Nel fitto intreccio tra memoria e arte, il lavoro di Stefano W. Pasquini si rivela come un archivio in continua trasformazione. Artista poliedrico, capace di spaziare dalla pittura alla scrittura fino all’installazione, Pasquini propone una mostra che è un viaggio intimo che prende origine dalla sua corrispondenza con Primo Levi nel 1984. Un dialogo, quello con Levi, che si trasforma nel tempo e si materializza in segni, parole e oggetti, tracciando una riflessione profonda sul lutto, la fragilità e la memoria. In tale conversazione, Pasquini ci accompagna lungo il sottile confine tra arte e vissuto, raccontandoci come il dolore possa farsi forma, come l’imperfezione diventi rivelazione e come il caso, nel processo creativo, possa restituire verità inaspettate. Un tragitto che ho scelto di proporvi come un breve e serrato dialogo con l’artista. Buona lettura.

Azzurra Immediato: Nel tuo lavoro, la memoria si sedimenta come materia viva, un archivio sentimentale che affonda le radici in una corrispondenza con Primo Levi e si cristallizza oggi in segni, parole e oggetti. Com’è cambiata nel tempo la tua percezione di quella lettera del 1984? E come la tua pratica artistica è riuscita a trasformare il dolore della perdita in un ponte con il presente?
Stefano W. Pasquini: Se non sbaglio, era Ovidio che scrisse che il tempo divora ogni cosa; dunque anche la memoria. Avevo giá lavorato sulla memoria nella mostra “Where does your memory go?” a Casa Morandi nel 2020 e tuttora, per quel che riguarda la nostra memoria collettiva e individuale, ho più domande che risposte. Dunque, quando riguardo quella lettera di Primo Levi, che probabilmente per lui era una delle tante, sono contento di vederla, di averla come memoria tangibile della mia e della sua esistenza. “Caro Stefano”, scrive. È bello pensare che quello Stefano sono io.

A.I.: Le opere in mostra – dalle lettere alla bandiera con la scritta Do you cry often?, fino al piccolo blocco di gesso con la frase Forgive me – sembrano evocare un dialogo interrotto, un bisogno di riconciliazione con la fragilità umana. Quanto è stato importante per te il gesto del “costruire” questi oggetti nel tempo? Ti senti più vicino a un atto di documentazione o di ri-scrittura emotiva della tua storia?
S.W.P.: In realtà nessuna delle due cose: la costruzione di un’opera d’arte – anche quando contiene la scrittura – è una necessitá diversa dalla parola, dalla poesia o dalla documentazione storica. È arte e dev’essere fruita come tale, a cuore aperto. Io non mi chiedo perché alcune frasi senza senso scaturiscono dal mio subconscio, o dalla mia memoria, e sento la necessità di trascriverle dei mie quaderni d’artista. So che hanno una loro funzione, e che devo farlo. Se raccontano della mia fragilità o della fragilità umana, o almeno fanno pensare a questo chi le fruisce, non può che farmi piacere. Qualunque pensiero emotivo susciti il mio fare è benvenuto.

A.I.: La scultura Sevèrine, finished nasce da un’imperfezione, da un danno che ha dato nuova espressività al volto originario. Questo tema dell’”errore” che diventa rivelazione sembra risuonare con il modo in cui la memoria conserva fratture, vuoti e imprevisti. Qual è il tuo rapporto con l’idea di casualità nel processo artistico? E quanto ritieni che l’imperfezione possa restituire un senso di verità?
S.W.P.: Io adoro le imperfezioni nell’arte, e le colature nella mia e nell’altrui pittura. Probabilmente, da eretico, trovo nella casualità proprio la chiave di lettura della nostra vita. Del resto, se non fossi nato figlio di un metalmeccanico a Casalecchio di Reno avrei fatto quello che ho fatto? E tu? Il poliuretano espanso – un materiale imprevedibile e assurdo – è stato perfetto per terminare quel particolare ritratto in quel particolare momento. Rileggendo la storia di Primo Levi e di Vanda Maestro, che si stringono nella notte nel campo di Fossoli prima di partire per Auschwitz (da cui lei non tornerà) mi sono convinto che quella versione di Sevèrine, finished fosse l’opera adatta per tagliare la narrazione tra il momento in cui Primo Levi mi risponde e la sua morte suicida.

A.I.: La tua mostra è stata pensata ed allestita nelle sale del Museo Ebraico di Bologna, un luogo carico di memoria collettiva e storie stratificate. In che modo il contesto del museo ha influenzato la costruzione del progetto? Ti sei trovato a dialogare non solo con Primo Levi, ma anche con la storia di un luogo che custodisce il ricordo di una comunità?
S.W.P.: Non essendo io di religione ebraica (o di alcuna religione, di fatto), ho tentato di rispettare il più possibile il posto che mi ha ospitato, consapevole anche della delicatezza del momento storico in cui questa mostra è stata fatta. La diffidenza verso l’altro nasce prima di tutto dalla non conoscenza dell’altro, e dunque sono contento che alcune persone vengano a vedere la mia mostra e per la prima volta entrano in questo museo, denso di una storia che non deve essere dimenticata. Ho scelto questo luogo perché penso di non aver fatto un torto a Primo Levi, portando le sue lettere in un luogo deputato all’arte contemporanea. Mentre allestivo la mostra ho scoperto che Palazzo Madama a Torino ha appena aperto una mostra di lettere di Primo Levi, e non vedo l’ora di andarla a visitare.

Attraverso un percorso espositivo che innerva documentazione e trasfigurazione emotiva, Stefano W. Pasquini offre una riflessione che non è solo intima e soggettiva, bensì storica e corale. Una linea più buia è il risultato di una ricerca in cui memoria e contemporaneità si fondono, gemmando un linguaggio che interroga il passato per illuminare il presente.

Nelle sale del Museo Ebraico di Bologna, ciò, sotto la guida del curatore Tosi, si trasla in un ponte intergenerazionale e tra storie, con una attenzione, necessaria, sul valore della testimonianza e sulla capacità dell’arte di trasformare il ricordo in esperienza condivisa; opportunità di riscoprire il potere del segno e della parola, nella eco di un dialogo che continua a risuonare nel tempo – e che non possiamo ignorare, al di là del colore politico – .

Immagini da Una linea più buia di Stefano W. Pasquini, courtesy l’artista
Una linea più buia
Stefano W. Pasquini
a cura di Gabriele Tosi
06.02 – 23.03.2025
Museo Ebraico di Bologna
Via Valdonica 1/5, 40126 Bologna
Tel. +39 051 2911280
info@museoebraicobo.it
www.museoebraicobo.it