M.V.M. Struttura, 2023. photo Sara Nicomedi

M.V.M. Abitare il pensiero. Quattro appuntamenti negli spazi di Struttura

M.V.M è il programma per il progetto sperimentale ideato dall’artista Cristallo Odescalchi negli spazi di Struttura, artist-run space romano. Giunto alla sua ultima fase, riprenderà il suo corso ad ottobre 2023.

Il rapporto tra la produzione artistica e la sua relazione con la tecnologia origina opere che pongono, in interconnessione organica, il lavoro degli artisti della scena romana, chiamati a confrontarsi su una delle tre macro-tematiche, più vicina alla propria poetica: Morfogenesi (M 1/4), Vuoto (V 2/4), Maschera (M 3/4). Il progetto sperimentale è stato ideato dall’artista Cristallo Odescalchi e ospitato negli spazi di Struttura, artist-run space di arte contemporanea, il cui ingresso dialoga con il lirico porticato del cortile di Palazzo Chigi-Odescalchi, di cui la facciata barocca, ideata dal Bernini, si colloca dinanzi alla Basilica dei Santi Apostoli, da cui desume il nome la piazza, nel cuore di Roma.

Il programma si presenta come opera interattiva, condivisa, oltreché essere strumento di confronto e di gioco. Abitare il pensiero nella realtà fenomenica e nella molteplicità di livelli del suo mostrarsi è il processo posto in essere dalla ricerca continuativa dell’artista che ne permette le molteplici operazioni consequenziali, tra cui la sua disarticolazione, alterazione, avanzamento e rinnovellamento. Il telaio del pensiero è luogo individuale per ciascuno di noi e clessidra di una significazione attribuita che può ricaricarsi di relazioni con un oltre che non afferisce direttamente a quella delimitata sfera percettiva. Nell’a-temporalità di “un presente”, i sensi tentano una decodificazione della realtà, indagata nelle tre fasi espositive nel concetto di Morfogenesi, di Vuoto e di Maschera.

Re-mix, ultima fase di M.V.M., si esplicita in una grande mappa concettuale di forma circolare installata nella prima sala di Struttura, insieme al “tavolo di condivisione”, sul quale sono stati disposti gli strumenti necessari per la realizzazione delle opere: il computer con il programma digitale omonimo M.V.M; realizzato per il progetto dal programmatore Edoardo Filippone e che ha permesso azioni come la sovrapposizione e ingrandimento, e il video-proiettore. La gestione della propria fase creativa è stata condotta in uno spazio aperto alla giuntura di suggestioni condivise dagli artisti del panorama romano contemporaneo che hanno aderito alla chiamata sulle tre tematiche. Ogni artista ha posto la propria firma ed è stato invitato nel trovare una radice o termine che potesse esprimere il proprio lavoro e la propria connessione con altre espressioni impresse dalle altre opere esposte, durante le tre fasi. Unitamente, tali nessi organici sono stati rintracciati attraverso il confluire del lavoro di ogni singolo artista, in un dialogo concettuale, antropologico, filosofico ed estetico, con altri due lavori selezionati per caratteristiche di assonanza o di dissonanza, rendendo attuabile una nuova com-posizione o rigermogliazione di possibilità ibridate, attraverso l’opera 3D finale. I lavori sono custoditi in un database aperto al pubblico.

GLI ARTISTI PER MORFOGENESI

Gianmaria Marcaccini, nella video installazione site-specific Dispositivo ideativo #3, ha tracciato lo zeitgeist del nostro tempo. In un monitor vengono esperite delle immagini che riflettono la propria dimensione oggettuale fisica nel bicchiere e nel contenitore, posti in attiguità sulla pavimentazione, e ormai segnati da un passaggio di consumo. Mutazione: ogni epoca ha il suo modo.  Outfit è un’opera in acrilico di David Tozzi. Un Cristo sorge da un involucro. La rinascita è trasformazione eterna e allargamento dai sentieri della croce. Nell’opera Sconfinamenti di Veronica Montanino, le sovrapposizioni dei soggetti rappresentati sulla superficie esprimono l’infinita possibilità di co-presenza che la natura manifesta nella nostra realtà tangibile. Il pensiero si esprime come camminamento indefinito in una realtà ineluttabile. La dimensione del colore persegue il procedimento nel suo essere germinativo. In Blu Angel di Lorenzo Pace la materia fluida è solidificata e fissata nel suo stadio di trasformazione, in cui gocce d’acqua si dispongono sulla superficie nella loro mutevolezza di forma e dimensione, scardinando il topos dell’horror vacui. In Ala di Bankeri, l’opera installativa si compone di un’ossatura scheletrica che, nel trattamento compiuto del soggetto, ritrova nuova vita come ala fiorita dalla fertilità della terra. In Monogramma (rosa) di Federika Fumarola, l’accordo cromatico dei passaggi tonali plasma un andamento magnetico che, nel suo sinuoso verticalismo, genera un’alterazione di corrispondenza. Nell’opera di Fabio Giorgi Alberti, nella descrizione del paesaggio della trama pittorica che esercita i suoi mutamenti tonali si inseriscono accumuli di residui irregolari di colore bianco che ne destabilizzano una consonanza sui toni linfatici. L’opera Black Island di Andreco consegna un’immagine archetipica e surreale del concetto di isola che, unitamente a una sua rivisitazione formale strutturata sull’assemblaggio di forme irregolari, richiama un implodere di materia replicante lo schema e librata nello spazio.  