“Buona è la forma come movimento, come fare: buona è la forma attiva, cattiva la forma come riposo, come fine. Cattiva è la forma che si subisce, la forma compiuta. Buona è la formazione, cattiva è la forma, perché la forma è fine, è morte. Formazione è movimento, è atto; formazione è vita”.
P. Klee, Teoria della forma e della figurazione …
La vita delle fisionomie non ha nulla a che vedere con le fisionomie della vita.
Angelo Shlomo Tirreno, Taccuini …
Bisognerebbe sempre sospettare delle donne che dicono di essere distaccate verso il costume, come degli uomini che dicono di non curarsi di ciò che mangiano: qualcosa non va. E gli uomini che ridono dell’interesse appassionato delle donne per l’abbigliamento, dovrebbero essere relegati nelle forme di autocoscienza. Per conto mio, amo assistere alle rumorose discussioni delle donne sugli abiti nuovi e sulle pagine di letteratura che trattano del Bildungroman. La donna seduta verso la direzione di viaggio che si era trattenuta, lì lì, con Shlomo, aveva così finito di parlare ritrovando un soggetto narrativo un po’ confuso da commenti e racconti. Shlomo a quel punto del conforto, ormai stremato dalla chiacchiera della gentile signora, in poco tempo era diventato suo amico e quindi continuò a raccontare le sue peripezie. Nonostante lavorasse nell’informatica, Shlomo era una persona divertente e bizzarra: aveva un modo di parlare che incantava le persone che lo ascoltavano.
«Sin dal primo capitolo vi ho considerato, amici lettori scusate il paragone, i passeggeri del mio treno, allo stesso modo ho elaborato ogni capitolo come una delle tante fermate del viaggio. Desiderei che questo capitolo facesse una sosta un poco più lunga, per un conveniente ristoro. Approfitterò per parlare del mio lavoro di hacker e soprattutto di scrittore, ai pochi passeggeri che non sono voluti scendere, perché non hanno fame o non vogliono (bontà loro) perdere il posto in questo treno fantasma, che desiderei affollato, stipato sino all’inverosimile, non per darvi molestia ma per scaricare il mio spirito post-bildungroman. Mentre filavo con l’ex di Guido, e le mie giornate erano dedicate al lavoro, il mio estro non si era spento, tutt’altro si era incendiato, perché vedevo in quello slancio post-narrativo, ispirato dal saggio di Benjamin sul racconto di Leskov, uno sfogo che mi affascinava ed i versi, ora tronchi ora sdrucciolevoli, che andavo ad introdurre nelle parole usate, prendevano di minuto in minuto un segreto senso che prima non avevo mai trovato. Incominciò all’incirca quindici anni fa, un vero tormento di visioni che non riuscivo a tradurre con semplicità e soprattutto con vena facile, come mi capitava con questo bildungroman che, per essere roman-zo, andava verso Roma.
In tutte le cose, direte voi, è questione di tecnicismo, e questo è anche vero, ma all’origine, alla base di tutto, non è sufficiente una volontà di ferro e lo studio, è indispensabile una cosa che si ha o non si ha: la vena a raccontare e ad ascoltare personaggi, come la ex di Guido. Facile sarebbe, se fosse solo questione di volontà, prendere in mano uno scalpello, un martello e dai oggi e dai domani dopo dieci, quindici anni diventare scultore famoso; uno si attrezza di pennelli e pennellini e dai oggi dai domani diventa un pittore di grido, o un vero artista concettuale, solo perché esegue delle performance, incomprensibili ma alla moda, e fotografie che sono il semplice riflesso illustrato della società. Il processo è leggermente diverso, perché scrivere versi o narrazioni non è da tutti; anche se oggi la poesia è diventata la comprimaria di ogni manifestazione. Prendete ad esempio le canzoni, sono schiave della musica perché un arraggiamento piuttosto che un altro produce il successo di vendita del disco; la poesia, nelle riviste online di alto livello commerciale, si accompagna a descrivere fotografie di nudi di donna, la forma dei seni, il colore dei capezzoli, la sinuosità del corpo femminile, ma quello che fa colpo è il nudo più osè prodotto dai fumettisti, quello disegnato o fotografato con perizia in un gioco simulato di luci e ombre. Anche se in effetti la libertà non si può simulare. Chi sogna di vivere di sola poesia