘68. Le strategie politiche hanno trasformato la critica alla riproduzione in apologia del digitale integrato, l’arrivismo veterogroupie si è mosso contro il femminismo democratico e libertario, contro l’Al di là del bene e del male, per una maschera del male assoluto. Non so se hai notato, anche se a te «da lassù» non so cosa veramente ti importa di notare, ma sempre più nei media si definisce mondializzazione e globalizzazione, liquidità e totalitarismo, pensiero unico e turboliberismo come l’alleanza del bene col male. L’estetico che sopprime l’etico, a sua ragione ha visto l’allargarsi, al Sud come al Nord, dell’aggettivo micro e macro Trash, contro qualsiasi ecologia della mente. Questa denominazione mi ricorda la preponderanza del male assoluto: lì nell’abisso del male, quello che non è solo privatio boni, non è solo antietico e consiste in qualcosa di più di un affondo nietzschiano o baudrillardiano, ma che superando se stesso diviene dominio assoluto della coscienza del male del capitalismo maturo.
Questa violenza, da male prossimo, mi fa sentire una carenza di memoria. Mi manca mio zio con cui vorrei parlare della sua guerra e della sua resistenza, della sua lotta per la giustizia giusta, dell’internamento nei campi di concentramento dei miei parenti. Mi manca la vera domanda sui diritti dell’uomo/donna; mi manca una domanda profonda sulla bioetica, quella sull’eugenetica, il rispetto dell’altro (anche della donna sulla donna), la multiculturalità, il rispetto profondo della differenza sessuale. Mi manca un’etica che non sia un’estetica del capitalismo, un’etica che guardi veramente a tutti gli orizzonti di genere, all’altro, alla vita, all’affondo in qualcosa che vada al di là dei due generi di queste singole situazioni. Non una indeterminata etica dei principi, atta solo a denunciare ovunque un male radicale, un’estetica che si è mossa contro qualsiasi essere e contro qualsiasi ragione politica del suo essere evenemenziale, ma un bene che vada al di là della sterile denuncia del capitale trash, un’etica della verità concreta, verità della politica, della scienza, della poesia e dell’amore, che ci permetta di scovare le radici profonde e totali di identificazione del male e del trash e di combatterlo. Conflitti e sofferenze di cui tu e mio padre ci avete dato con le vostre poesie, con i vostri distici, con i vostri endecasillabi e liberi versi, epigrammi e monogrammi di memoria collettiva. C’è un malefico silenzio, circondato di discorsi sulla bontà del male minore sul male maggiore, della lotta tra la scrittura maschile e quella femminile, su quella della differenza contro quella dell’uguaglianza, sulle poesie che dipendono da noi e quelle scritte dal Capitale. La rappresentazione fotografica del «capitale che ti diminuisce» e la traccia writer del capitale che denunciando la diminuzione agisce per minorità e maggiorità, sostanzializzando la sofferenza degli stati e proteggendo le strategie degli oppressori, mira a spegnere le forze del bene. Noi abitanti dell’avamposto offeso, gli indignati da una finta indignazione, dai minoritari stile trash che utilizzano la maschera dell’utilitarismo per divenire maggioritarismo Camp, siamo immersi nella forma privilegiata della bulimia del sentire inutile e impotente. Il quotidiano lavorare, insegnare, ricercare con il trash a fianco della forma mediata dell’immagine di turno del mattino, dà conto dei bombardamenti di qualsiasi genocidio, e la videocrazia dà conto della fiction fotografica della Sera. Gli approfondimenti che toccano solo la superficie, o la mobilitazione dei buoni estetismi mascherati dall’indignazione si diluisce nell’emulazione di ciò che ci diminuisce in effettualità, ovvero ciò che veramente diminuisce per dirci.
Vedi, carissima Carla, i nostri sono tempi difficili. Tutto è finito nelle maglie della comunicazione capitalistica trash, strumentale ad ogni possibile forma di controllo del libero pensiero, con il consenso di tutti quelli che, in questo clima di buonismo liberal, riescono a crearsi il proprio entourage di followers e tanto basta! C’è da chiedersi se siamo noi a generare i fantasmi, oppure se essi possiedono una diafana e opprimente esistenza propria, che si è spinta al di là del trash e che ancora oggi procede sotterraneamente. Coscienza, inconscio, subconscio sono i labirintici bacini dove strategie di oppressione e verdetti di repressione vanno a trarre alimento, da ciò che un tempo tu individuavi come il campo dell’autocoscienza.
L’assassino che si nasconde dietro il tuo nome «non ha nome» e nulla sappiamo del suo volto, della sua età, dei motivi per cui ha ucciso. Il suo diario, scritto con un coltello indelebile, mira a una lucida e spietata autodifesa, ha un controllo da scienziato sui propri sentimenti e sulle ragioni altrui: ma compaiono le prime incrinature che si allargano a dismisura, fino all’allucinazione e all’ossessione. L’assassino, che vorrebbe nascondersi dietro di te, mira ad erigere un sistema contro i morsi della coscienza: si sforza di affidarsi alla ragione e alla logica della polizia, per tenere a bada i tormentosi spettri che lo assediano. Addirittura pretende di combattere contro l’incantamento funesto che deriva da certe parole.