Nel lavoro scultoreo di Madro, la formazione di blocchi materici nebulari, dispone – al suo centro – un nucleo irradiante che attribuisce al sistema un’energia generatrice, nella sua stasi quotidiana.Nell’opera pittorica di Cecilia Caporlingua, tre momenti esprimono una metamorfosi situazionale in cui la figura umana, privata dei tratti somatici distintivi, come in una giostra, si fa portatrice di un non-peso e non visione di ciò che ospita nella sua trasformazione. Nell’opera di Silvia Scaringella, una radice salda, nella sua estrinsecazione del bianco, solleva una crescita indefinita nel suo ramificarsi scultoreo ondato. In Amoeboid 1.2.3.4. di Ombretta Gamberale, quattro lastre raccontano la morfogenesi sviluppata da esseri ameboidi, il cui termine greco del nome designa l’azione di trasformazione (ἀμοιβή «cambiamento»). Nel visionario sommarsi delle forme, gli organismi transitano di forma in forma. In Toghether. Ceramics/thread di Arianna De Nicola, i sentieri individuali di un soffio cosmico, tesi a una migrazione mutevole, sono recuperati dall’artista in una stretta inviolabile. La scultura è parte della serie Il giardino che non c’è, metafora della condizione umana. Gli alberi, le foglie e i diversi elementi che lo compongono sono assimilabili alla moltitudine della società. Diversi elementi, nella loro unione, provocano un equilibrio. Le forme scultoree delle piccole aste e bastoncini in ceramica grezza sono forme naturali che, convogliati, decretano la loro morfogenesi. Nella sostanza eterea di Transfiguration (dopo Raffaello Sanzio, Pieter van Lint and Poussin), Shaun McDowell, si annullano le raffigurazioni di un passato storico per situare, nell’aurea metamorfica, una figura androgina nel corpo di Dafne e ricalcare così quei dialoghi indispensabili del contemporaneo. In Micete di Maura Prosperi, intravisioni si manifestano come intrusioni visionarie nel reale, sintomatiche di un cambiamento di passaggio di dimensione. Il Guardiano del mondo sottostante, nella rappresentazione di Micete, si inserisce nel nostro presente come sgorgo infettivo di materia trasparente nella sua trasformazione formale e generativa in resina che salda i diversi residui materici. Il corpo sembra galleggiare nel tentativo di staccarsi dalla materia di provenienza, quasi massa informa e onirica di ghiaccio per le variazioni cromatiche. Nell’opera Morfogenesi di Raniero Berardinelli, simboli misterici e primordiali traggono vita propria nella fluidità di interferenza che respira la composizione nel suo stratificarsi.In Piatto di Giovanni di Carpegna, la risolutezza dell’espressionismo modifica l’andamento sensuale arguito dalla gestione del tratto e del colore nella rievocazione della Conversione di San Paolo. Nell’operaNel mezzo di Corina Surdu, l ’osservazione compiuta dallo sguardo nella transitorietà del presente si nutre inconsciamente di un’esternazione di segni palpitanti che fervono sulla superficie come molteplicità rispondenti agli impulsi e trovano, nella loro rappresentazione, una forma e un verso propri, attraverso una rispondenza alla modificazione della luce, matriarca di immagini. In Putto di Lorena Tiberi, il disporsi della materia è foggiato con un vigore aprioristico. L’aspetto frammentario rammenta un vissuto che, nel trattamento somatico del volto, effonde un’appartenenza alla condizione umana. Plotino rileva l’eros non solo come movimento ascensivo ma anche come spinta creatrice. Tuttavia, nell’opera Agape di Costanza Chia, la comunione di legame è vincolo di un sentimento condiviso e che si irradia nell’intera dimensione che coinvolge i soggetti ancestrali. Nell’opera 145.968 di Alice Paltrinieri, la forma ovoidale, il risultato della lavorazione, simile a quella del tornio e la cromia dell’opera esprimono la continuativa circostanza di trasformazione. L’uovo cosmico è centro misterioso, intorno al quale si producono energie inconsce. In Grounded 01 di Greg Jager, il calco di uno scavo è tratto da un’azione performativa collettiva. È germe di un tempo e spazio lontano dalle congetture del nostro circostante. È attrazione verso una dimensione altra e sostanza rilevata da una profondità che, riemergendo nel visibile, porta in sé le molteplici fattibilità di trasmutazione. In Ricordami di Caterina Sammartino, la finitudine dell’essere umano è in continua ricerca di un’adesione relazionale con il tutto. Di tale urgenza, si fa emblematica l’icona dell’opera, secondo un’evidente tensione che, attraverso l’utilizzo di colori caldi e terrosi, imprime sulla superficie una sensazione di continua mutazione. Sperimenta un’ascesa, un’evoluzione che pone in luce l’impossibilità d’azione. In Untitled di Valerio Di Fiore, la natura, come cosmologia del sentire, incide, nel vigore di un segno genitale, il legno e si profonde, nel suo tramutare sinergico, nella ceramica smaltata. Non percettibile è la memoria figurale che fluisce nell’opera Picture from another image di Giulio Saverio Rossi. Si attua, istintivamente, lo svelamento di un’astrazione che, in una sensibile sollecitazione, appare come nubilosa elargizione. In Nuvola errore di Fabrizio Cicero, la carta, nella sua lavorazione tridimensionale, assume i connotati di scultura. Il modulo del triangolo rende possibile l’applicazione interna della forma romboidale che si interrompe nel perimetro esterno dell’opera. Sulla superficie visibile, in cui emerge un errore, implode l’immagine di trasmutazione di una nuvola, nell’evolversi della struttura. In Untitled di Luca Di Terlizzi, ritorna, come nesso con la ricerca continuativa dell’artista, il soggetto dell’opera che si pone al confine tra un suo riconoscimento figurativo e la sua riorganizzazione, tramite il gesto astratto. Il colore impiegato è profonda rielaborazione di un dialogo interiore e studio antropologico. Il disegno impresso a rullo e squeezer, nella voluminosità e nel movimento, determina uno sviluppo e seguente morfogenesi embrionali. Nell’operato di Emanuele Fasciani, la materia è espressione di stati di trasmutazione dell’io e ragione per indagare gli accadimenti interni ed esterni. Si espande nello spazio o si concretizza nella superficie di un supporto. L’essere, alchemicamente, si ritrova nel suo disporsi tra le increspature o nei rilevamenti visivamente tattili. È un’opera quella di Germano Serafini, 21st week-A, in cui è stata effettuata una manipolazione su carta fotografica che ha permesso di articolare il dato naturale in un moto “concentrico e circolare” che esprime una tempra creativa e in opposizione con il verticalismo del paesaggio che riposa in lontananza.