è meglio che ci pensi cento volte almeno, poi prenda tutto il suo bagaglio, lo metta in mezzo al cortile e ne faccia un falò. Un pittore squattrinato e senza fortuna, se vuole proseguire nella sua arte, può campare, anche se miseramente, ammettiamolo pure, mettendosi all’angolo delle strade col culo per terra, lungo le passeggiate a mare come si vede in tutte le città balneari a fare schizzi, ritratti, paesaggi, vendendoli al primo simpatizzante, ricavandone una miseria anche se è un piccolo capolavoro, ma col ricavato potrà sfamarsi e chiedere un alloggio nella Capitale. Lo scultore può seguire la stessa strada se crede o, se ha necessità, ma il poeta si mette a scrivere una poesia e vende il suo concentrato di dolore, di amore, esternato su un foglietto di quaderno al primo che passa come se fosse una fotografia pornografica? Chi mi esaminerà le impronte digitali su una guancia? Sembra che da quando l’uomo si è messo in piedi sugli arti posteriori, non sappia più riacquistare l’equilibrio. La poesia è finita nel secolo di Baudelaire, prima che se ne accorgessero i simbolisti stessi, quel secolo che avanzava spietato. O forse è solo superata, o magari nessuna delle due. Penso che la poesia non abbia più bisogno di parole per manifestarsi, perché la vera poesia, è come l’amore vero nell’atto sublime del congiungimento, quando due persone si amano e si uniscono, senza parlare ma guardandosi in silenzio perché nel silenzio più assoluto c’è tanto di quel sentimento, che fa quasi paura. Per lo scrittore rompere il silenzio, per parlare del silenzio, non sembra nemmeno più un paradosso; anzi fa parte del quotidiano elaborare, dare parole al non detto poetico e a ciò che è difficile da esprimere. E talora, in momenti di saggezza, accorgersi che era meglio tacere.
Ma la scrittura, all’ombra dei miei silenzi informatici, all’ombra dei miei stessi viaggi Ancona Roma e Roma Ancona, avanti e indietro e indietro e avanti, fra in.finite vie di toni, si propone di trovare bildungsroman necessari, parole necessarie. Di favorire il passaggio dal proverbiale al verbale, dalla comprensione linguistica alla musica, di migliorare la qualità delle difese, a prescindere dai risultati di Guido/Volponi.»
A quest’ordine di risultati, a queste nuove venute a Roma, lo scrittore o meglio l’informatico-poeta arriva attraverso un gran numero di passaggi, tra i quali ci interessano le fantasie onnipotenti del tipo: «Rivelazione timica, Verbo di formazione, Teologia della liberazione, Rinascita della stessa scrittura e simili, che permeano la mia storia, l’altrui storia, la storia di Guido e quella della ex di Guido, che ho qui vicino a me. E si può intuire che queste fantasie, se non sono state rese coscienti dalla storia stessa che è stata vissuta (come invece dovrebbe avvenire nei training analitici occasionali che si producono nei viaggi in treno), possono condurre occasione e poeta proprio verso il silenzio. Fatta questa premessa, mi sento impegnato a non dire troppe parole e nemmeno troppo vere. Del resto non sono neanche tutte mie, perché queste riflessioni nascono da lunghe discussioni con un gruppo di scrittori-informatici chattisti, twitteristi, condotto dal Presidente dell’Associazione Hacker di Roma e dal fitto scambio interdisciplinare con i viaggiatori occasionali sulla tratta Ancona-Roma, cui devo molte preziose indicazioni. Senza il loro apporto avrei conservato il silenzio: Chissà, forse le mura di gerico sono crollate per il troppo strombazzare dall’interno?
Siamo su un treno fantasma ed allora permettemi di parlare, di accennare per non essere prolisso, ad un viaggio fantasma. Chi di noi non ha affittato, almeno per una volta, un treno tutto per sé ed affidato alla fantasia questo treno senza motore e senza ruote, che corre più del vento? Tutti, tranne qualcuno soltanto. Io più di una volta: quando il bambino era bambino, quando avevo letto e riletto Volponi e Celan, la Bachmann e Cesare Pavese, Pasolini, Giovanni Giudici e Peter Handke; ed ancora adesso, per portare lontano quintali di bildungsroman che mi curvavano le spalle, gonfiando certe parti timiche benjaminiane e certe altre alla Emilio Villa, così come se avessi l’orchite letteraria.
