Come condensare in poche righe una riflessione fenomenologica sullo sguardo che possa accompagnare la già coinvolgente presa in visione del “dialogo” pittorico fra Rita Mandolini e Julie Rebecca Poulain? È questa la domanda che m’è balenata in testa quando ho avuto occasione di approcciarmi all’intimità della mostra Di stanza in stanza presso la galleria Curva Pura di Roma. Il vibrante contrappunto delle due voci artistiche, così lontane ma al contempo affini, orchestrate sapientemente dal lavoro curatoriale di Nicoletta Provenzano, permette un amalgama emotiva precisa, che s’aggruma su un afflato contemplativo, sul desiderio di accingersi agli oggetti del quotidiano ed osservarli con un’attenzione che definirei fluttuante, a tratti disincantata e leggera, a tratti rapita e intensa.
Ma c’è di più: potremmo cogliere, infatti, come sottofondo della bi-personale, una stessa istanza germinativa, una sorta di “punto di partenza” teorico attraverso cui si dipana sia la differenziazione dei linguaggi delle due artiste, sia una risoluzione di tale differenza, un collimare delle due diverse prospettive verso un territorio emotivo e sensoriale comune, intriso di un’estetica figurativa minimale, asciutta, abbandonata alla pura visione. Quest’istanza è l’oggetto sguardo, ed è proprio una diversa dislocazione dello sguardo a far vibrare la natura “diplopica” di questo incontro, a marcare la differenza che si risolve nell’organicità dell’esposizione. Proviamo allora a produrre un affondo su questo punto, riferendoci ad una teorizzazione dello sguardo ben precisa.
Nel corposo saggio Immagini che ci guardano Horst Bredekamp se la prende con Jacques Lacan, quest’ultimo incapace, a detta dello storico dell’arte tedesco, di essere fedele alla radicalizzazione della sua teoria dello sguardo. Questa incapacità, sempre secondo Bredekamp, ha fatto sì che l’opera d’arte, per la riflessione lacaniana, diventasse un semplice marchingegno-filtro nei confronti del reale, una pratica che assicuri un certo «effetto pacificante, apollineo». Cosa dice esattamente lo psicoanalista francese sullo sguardo? Potremmo rispondere a questa domanda interpellando Jacques Alain Miller, testamentario dell’opera lacaniana: «Lo sguardo, nel senso di Lacan, non è la mia risposta percettiva al sollecito del percepito. Lo sguardo lacaniano è quel che ci include, in quanto essere guardati, nello spettacolo del mondo». Tesi sovversiva, che elabora un’intuizione merleau-pontiana: in effetti, è l’illuminazione che permette la visione degli oggetti del mondo; il soggetto, con la sua di visione, si accorda semplicemente ad un campo visivo già in atto. Il nostro vedere non è che, come scrive Alex Pagliardini, «un tentativo di entrare in risonanza con la visione dell’illuminazione». Ancor di più, Lacan intende lo sguardo non come una facoltà di accordo con il campo visivo (messa in opera quindi da chi vede) ma come una concentrazione di illuminazione in un punto preciso dello stesso campo. Lo sguardo, insomma, si “cosifica” e irrompe nel campo. L’arte, di conseguenza, non sarebbe che il tentativo di contenimento, schermamento o velamento di tale irruzione.
Se prendiamo per buono le parole di Bredekamp, ovverosia che Lacan arretra nei confronti della forza pervasiva e perturbante dell’arte, possiamo dire invece che le opere delle due artiste, romana e francese, non schermano alcunché, anzi insistono caparbiamente nel disvelare l’oggetto sguardo. Da qui la differenza fra i linguaggi. A Julie Rebecca Poulain s’impone il reale del quotidiano e la visione assidua delle pieghe di un tendaggio. Il panneggio è restituito dalla pittura su tela con una dovizia di particolari ma disarticolato in dettagli; ogni dettaglio della piegatura pone in luce un alternarsi di diverse voluminosità, nonché una altrettanta varietà di effetti chiaroscurali. Il gesto artistico, raffinato e penetrante nel reiterare il dispiegamento delle molte prospettive visive attraverso cui cogliere l’oggetto, dà al fruitore dell’opera l’impressione di esserne fagocitato. Siamo guardati dal velo tanto da esserne avvolti. Esso non è rappresentato come oggetto eletto fra i tanti dislocati nello spazio di una stanza, ma come irruzione che sovverte le coordinate della stessa, velo che disvela gli angoli del proprio spazio, emotivo e non. Il lavorio pittorico della Mandolini contempla un oggetto che non è dislocato nella quotidianità, ma investe la dimensione della memoria e dell’assenza. L’oggetto-memoria, fantasmatico nelle sue fattezze, traccheggia su uno sfondo nero, campitura che si configura spazio-oblio che genera e cancella le energie morfologiche dell’immagine.
Cosa emerge da questo magma scuro? Sagomature che richiamano a belletti, acconciature, orpelli e pennacchi: un armamentario prelevato dal proprio lessico famigliare, essendo l’artista figlia di produttori di parrucche per lo spettacolo. Come ricordi non vividi, memorie fossilizzate dalle stratificazioni degli eventi della vita, i soggetti sono tratteggiati da pennellate leggere ton sur ton e si configurano flebili nella loro esigenza percettiva. Eppure, risulta evidente una vitalità dinamica che percuote l’abisso della memoria: gli oggetti si presentificano nell’atto della propria apparizione e sono come colti nell’atto di sparire, di essere riammessi nel campo infinito del vuoto. L’effetto estraniante è proprio dato dallo sguardo: lo spettatore si ritrova inglobato nella nullificazione del nero, nella stanza mentale della contemplazione, ove le immagini che si producono e si dissolvono non sono subordinate ad alcuna volontà, che sia di trattenimento o di cancellatura. Gli oggetti hanno natura e movimento proprio: nelle tele di Rita Mandolini li si lascia semplicemente accadere.
Torniamo quindi al nostro discorso, e al passaggio che va dalla differenza alla consonanza: le opere di Poulain e Mandolini, immerse come sono in una dualità espressiva ben posta in evidenza dalla curatela (sin dal contrasto cromatico chiaro/scuro) trovano una corrispondenza “divergente” nell’emersione di quell’invisibile, per dirla con Merleau-Ponty, che è l’oggetto sguardo. Esso si insinua nel percorso della mostra, nel gioco di rimandi fra il mostrarsi e il celarsi delle immagini, e provoca nel fruitore un turbamento, quel riconoscersi abbindolato al desiderio di osservare, contemplare, introiettare o destituire i molteplici oggetti della propria caustica passione.
Di stanza in stanza
Rita Mandolini – Julie Rebecca Poulain
a cura di Nicoletta Provenzano
Curva Pura, Roma
Fino al 18 febbraio 2024