Gli artisti per “Vuoto”

Nell’opera Imperituro effimero, l’artista Paolo Assenza inserisce il prezioso e inconsueto accadimento del passaggio della cometa C/2022 E3, detta di Neanderthal per il lungo periodo di 50.000 anni dalla sua ultima apparizione nel Paleolitico. Prima che torni il vuoto, la pittura cristallizza l’istante di pieno. L’ombra della propria sagoma percepita è presenza-assenza ambigua e inconscia della personalità che, junghianamente, l’io conscio non ritrova in sé. Ciò determina un’osservazione della stessa come soggetto distaccato dal proprio corpo. Il suo vuoto è divertissement. Niccolò De Napoli, in Non sono in platea né forse dietro le quinte, lavoro in marmo, feltro e nylon, chiarisce un approccio minimalista, tramite l’estrapolazione di elementi dal quotidiano come la calza di nylon e il feltro delle palline da tennis, con l’intenzionalità di stabilire un equilibrio. Tra le due colonnine di marmo si presenta il vuoto, sottolineato dall’inserimento del feltro. Il titolo dichiara un intermezzo che è vuoto e che si ritrova nella materia. Nell’opera Evaporazione#7 di Federica Bartoli, il simbolico è nucleo interpretativo di un vuoto che si deposita nelle vessazioni e nella scomparsa dei valori della società che accoglie la sua deriva. È invito a tagliare il filo tessuto dal filosofo statunitense Noam Chomsky. In Scream di bMotion Collective (Alessio Ancillai – ELLE), un tubo di plexiglass presenta due woofer terminali, dai quali non emerge alcun suono. Il linguaggio disumanizzato è deriva di ogni verbalizzazione di senso. Nel mezzo è accolto un foglio A3 accartocciato, sul quale è stampato il linguaggio delle leggi razziali del 1938. È urlo silenzioso, annullamento del suono per combinazione di due forme d’onda in controfase, che si oppone, come resistenza, al vuoto disumano. L’artista Verdiana Bove concentra, nell’opera pittorica Senza titolo, l’interesse verso quel moto relazionale che intercorre tra i soggetti colti in contesti sospesi, al limite tra sogno e realtà. Il binomio scaturisce anche dalla composizione che rivela un piano divino, sopra l’orizzonte dello sguardo, e un secondo che mostra il non imperituro. Sono personaggi tratti dalla fotografia d’archivio e dagli album di famiglia. Il lavoro è parte della serie Canto della durata, canto in versi di Peter Handke che affronta le relazioni interpersonaliriflettendo su cosa possa dare il senso della durata alla vita. La risposta è nelle relazioni. L’immaginazione corrisponde con l’astrazione della pittura e con l’idealizzazione degli individui con cui interagiamo, e alimenta la nostra idea di pieno e di vuoto. Nella centralità del linguaggio che sottende l’operato dell’artista Alessandro Calizza, si dispongono le vanitas e i vasi fioriti. Nell’opera esposta, un fiore digitale è elaborato con pennellate spixellate e con linee prive di curve, e invade il supporto nella sua griglia regolare verde di fondo, forse gabbia o prato stilizzato. L’immagine appare come se fosse stata realizzata da un bambino, tramite l’utilizzo di un programma digitale arcaico, simile a paint. La griglia è presente ove non vi è il soggetto e l’alternanza tra presenza o assenza della stessa introduce dei vuoti a livello percettivo. È assenza di spazialità e di dimensioni. Daniela Di Lullo, nell’opera Spleen in pittura acrilica e collage fotografico su tela, sospende – in una cromia evocativa – tre figure su diversi piani compositivi, in cui l’individuo può attuare un’operazione di individuazione in un paesaggio metafisico-surreale che rievoca le piazze prive di quel moto di comunione e di interazione, in cui il vuoto dell’assenza richiama il pieno della presenza, per eludere quel senso di angoscia quotidiano. Nell’opera Selfie da un Futuro Atlantide, stampa digitale dell’artista Nina Eaton, l’astronauta compie un autoscatto dall’isola leggendaria di Atlantide. Il noto finale tragico di Atlantide, raccontato da Platone nel suo sprofondare, “in un singolo giorno e notte di disgrazia” per opera di Poseidone, ricorda quel senso di vanitas e di vacuità che compare a partire dell’occhio-pianeta, e a cui è destinato l’uomo, a partire dalla conformazione del proprio DNA. L’opera Comodino di Matteo Patrevita si riferisce all’ultima ricerca dell’artista, incentrata sugli oggetti contenuti, con una vita propria, nelle case, con uno spirito che trova come perno un’attenzione antropologica verso la società. Il colore neutro e l’argilla non cotta e verniciata sono stati scelti per descrivere oggetti antichi come veri e propri reperti rinvenuti dalla terra. Nella camera singola, alloggiano un unico comodino e un coltello che non può essere contenuto al suo interno, in quanto divenuto quadro a parete. Il coltello, inoltre, come il cassetto del comodino, rammenta l’assenza del corpo fisico. Nell’opera Volo di Margherita Ferro, l’artista utilizza, per la prima volta, rispetto all’impiego della pittura a olio, il plexiglass che rende tridimensionale la silhouette. Il vuoto è tema pregnante nella sua ricerca. Nella leggerezza e trasparenza restituita dal materiale, le silhouette risultano svuotate del loro significato, connotati specifici e contorni. L’uomo, nella sua caduta nel vuoto dalle Torri Gemelle, è quasi impercettibile ai sensi. L’ombra – che nasce dalla relazione con lo spazio – assume rilevanza nella sua proiezione sulla parete. Caduta, non-caduta, sospensione. Nel caos qualcosa si ferma e rimane oscillante nella sua immobilità. Nell’opera Candyman di Krizia Galfo, la posa dell’uomo pronuncia un legame con una stasi aderente alla condizione psicologica di tensione e di angoscia. Il volto e i suoi lineamenti sono congelati in una sfera dissociativa, di cui si fa testimone l’espressione alienante che, ossimoricamente ai colori vividi della superficie e del piano verticale, conducono in una profondità vuota. Silent 2 di Silvia Iampietro è quel silenzio-vuoto che può nascere nei rapporti più radicati e che coinvolge l’interezza della realtà sensibile. La percorrenza si fa rossa e il paesaggio è avvolto da un’aurea indistinta e ombrosa in un espressionismo che convoglia ogni dettaglio alla totalità del sentire. Negli