Da bambino sognavo indiani come Kafka e castelli come protagonisti della Bildung, isole del tesoro, avventure di mare descritte da Conrad, gli animali di Melville e parole belline dalle trecce nere nere, con cui coglievo traduzioni di Joyce e giocavo sull’altalena di Beckett.
Da interessato al corpo della scrittura, sognavo una scrittura piccina con dentro, una storia tutta per me. Sognavo la migliore traduzione delle parole di Benjamin: “il narratore – per quanto il suo nome possa esserci familiare – non ci è affatto presente nella sua attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi”. Ora sogno ancora quell’isola del tesoro lontana, sperduta, ma non per trovarci casse di rubini e di diamanti, soltanto per viverci come Robinson Crosoue, senza neppure Venerdì a tenermi compagnia. Mi bastano i miei pensieri, i miei viaggi a Roma, gli stessi identici pensieri e viaggi a Roma che l’informatica virtuale mi diede per compagna».
L’occasionale compagna di viaggio non comprese neppure per un solo istante e mi domandò dei soliloqui con il robot, che spesso riempiono le nottate, e se davvero era il caso di nascere tremila anni prima o tremila anni dopo. Rivedere i sogni, le utopie politiche, i mondi paralleli, il fare mondo stesso, di un tempo, mi fa male; non lo vorrei proprio, ma mi capitano lì tra i piedi senza saperlo, senza invocarli, come delle immagini fotografiche scattate male, come dei paesaggi di passaggio precipitati in un brutto incidente, senza invocarli e nessuno sa quanto vorrei fare a meno di loro, perché ogni volta una piccola parte di me se ne va in un’altra galassia e non fa più ritorno.
«Quel ben conosciuto messere che è Dante-Volponi, direi quel Volponi di un Alighieri, faceva parlare, nella sua Commedia di formazione, le tre vite umane cioè quella intellettiva, quella sensitiva e quella vegetativa di Guido ed Ettore. Ebbene vorrei parlarne anch’io, magari con un training intavolato con la sua ex, o con un training con un’altra conduttrice di viaggi; anch’io seppure in stile telegrafico, dato che sono ignorante, dilettante e fannullone, perché ho poco tempo a disposizione per la scrittura del grande romanzo, le preoccupazioni sulla biografia di Walter Benjamin imperversano e, forse, anche perché oggi va di moda così.
Dell’ultima vita non mi preoccupo per niente, sapendo che con i soldi in tasca e denti sani in bocca potrò mangiare, bere, dormire come ogni altro essere animale vivente. Della prima vita dovrei diventare pazzo per non esserne più il proprietario cosciente; mentre della seconda, altro che homo sacer o nuda vita, sento che non durerà molto ed allora non mi tocca fare molte acrobazie, per capire che tra qualche anno la parabola discendente del mio bildungsroman si compirà, o forse si è già compiuta. Ebbene, se fosse possibile dare in cambio un po’ di anni per un po’ di parole, questa ipotetica durata potrebbe divenire una nuova interpretazione del Tempo e della Durata di Henri Bergson; durata che considero, bontà mia, massima, per dimenticare totalmente la mia esperienza poetica e, soprattutto, la storia del mio recupero dati; sarei prontissimo a recarmi in questo fantomatico sportello di cambio e fare la conversione della Bildung.
Potrei avere almeno la soddisfazione, la libertà mentale e fisica, la felicità di vivere ancora un altro viaggio in santa pace. Voglio sperare che i miei lettori-passeggeri si siano nel frattempo rifocillati e vogliano riprendere con me questo viaggio che non tocca. Vi tranquillizzo, nessun angolo di fantasia è come la realtà e la quotidianità di Roma. Roma non porta in nessuna isola incantata e non ammannisce chimere, od incontri inventati da romanzi, né rosa né gialli. Le mie frasi saranno semplici, espresse male, non all’altezza di Guido/Volponi, ma non sono stupide e gli episodi stringati, spogliati del superfluo, e tutto ciò che vi può essere in questa rilettura di un potenziale romanzo di formazione, un bildungsroman che sia bello o brutto, è soltanto vero.

