Matteo Costanzo

Matteo Costanzo intervistato da Lorenzo Kamerlengo per The Hermit Purple, Luoghi remoti e arte contemporanea su Segnonline.

Parlami di un tuo maestro, o di una persona che è stata importante per la tua crescita.

Avevo circa nove anni e una televisione a tubo catodico che accendevamo poco se non per i cartoni animati: Devilman, Kenshiro, Bem il mostro umano e roba del genere. Avevo poca voglia di dormire e una miriade di domande. Sono sempre stato persuaso da una totale assenza di speranza, un rifiuto continuo del limite e un’insoddisfazione cosciente, unita ad un’attitudine a tentare di conoscere. Questo mi ha trascinato in una ricerca continua e spasmodica che non può trovare appagamento. Una sera, al Maurizio Costanzo Show, mi spaccò il cervello C.B. “Uno contro tutti”. Questa figura serafica, sorniona, maturo di saperi. Mi enfatuai della possibilità di essere lui. Come comprende infatti solo chi sà di non sapere, bisogna essere Carmelo Bene non si può essere “come” lui. Direi che questo episodio è stato decisivo per la mia formazione, nessuno più di C.B. ha favorito la possibilità che io potessi accettare la mia natura. Il mio incontro con l’arte è stato altrettanto traumatico di quello con il linguaggio. Traumatico e salvifico. La parola “arte” è quello che mi ha reso l’organismo vivente che sono. Non avrei avuto nessun’altro modo per perseguire con totale coincidenza la mia attitudine curiosa e maldisposta verso l’automatismo della condizione umana. Il ruolo dell’artista è l’unico ruolo che mi consente di riconoscermi. Non è facile diventare ciò che si è, trovare una misura così profonda. Che non me ne voglia Albert Camus. In questo pellegrinaggio senza meta del pensiero ho lambito e accarezzato voci che sentivo, per una sorta di prossimità dolce, familiari. Generano echi che risuonano senza sosta e che producono residui pesanti. Questo processo m’impone di dar forma a quei residui rendendoli per me in primis esperibili e trasportabili. D’altronde ci vogliono anni per possedere idee di cui si possa parlare.

Quali sono secondo te il tuo lavoro/mostra migliore ed il tuo lavoro/mostra peggiore? E perché?

Non essere mai soddisfatti, questo è l’arte, quindi il mio lavoro/mostra peggiore  risponderei tutti e il mio lavoro/mostra migliore il prossimo a venire. Tuttavia per rispondere alla tua domanda, mi torna in mente il periodo in cui diedi alla luce il programma geneting (attraverso il framework VVVV). Un programma che utilizza immagini prelevate dalla rete o che può essere collegato ad archivi virtuali dai quali direttamente attinge, selezionandole; le assembla incidentalmente in un formato prestabilito con un ordine e posizionamento casuale, le sovrappone o le distorce, per generare una nuova immagine prima inesistente e assolutamente autarchica. Quando iniziai a testarlo dipinsi molte superfici prodotte da geneting che distrussi poco dopo. Tra queste c’era un forex stampato in alta risoluzione di due metri per un metro e mezzo, al quale avevo assemblato un accessorio kitsch di un pesce cantante di nome “Big Mouth Billy Bass”. Aveva un pulsante che quando avviato eseguiva i brani: “Take me to the river” e “Dont’worry be happy”. Lo installai nei giorni della mia tesi di laurea triennale nei corridoi dell’Accademia di Belle Arti di Urbino, per mesi non si è sentito altro che Billy Bass cantare, con la sua straordinaria voce registrata. Un giorno qualcuno se lo portò via o se ne sbarazzò, non saprei. Comunque, tra i miei dispositivi (lavoro/mostra) quelli che mi consolano di più sono quelli che se ne vanno. L’opera d’arte incarna dell’artista solamente il suo dramma intellettuale. Considerare ogni creazione come un termine, ma allo stesso tempo, un sempre nuovo inizio. Un debutto.

Se ti ritrovassi su un’isola deserta, proseguiresti la tua ricerca artistica? Se sì, in che modo?

Sopravvivendo. Continuerei a vivere come Sisifo (bisogna pensare Sisifo felice), ad acquisire quell’esperienza del mondo che è imprescindibile per superare l’abilità e dare forma al pensiero. Vivere in questo senso equivale tanto a provare quanto a riflettere, ma senza più alcuna necessità di formalizzare, potrei vivere trascuratamente come un capolavoro. Un opera d’arte vive solo nello sguardo del pubblico, in quel rapporto biunivoco. Immaginerei ciò nonostante dispositivi grandiosi, nel malaugurato caso che qualcuno mi riconduca alla civiltà e mi divertirei molto in preparativi di progetti che non possono riuscire. Finalmente imparerei a suonare il piano.

In che modo sta influendo l’isolamento di questo periodo su di te?

Mi obbliga a proseguire il mio lavorio da casa perchè non riesco a raggiungere il mio studio. Complici queste restrizioni necessarie. Detesto il mio lavorio ma amo il mio studio. Questo è un cambiamento considerevole e che determina lo spazio. Lo studio per me è un teatro ferace, indispensabile. Ho dovuto accettare dunque i limiti di questa condizione e proseguire. Eludendoli in ogni modo e forzandone le possibilità. Per la solitudine ne ho poca, avendo il privilegio di vivere con una donna straordinaria e un gatto supereroe, che fanno ben attenzione di non fare attenzione a me. Bisogna prendere la vita con seriosa e stravagante comicità, da questo isolamento possiamo vedere il mondo intero e quando non si può contare su nulla, si deve contare su tutto. Proseguo a trascorrere le giornate ponendomi vaghi interrogativi, infischiandomenene delle risposte.