intrecci arteriosi dell’opera A tutto spessore di Roberto Maria Lino, si aprono due vuoti spaziali che impongono, in un tempo lento, la ricerca di fessure che palpitano negli angoli remoti personali. In far (to) fall, opera in ferro gallico dell’artista Fabio Mariani, il vuoto è risultato dell’assenza della stampa definitiva. I lavori su lastra di alluminio sono, infatti, trattati come matrice di stampa calcografica che non raggiunge la sua primaria funzione. Nella matericità del trattamento del supporto, si configura un paesaggio, in cui si percepisce una farfalla. Si trova corrispondenza con il gioco di parole inglesi “far to fall”: se si elide il “to”, è immediatamente riconoscibile l’assonanza con la parola italiana “farfalla”, anche specie culturalmente connessa con la vanitas, la fragilità e l’impermanenza, generative del vuoto. In Colorful di Salvatore Mauro, la tela è trattata, secondo la rappresentazione dei post-graffiti. La stratificazione modulata, attraverso le forme che si stagliano sotto e sopra la sottile griglia, alterano la visione della composizione e si concretizzano nella dualità di vuoto e di pieno. Bruno Melappioni in Matteo utilizza il rapporto tra il materiale del ferro e il suo manifestarsi nello spazio che fa transitare, all’interno della presenza umana, quel vuoto che si presenta nella doppia direzionalità interiore e formale. L’opera Comodino di Matteo Patrevita si riferisce all’ultima ricerca dell’artista, incentrata sugli oggetti contenuti, con una vita propria, nelle case, con uno spirito che trova come perno un’attenzione antropologica verso la società. Il colore neutro e l’argilla non cotta e verniciata sono stati scelti per descrivere oggetti antichi, come veri e propri reperti rinvenuti dalla terra. Nella camera singola, alloggiano un unico comodino e un coltello che non può essere contenuto al suo interno, in quanto divenuto quadro a parete. Il coltello, inoltre, come il cassetto del comodino, rammenta l’assenza del corpo fisico. In Senza titolo dell’artista Veronica Neri, il collage di foto di recupero del cibo produce un dialogo tra la figura stessa e il vuoto che la circonda e la ingloba. La composizione è espressiva del significato per il suo andamento a spirale che mette in movimento il circostante. L’immagine è volutamente non nitida per esprimere un carattere disturbante del soggetto e in particolare di alcune sue forme, senza renderlo manifesto, con una modalità subdola.In Sunset dell’artista Elena P. V. Sanseverino, il tramonto è dimensione dell’animo, poetico declinarsi del sé prima del buio. È attimo fugace prima di un consapevole eclissamento nel vuoto assoluto. La gradazione tonale della foto digitale su plexiglass ci sollecita a una tenue ammissione dell’alternarsi tra vuoto e pieno. Ugo Piccioni, nell’opera Avarus non implebur (Host), riprende il passo biblico dell’Ecclesiaste, poi motto di Papa Innocenzo XI nato Odescalchi, “Gli avari non saranno saziati”. Il lavoro ha trovato il suo compimento solo nel giorno del vernissage quando i presenti hanno consumato tutte le ostie offerte all’interno della scatola in cartoncino per pasticceria. L’ostia trova la sua essenza piena per il fedele che ne riconosce il corpo e il sangue di Cristo; vuota per chi l’ha resa semplice pietanza. L’individuo decreta cosa possa avere valore e cosa possa essere considerato futile; il pieno e il vuoto. In Born to Set it rightdi Diana Pintaldi, le lastre di alluminio, trattate con la carta abrasiva, formano una superficie che, attraverso il movimento e il materiale, genera un effetto di flusso, oltreché di movimento tra le stesse. Attraverso il passaggio della luce nei buchi in codice morse, primo sistema binario di comunicazione, e l’assenza-presenza della stessa, si stabilisce una transizione dal pieno al vuoto. Lo spostamento rotatorio esprime il divenire costante. In Uncomfortable, l’artista Andrea Pochetti ci informa del vuoto individuale che ci autoimponiamo come isolamento non funzionale, come accecamento scomodo, come vuoto personale ricercato, pur di distoglierci dall’idea di esser soggetti relazionali. In Tondo di Katia Pugach, l’elemento circolare centrale è assente. La traccia del suo passaggio è ridisegnata dai due elementi triangolari esterni che si pongono come cornice, al cui interno è evidente l’andamento della materia vuota. Giovanni Romagnoli, in SS. Domenico e Sisto, rievoca una forma piena e serpentina, memore dello stile barocco che, nel suo pieno, ha sostituito l’assenza di una struttura antecedente, generandone il vuoto. L’artista Francesca Romana Cicia, in Ricordai di dimenticare, contestualizza la sua ricerca che affronta i meccanismi di accoglienza e di resistenza che si sviluppano nella mente umana. Centrale nell’opera è il tema della rimozione del ricordo, da cui scaturisce il vuoto. Applichiamo meccanismi di difesa che intervengono spontanei durante il corso della nostra vita. Tecnica e processo dell’opera ne manifestano l’evoluzione. Il colore blu, infatti, è stato cancellato in maniera più soave in alcuni punti evidenti all’interno della più ampia campitura uniforme di colore. In altri ha lasciato riemergere il bianco della tela. Nel Periodico di Adriano Rosati si riconosce quella funzione matematica periodicai cui valori sono uguali alla variabile da cui dipende, si addiziona o sottrae una quantità costante detta periodo. L’infinitezza stessa del simbolo nella sua fissità immutabile ne deduce un senso di vacuità. In Tratto da una storia vera, l’artista Nicola Rotiroti scandaglia, tramite il medium della pittura, le infinite verità taciute in una storia, inserendo soggetti al limite tra un surreale mostruoso e una narrazione reale. Non meraviglia, tuttavia, se il vuoto è restituito da una forma di interruzione di relazione. Nel rapporto dissacrante con il classico, l’artista Sbagliato costruisce, in Senza titolo, una cornice fragile che, per la sua stessa consistenza, non potrebbe svolgere la consueta funzione di “incorniciare”. Vuoto è il contenuto, traccia di un’impermanenza di un transitare fugace; vuota è la sua funzione e ciò che evoca nello spazio circostante, come ombra di un vissuto.