Di solito si omaggia con una dedica la persona che ha contribuito maggiormente alla riuscita di un viaggio importante, o alla portata del quotidiano. Io invece voglio regalare all’ex di Guido, alcune righe di ringraziamento, perché è lei che mi ha aiutato a riappropriarmi della Strada per Roma. Volponi per anni ha creduto nelle mie capacità e mi ha regalato una vita degna di essere chiamata tale. Mi ha fatto diventare, con il tempo, consapevole della mia scrittura e del mio lavoro di informatico, del dono che avevo dentro di me, ma soprattutto che ero un giovane intellettuale comunista, che aveva avuto la fortuna di laurearsi con una tesi sui Reports del Club di Roma e di aver lavorato con Aurelio Peccei, così come lui aveva lavorato con Adriano Olivetti. Ricordo come se fosse ieri, cosa mi disse in una seduta di analisi sul pensiero di Antonio Gramsci, durante una riunione di redazione del primo AlfaBeta, nella quale era venuto fuori che mi sentivo di essere un dilettante, un asino di poeta e di scrittore: “Perché ti senti così poco intelligente Shlomo?”. Io gli risposi che da piccolo tutti ridevano della mia poca intelligenza tanto che, in seconda elementare, mio padre mi voleva far bocciare perché incapace di leggere. A causa di questa mia scarsa capacità ho preso tantissime bacchettate sulle mani tanto che, quando lo raccontavo in quelle occasioni di confronto, con Volponi, sull’idea della bildung, in quelle strane sedute delle edizioni Intrapresa, riuscivo ancora a sentirne il bruciore. In realtà, nessuno si era accorto che da piccolo ero dislessico. Mio padre allora mi disse: “Hai pensato di essere un asino, e poco intelligente, quando non lo eri ma, purtroppo, hai ancora questa immagine di te stesso, accompagnato dal conforto della figura del giovane Wittgenstein. La prossima volta che ci vediamo mi porti tutte le pagelle e i libretti dalle elementari alle superiori”. Quando andai a casa li raccolsi e lì, su uno di quei libretti, trovai una delle frasi che uno dei miei professori pensava: “Si sforza ma non ce la fa: Le si consiglia per il futuro la scuola più semplice”. Solo allora presi la consapevolezza di ciò che mi dicevano e il maestro mi diceva, o mi avevano da sempre fatto credere e che mi aveva tormentato sin da piccolo, ovvero di essere poco capace e poco intelligente, fino al punto che potevo scordarmi il mestiere di scrittore e anche quello di informatico. Nella seduta successiva trovai la biblioteca delle edizioni Intrapresa, dove facevo consueling con Paolo, che si rendeva sempre disponibile. Io e il mio tutor, leggemmo insieme tutte le cattiverie scritte sul mio conto, e soprattutto gli insulti sulla mia intelligenza fatti dai miei insegnanti. Quel giorno ridecisi in mio talento e le mie capacità intellettive; bruciammo insieme tutto quanto e insieme al fuoco se ne andò anche quella triste immagine di me “stupido e incapace”.
A Paolo, a Guido e a Ettore devo anche la mia decisione di diventare un esperto di storia e metodologie della critica. Quando scrissi il primo libro, dopo il tentato aborto della tesi specialistica e della tesi di dottorato, il mio professore parigino mi disse: “Ancora un altro filosofo e scrittore insieme”. Già, ero il secondo dei tre vincitori della cattedra di letteratura artistica di Paris IV, per cui decisi da subito di essere io l’Ettore di Paolo. Decisi, inoltre, di essere io, quel compagno dei circoli d’Ottobre, a dover salvare altri compagni da tutte le ingiustizie sociali e di soddisfarli in tutti i loro bisogni, fondando il gruppo Landauer, insieme al rabbino di Parigi. Come poeta, non mi sono mai sentito accettato, in quanto vero aborto mancato della scrittura, vero dilettante, surclassato dalle letture di Celan e di Rilke, e non parliamo di Brecht; anzi, credevo di essere una vera e propria rottura che si ferma alla rottura. Mio padre, nonostante alcune incomprensioni, è stato comunque una figura importante per la mia crescita personale. Era un uomo che andava in escandescenza per molto poco. In realtà, la percezione che avevo di lui era di un professore di latino e greco, un vecchio socialista della sinistra radicale del partito, che “si cacava sotto”. Ad esempio, invece di trovare rapidamente una soluzione ad un problema, usava darsi gli schiaffi in faccia e bestemmiare il Rerum natura di Lucrezio. Però, mio padre aveva creato dal niente un centro studi su Raniero Panzieri. Da lui, inoltre, presi la possibilità di conoscere Renato Solmi, l’amore verso la vita sperimentale, l’arte, la poesia, la letteratura, la cultura in genere e l’introduzione alla lettura di Operai e Capitale di Mario Tronti. Tutte le decisioni che avevo preso da piccolo, ovvero il prendermi cura della Biblioteca del nonno socialista e il mantenere il ruolo di stupido di famiglia, erano scelte drammatiche del mio copione. Se non avessi studiato informatica, e non avessi perseguito la strada definitiva dell’etica hacker sarei diventato pazzo e suicida».