Gli artisti per “Maschera” 

La Maschera di Cristallo di Matteo Peretti è omaggio concettuale all’esposizione Maschera, ideato da Cristallo Odescalchi, ed è stata allestita, con una modalità giocosa, all’interno del percorso espositivo. Riferimento principale è il termine Maschera, derivante dalla voce preindoeuropea Masca, “fuliggine” o “Fantasma Nero”. L’artista conferisce, tramite l’impiego l’impiego della fusione in argento satinato in bagno d’oro, sacralità all’opera. Ne scaturisce un significato bivalente. La dimensione di taluni passati epocali è rievocata dal pensiero dell’artista Alessandro Giannì che trasforma e restituisce un canone rinnovato per mezzo dell’incontro con il linguaggio autentico del suo fare artistico, singolare per il proprio vissuto nel contemporaneo. Così nell’opera Self-portrait si apre un doppio livello di stratificazione immaginifica che riporta all’opera Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck e che, unitamente, è basata sui numerosi punti di osservazione che genera la nostra immagine riflessa allo specchio, nel suo riconoscimento unitario e doppio, e restituita attraverso l’autoscatto che isola la nostra presenza dal circostante. L’immagine rappresentata è lo schermo del dispositivo mobile che riporta al suo interno l’autoritratto dall’artista. L’artista Lavinia Parlamenti, nella composizione fotografica Traveling without moving, ferma un tempo che non scorre, recuperando il materiale fotografico dai suoi viaggi, e selezionandolo per introdurre il ricordo dell’istante vissuto. Il filtro che, tramite social, manipola le fotografie, è mascheramento della realtà che, contrariamente, ammette l’errore. L’artista fa uso giocoso dei filtri per ammettere tale condizione dilagante nel nostro presente. Cosimo Angeleri in Senza titolo, tramite la tecnica mista e riciclo, rappresenta due soggetti stilizzati, forse duplice volto di un solo individuo. L’uno porta con sé un foglio di appunti e scarabocchi, l’altro un foglio con precisi prospetti urbanistici. Monito è l’assenza dell’assoluto, del nero e del bianco. Jebila Okongwu, nell’opera Paesaggio apocalittico con maschera e foglia di banano, fa riferimento agli antichi miti induisti, in cui frutti, fiori, foglie e fusto dell’albero della banana vengono offerti agli dèi, durante i riti. Il paesaggio apocalittico ricorda la tragica sorte di Kadali Phalam, moglie dell’irascibile Durvasa Maharashi che affliggeva maledizioni alle persone non gradite, per i torti ricevuti. La maschera da combattente è abbandonata, insieme alla foglia, in un mare rosso. Pepe Maniak, in San Francesco, crea una maschera di stracci in contrasto con il titolo dell’opera che oppone il consumismo odierno e l’esigenza di “mutare continuamente vesti”, alla possibilità di poter riusare un determinato indumento a lungo. L’artista Tiziana Rivoni, nell’opera Piece 16, con uno sguardo antropologico-culturale, introduce sul volto del moro una copertura in corrispondenza del naso, degli zigomi e della fronte come maschera, alla quale gli studi attribuiscono la funzione di “medium” che consente un ponte con il mondo della spiritualità e con l’appropriazione di particolari poteri. Lo sguardo espressivo e malinconico lega la sua presenza alla leggenda. Camilla Ancilotto, in Testa di Leone con Mascherone e Lupa Capitolina, compie un’operazione che trasforma i mascheroni in “puzzle”, i cui elementi quadrati e rotanti, nella forma di solidi irregolari, permettono una trasformazione continuativa e che assembla, tra i soggetti riconoscibili, figure tradizionali come la Lupa Capitolina. Nell’opera Sakura Ring, l’artista Delfina Giannattasio, con l’associazione materica della ceramica smaltata e del ferro naturale, elabora forme appartenenti al mondo puro e spontaneo della Natura, che – nel loro esplicitarsi – germogliano poeticamente nel colore flessuoso del rosa pastello, come dimensione altra in cui manifestarsi. Marcello del Prato (aka Crollame), nell’opera Follia, percorrendo sentieri inconsci e riposti dell’io, si avvale di una continua analisi del sentire per immettere, nei lavori, profonde elaborazioni stratificate attraverso la pittura che, per un suo indagare esterno e interno, nella luce e nell’ombra, nel bianco e nel nero, inevitabilmente crea sferzanti sensazioni nella lettura del lavoro, recuperando uno stadio transitorio emotivo-emozionale. Dario Bosio in On the Identity of a Tomato Picker, attraverso la tecnica della stampa fotografica digitale su carta, interviene sull’immagine, apportando una manipolazione che cancella i tratti somatici del volto, e perseguendo una sedimentazione di una nuova anima, di cui la maschera è riconoscimento primario. Nel lavoro Senza titolo di Iulia Ghiță, l’immagine uterina-cosmica entra in un processo di riduzione figurale, fino a giungere a una rappresentazione essenziale. Nei quattro stadi di trasformazione, se apparentemente la prima immagine si presenta – per forma e contenuto – lontana dall’ultima della sequenza, tuttavia esprime il medesimo quadro di pensiero. In Black dog & white silhouettedi Theo Soyez, il doppio ritratto del cane e della donna esprime la dualità di identità ricercata durante l’azione fotografica. Il movimento, in cui è inquadrato il cane, è azione fissata in dialogo con la posa della donna. Forse un’anima prevale sull’altra, forse il rapporto di co-presenza non vuole mascherare ma compiere un gesto interpretabile, di volta in volta, da chi osserva. Nell’opera Invisible di Jennifer Hackett, il modulo del cubo si fa decorazione della maschera tridimensionale che, nella disposizione spaziale, si ramifica tramite una protesi strutturale, priva di peso. Il materiale trasparente non consente una totale copertura dei propri tratti, annullandone quasi la funzionalità. Elon Mask, opera dell’artista Rodolfo Guzmán, riprende il volto del patron di Tesla e di SpaceX, noto come uno degli imprenditori più visionari del mondo e, al tempo stesso, uno dei più controversi. L’artista affronta, dunque, il duplice livello che invita da un lato a soffermarci su figure analoghe e sul loro ruolo nella realtà attuale, dall’altro ci riporta sul piano del gioco che si individua nel cognome “Mask”, termine inglese di “maschera”. Daniele Spanò, nell’opera Wasn’t built in a day, copre le sembianze del volto con un monitor che contiene immagini relative a un passato storico artistico e architettonico-compositivo che si denota per un’atmosfera rarefatta e sacrale. Le pose e gli indumenti scelti, co-partecipano nella visione d’insieme, nel restituire una stasi classica. L’artista Silvio Saccà in The Ally, all’interno di una cornice colore oro e un ampio passepartout, inserisce un NFT incorniciato ed esposto in IPhone XS. La maschera, nella sua figurazione simbolica, è alleata del nostro io, copertura, non abnegazione dell’io ma suo doppio. Ludovica Gioscia in Obbrobio, opera della serie Mostri, crea un conglomerato di carta fazzoletto, filo, inchiostro indiano, nastro di raso, lana, plastica e calamite. In questa estrinsecazione materica si riflette il nostro essere al mondo, e ciò che l’uomo sta producendo come conseguenza del suo pensiero. Mostri. Giancarlino Benedetti Corcos, in Maschera senza titolo, designa un soggetto giocoso e, sincronicamente, archetipale che traduce il carisma dell’artista e ne proietta l’interiorità. Chiara Pellegrin nell’opera Isolata, concentra uno sguardo che arriva immediato all’osservatore, con una rilevante intenzionalità di introiezione nell’altro. Un volto-nuvola – che arriva da lontano – lo contiene e lo sospende in un liquido mondo-cielo. Interiorità in un altrove dimensione e, pur sempre, prossima. Costanza Alvarez de Castro, in Jaguar, dispone sul volto una maschera che ne trasforma i connotati umani in felini. Nella trasmutazione, l’individuo si annulla per assumere le fattezze in cui si identifica. L’artista Elia Novecento, in Zanne d’avorio, orecchie di velluto e una linea grigia per accompagnare la solita giornata senza proboscide, scompone il soggetto tra composizione geometrica e astratta e, nella scrittura gaia del titolo dell’opera, ci invita a immaginarci immedesimati in una surreale sfera situazionale. Marco Galletti, nell’opera Maschera e Vuoto, in vetro, resina e legno, isola un volto-maschera che si carica di un forte pathos, spingendoci a ragionare a occhi chiusi su ciò che ci determina, nella nostra parte più recondita. Tatiana Balchesini in Focus. Azione surreale, spazio temporale, fa riflettere – in una superficie specchiante – il canale di sguardo appartenente al mezzo fotografico. Come ci vediamo e cosa osserviamo. Forse le due azioni corrispondono o forse non le abbiamo mai relegate l’una all’altra. Piero Meogrossi, in Maschera ORG-MECCA, stampa ritoccata a cera e china, riproduce il disegno originale. In un’architettura che è anche volto-maschera, l’artista sembra riprendere gli studi anatomici leonardeschi che, attraverso lo studio del teschio, hanno fornito modelli esemplari per i sistemi architettonici dell’epoca. L’uomo rivela il suo complesso meccanismo interno che ne determina le azioni esterne. L’opera Di Maya non fidarti dell’artista Domiziana Febbi riprende gli antichi testi indiani e la filosofia di Schopenhauer, secondo la quale la vita dell’uomo è un sogno e il reale si nasconde sotto il velo di Maya. La realtà che osserviamo è, dunque, filtrata da un’immagine. Ciò che vediamo e che sentiamo è costantemente in mutazione. Il lavoro, in tarlatana stampata su carta, è un monotipo che vuole rappresentare una maschera, intesa come copertura che filtra il nostro pensiero. Il materiale consente di intravedere l’immagine retrostante ma la deforma. Adelaide Innocenti, in Fuliggine, pensa la maschera come oggetto di deposito ormai lontano e ritrovato, insieme alla fuliggine dorata, di cui forse era ricoperta, come volto sacro. L’artista Riccardo D’Avola-Corte, in Certi giorni il solo fatto di esistere è una ribellione, coerentemente al pensiero dei filosofi Deleuze e Félix Guattari, ragiona sui problemi che concernono l’eterno mascheramento.  L’uomo non si maschera per rimuovere ma, mascherandosi, rimuove la sua stessa identità. Tuttavia, quest’ultima è fluida, mentre la maschera rimane solo un’imago, una rappresentazione o prototipo inconscio che orienta il modo, in cui il soggetto percepisce l’altro. È un volto geografia, paesaggio di ribellione alla morte di sé stessi. Karolina Liusikova, in Giano Quadrifronte, rappresenta il dio degli inizi tra le più antiche divinità della religione romana, latina e italica. Il dio ha molteplici volti, tra i quali quello bifronte e quadrifronte, iconologia secondo la quale le quattro facce sono orientate verso i quattro punti cardinali. Lu Tiberi, in Un ballo in maschera, compone teste in terracotta dipinta e materiali misti su una base in ferro. L’opera rievoca il teatro dei burattini e la profusione nel cercare una carica espressiva che possa avvicinare i