La terza ora del viaggio passò ancor più in fretta rispetto alle due precedenti: lei sempre a ridere, non sapeva più come fare per smettere e la storia seguente era sempre più divertente della precedente; il suo viso dimostrava una gioia che non ebbe più quando arrivammo. L’annuncio gli tagliò la parola: Roma! Arrivo previsto fra cinque minuti, preparate i vostri bagagli, Trenitalia vi augura una buona giornata? Era il momento di scendere e, dopo aver sentito l’annuncio, le propose di darle il numero di telefono. Lei disse che aveva passato dei momenti gradevoli in sua compagnia e che le avrebbe fatto piacere rivederlo. Aggiunse che amava parlare con la gente e che era contenta di averlo incontrato. Dopo di che, lui le mise discretamente una carta nella tasca e tutti e due scesero sul binario dopo essersi salutati un’ultima volta.
La giornata trascorse velocemente, riunione, chiamate, installazione, previsioni, era una delle ultime settimane di lavoro, e il ritardo doveva essere recuperato al più presto. Riaccese il suo cellulare dopo l’ultima riunione della sua giornata e cominciò a leggere gli ultimi messaggi per conoscere i suoi impegni per il giorno successivo. Fu con sorpresa che fra i messaggi scorse: Ciao, questa sera alle venti davanti Fontana di Trevi. La tua vicina di treno! Dopo avere letto quel messaggio, un sorriso attraversò il suo viso e pensò: la felicità non è sempre all’altezza di quella voluta. Le sera preferì rimanere nella sua stanza di Hotel, aveva risposto negativamente al messaggio. Purtroppo, l’illusione di essere innamorato gli era passata dopo due ore, così come gli passava in fretta l’amore per la poesia e per la letteratura in genere. Spesso gli capitava quella sensazione: poesia e romanzo in Shlomo cascavano come delle foglie morte. Non riuscivano a produrre un entusiasmo rigenerativo, è come se nel rivelarsi si suicidassero. «Qualche cosa della sua vita, o di quello che lo circonda, appare allo scrittore, o in questo caso al lettore così importante, che non può sopportare di cadere neppure in quell’oblio d’attesa di un attimo». Al di là dell’esperienza personale la poesia non è mai così soggettiva; anzi, quanto più appare tale, tanto più è «la sintesi di una interazione, la risultante necessaria, che non può essere se non quella, dell’incrociarsi di tutti i fili che compongono il nostro mondo»; nel contempo essa «esprime una ricerca e una denuncia» che «presuppone, sulla terra, coscienze umane». La poesia è così un «atto di fede sociale» che rivela, agli occhi di chi ancora voglia essere umano, «le coordinate infinite che passano per un punto in quel determinato momento del tempo-spazio e in nessun altro». Incrocio cartesiano, quindi, tra l’asse del privato e quello sociale, in cui fiducia e sfiducia si intrecciano lungo il sottile crinale che separa il pudore dalla denuncia, il grembo della gestazione del sentimento della parola in cui questo si esprime. Da un lato, questa donna volponiana si mostra altera nel suo dolore, ma di delicata umanità, con la sua intimità trasparente come un cristallo fotografico; dall’altro, accostatasi in un primo tempo alle gioie del romanzo, riflette sulle sue rime lunghe e petrose, sui suoi programmi informatici di ricerca pieni di esprit de geometrie densi di anafore, raggiungendo con inserti dotti e vertiginosi picchi lirici, la dimensione dell’irripetibile.
Per Shlomo era impossibile rivedere ciò che per una volta aveva incontrato e apprezzato – per Roma – nel romanzo Altro. Era ancora uno di quegli incontri in cui si buttava dentro riempiendo l’attimo e, una volta uscito del treno, l’attenzione e l’interesse dell’incontro scemava a misura di scatto fotografico. Dopo, rimaneva soltanto il ricordo di una vita vissuta per tre ore. Adesso doveva aspettare ancora fino a venerdì, prima di ricominciare il suo gioco! Uno, due, tre !? pensava mentre camminava nella strada, per raggiungere la sua stanza con gli occhi chiusi.