soggetti a un sentire umano. Ogni personaggio è colto in un’azione e stato emotivo differente. Ognuno è complice della propria maschera. Nell’opera Senza titolo (Maschera per non vedere#1) di Lorenzo Lupano, una sagoma – lavorata all’uncinetto – impedisce la visione bi-direzionale. Non possiamo riconoscere il soggetto nascosto, né lo stesso ha la possibilità di riconoscere il mondo sensibile. Massimiliano Amati, in Senza titolo (Lapponia), opera dei tagli su un libro vintage. Il paesaggio surreale è percepito, tramite il procedimento del “mascherare” una veduta e costringerla all’interno di figure misteriose. Anna Budkova, in Camouflage, ha lavorato sul tema della natura e su alcuni elementi archeologici, somiglianti tra loro. È una stampa digitale delcollage, realizzato a mano, e pensata per raggiungere una forma più astratta. I frammenti archeologici antichi sono molto legati all’essere umano, all’artigianato e hanno colori molto grezzi. Ricordano i frammenti della natura come la corteccia dell’albero, un fiore, o una conchiglia. Il frammento reca lo stesso volto della natura. Andrea Carolini, in Beneath the surface we are hiding, imprime il titolo dell’opera all’interno del supporto, in cui si districano soggetti animaleschi, la cui massa è quasi irriconoscibile. La difficoltà di comprensione nella leggibilità è associata dall’artista con l’impedimento relazionale con l’altro “mascherato”. Yanxin Yu, in Senza titolo, applica una lavorazione in gommapiuma, feltro e capelli sintetici. L’essere mostruoso allarga le fauci, in cui si vede un abisso profondo. Il colore e i terminali, tuttavia, ne imprimono un aspetto gaudio che maschera la dissociazione interna. Maria Mancini, nell’opera Infanzia, fotografia digitale, copre il volto fanciullesco con un oggetto legato al periodo infantile, il palloncino. Quest’ultimo apre alla significazione intrinseca e metaforica di fase vitale che costituisce e struttura la nostra personalità. Albert Gadomski, in Senza titolo della serie Quel che resta, in gres porcellanato e smalti, deforma il volto e ne coglie sono due organi sensoriali. Elimina lo sguardo per evidenziare l’importanza della forza espressiva che anche una bocca spalancata, digrignata o sorridente possono mettere in luce. L’interno della scultura è svuotato come un tempio sacro.L’artista Franco Losvizzero, nell’opera Dama Stella, lavoro in materiale plastico-ceroso su foto di fine ‘800, analizza la ricerca sulla maschera, come studio sulla mistificazione ma anche sulla trasformazione che si dispone sul doppio livello estetico-interiore. La dama è il soggetto della foto originale realizzata con i sali d’argento, sul cui volto è stata sovrapposta una testa di animale, forse un agnello sacrificale. Il gesto benedicente della mano è elemento di spiritualità latente, di un divino giocoso, e in parte alterato. La stella cometa rimanda al presepe. Le memorie di infanzia confluiscono nelle memorie collettive, in infiniti rimandi di significazioni. Zaelia Bishop, nell’opera Give me shelter or give me death, interpreta il concetto di maschera come “camouflage” o paesaggio ideale dell’esistenza, ove si tenta un nascondimento. Un elemento dissonante si presenta come ultima parte colorata e fluorescente ed è simbolo di quella parte infedele del sé che spinge l’individuo fuori dal riparo costruito, verso luoghi sconosciuti rispetto al nostro orizzonte conoscitivo. Ognuno di noi cerca riparo e, simultaneamente, l’idea dell’oltre. Sara Nicomedi, nell’opera Alcoholritmic, stampa su forex, coglie una moltitudine di persone nell’atto di danzare sotto l’effetto dell’alcohol che crea uno stato dionisiaco di disinibizione e di movimento melodico, restituito grazie all’uso della luce rossa, nel rapportarsi con l’altro. Grecory Sugnaux, in Die Unzertrennlichen, in gouache e acrilico su tela, riporta una maschera doppia. Nasce spontanea la contraddizione con la rappresentazione tradizionale delle maschere greche che, nel doppio, designavano i due volti della tragedia e della commedia, entrambi caratteri propri di Dioniso. Il tema riprende anche detti popolari che riconoscono, nel secondo volto, una maschera del primo.In Maschera. Codardia su impulsi elettromagnetici di Matteo Bussotti, un dispositivo audio dotato di cuffie è momento di interrogazione sul senso del mascheramento. La maschera non rende imperscrutabili. Si genera un’apertura al dialogo con sé stessi, nell’ingresso all’ascolto delle storie udibili. Ricade un vortice di assimilazione di una fragilità diffusa, comune e celata, fino all’emissione di confronto relazionale. Theo Range, nell’opera I segreti di Roma (The value of information vol.1) della serie 1/4 I segreti di Roma vengono alla luce con trasparenza, genera una scrittura illeggibile su piccole strisce di carta tritata. La scrittura è volto di una società che conserva una memoria storica identificativa. Eliseo Sonnino Di Laudadio, nell’opera Mask off, rappresenta il cadere della maschera, vanificando l’idea dominante che abbiamo del reale. Si perde ciò che lasciamo dietro, solo se ne accettiamo la presenza. Ciò implica sia il velamento, sia lo svelamento. La forma è realizzata, tramite una patina ovoidale, sulla quale emerge una pittura geometrica rimasta a lungo “mascherata”, chiusa, procedendo anche, a livello tecnico, sullo stesso piano concettuale. La pittura a pennello è, invece, usata nella parte terminale del lavoro, imponendo un ulteriore dualismo. Innocenzo Odescalchi, in Ombre volanti, genera uno specchio di campiture di colore, in cui si riflette una sagoma d’ombra sospesa. L’ombra è la parte inconscia del nostro io che riproduce, nell’incontro con il conscio, un substrato di connessioni, altrimenti dimenticato. Dario Carratta, in Senza titolo, impiega la cartapesta, utilizzata dai greci già nel IV secolo a.C. per le maschere comiche e le icone di culto. L’immagine grottesca della figura è simile a quella dei mascheroni che scacciano gli spiriti negativi ed è espressione di un sentire che manifesta, in forma dilatata, sensazioni aderenti al quotidiano.L’opera, somigliante a una maschera arcaica in pietra, è parte di un ciclo ispirato alle maschere di James Ensor. Giulia Apice, nell’operaI’m water. Tutti noi siamo acqua, ammette che l’essere è fluido nel suo porsi in relazione con il circostante. Il sostantivo italiano “persona” deriva dal latino persōna, termine etrusco per “maschera teatrale”. Noi siamo l’altro, connessioni che, come la sostanza fluida, mutano forma e immagine percepita. Il vetro smerigliato e il vetro-cemento, matericamente, rappresentano il filtro o maschera tra il soggetto e l’occhio che guarda. Nell’opera Sovraccoperta di Maddalena Scuderoni, perno della ricerca, che si staglia su molteplici livelli estetico-dialogici, è l’essenza del segno dell’argilla impiegata sincronicamente con la carta, secondo un processo che determina l’importanza del materiale nella risultanza espressiva. L’identità sospesa delle entità è colta, tramite un’estraniazione dall’insieme di appartenenza. Bȇte comme un peintre è un’installazione di Gino Piuccio, pseudonimo di Ugo Piccioni, che presenta una maschera antigas sovietica originale in gomma, metallo e vetro. La maschera è posta sopra un volume che reca la scritta “Stop painting”. Il titolo dell’opera riprende, infatti, l’ironica citazione duchampiana che connota un vecchio detto francese. “Stop painting” è il titolo del catalogo della mostra collettiva, curata da Peter Fischli, e svoltasi nel 2021, presso lo storico palazzo di Ca’ Corner – Fondazione Prada che lo ha pubblicato. Le opere, caratterizzate da tecniche esecutive diverse, esprimono il superamento della pittura. La maschera, dunque, si fa voce della resistenza della pittura che non cede al tentativo di essere “superata”, come, invece, sottolineano le parole “stop painting”. Il pittore, metaforicamente, indossa la maschera per evidenziare la resistenza della pittura all’incidere del tempo. per ricordare il divieto che il volto del potere imponeva nell’espressione artistica dell’epoca. Futura Tittaferrante, nel collage Qualcosa di nitido che affilava i sensi, sovrappone dei ritagli fotografici d’archivio su una superficie trasparente e incorniciata che crea, nel volume, ombre riconducibili, nel loro protendersi, alla sfera concettuale richiamata. Il volto si svuota e lascia spazio ai ricordi di sensazioni taglienti, provate nel corso della nostra esistenza. Gio Pistone, in Limoni, lavoro in gesso, legno e acrilico, racconta di una maschera che rivela la sua materia fragile e in decomposizione. Muffe invadono la superficie che apre, in corrispondenza dello sguardo, due piccoli oculi, caricando l’opera di un sentimento malinconico. L’opera Guardami, se ci riesci di Elio Castellana è dirompente riflessione sull’uso delle storie di Instagram che utilizza come mezzo creativo. Le fotografie, unite in un collage o video, sono base di partenza per la definizione della “tecnica della storia di Instagram”. L’opera presentata è parte indipendente del lavoro Storie degli ultimi giorni, è sua possibile evoluzione. La figura femminile – che tramuta in maschera – deriva dall’immagine della Contessa di Castiglione, nobildonna dell’Ottocento, spregiudicata e di origini nobili. Regge un cartoncino con un buco, attraverso il quale spia. In prossimità, si scorge la figura ironica del gatto allucinato che vive una dimensione parallela alla nostra. È un’osservazione che svela la natura artificiosa della fotografia, come modo per oggettivare la realtà. La stampa dello screenshot-cellulare è su ceramica lapidaria. L’artista Francesco Andreozzi, in Senza titolo, si autoritrae come paesaggio cosmico. L’uomo crea una connessione con il presente e con gli infinitesimali mondi di appartenenza. Il fondo si carica di un rosso fervido simbolico. Alberto Emiliano Durante, in Fuliggine, rompe la forma ovoidale in segmenti specchianti e la incornicia, per sottolinearne la forma. Nelle crepe si riconosce l’energia germinale di una massa che racchiude l’io, nel suo stadio primitivo.  L’artista Orazio Battaglia,in Mascara, desume il titolo dell’opera dalla sua variante italiana “maschera”.  Il termine che indica un cosmetico ci induce a ragionare anche sulle due espressioni di “vanità” come spropositato desiderio di possedere un’immagine perfetta, e di “vanitas” che allude alla caducità della vita. Chimera #1/#2/#3/#4/#5 di Maria Pia Picozza è una serie di stampe digitali su carta fine art, in tiratura limitata (1/5) di cinque momenti performativi distinti e fissati, tramite il mezzo fotografico. L’artista indossa delle maschere scultoree chimeriche che la invita a vivere una dimensione altra, rispetto al presente tangibile.  Lucangelo Bracci, in Lavneum, opera in china su carta, riconduce la forma estetica della maschera in una doppia lettura che, se da un lato recupera i tratti somatici dell’uomo, dall’altro ne allontana la leggibilità, verso una sfera alienante.