L’arte del dialogo, tra riflessione ed emozione

Esce in questi giorni il volume Pratiche discorsive su arte e filosofia a cura di Viana Conti. Giuseppe Zuccarino anticipa su Segnonline contenuti e riflessioni

Viana Conti non è soltanto un’attenta e sensibile studiosa dell’arte contemporanea, capace di individuare artisti significativi (siano essi già noti o emergenti) e di stabilire con loro un intenso scambio di idee, organizzando mostre e scrivendo articoli o saggi pubblicati in giornali, riviste, cataloghi, libri. Infatti la sua curiosità intellettuale le permette di tenersi al corrente, tramite gli incontri personali e le vaste letture, su tutte le novità significative apparse in campi in apparenza esterni rispetto alle arti visive, come quello filosofico. Ciò le ha consentito, ad esempio, di organizzare a Genova nel 1980 un importante convegno internazionale dal titolo Sapere e Potere1, oppure di intrattenere colloqui con pensatori di rilievo fra cui Baudrillard, Virilio, Nancy, Perniola. È proprio quest’apertura di orizzonti a conferire alla sua attività una ricchezza particolare, così come è la qualità della scrittura a rendere significativi i suoi testi. Quello da lei svolto nel corso dei decenni rappresenta dunque un lavoro coerente e ammirevole, che dimostra come soltanto superando i limiti di un ristretto specialismo sia possibile esercitare in maniera davvero valida ed efficace l’attività critica.

Una testimonianza, parziale ma significativa, di tale aspetto della sua attività viene offerta dal volume Pratiche discorsive su arte e filosofia2. Di esso Conti si presenta come curatrice, pur svolgendo di fatto, a seconda dei casi, ruoli diversi: autrice, intervistatrice, traduttrice. Concependo la critica come incontro diretto con l’artista e i prodotti della sua creatività, adotta il medesimo atteggiamento anche quando ad essere in causa sono un compositore musicale come John Cage, uno studioso dell’arte come Louis Marin, critici e curatori di mostre come Szeemann o Celant, filosofi come Lyotard o Baudrillard, tutte persone che lei ha avuto modo di incontrare durante il proprio percorso esistenziale. Da qui l’interesse (che non dipende soltanto dalla pratica giornalistica) per la forma dell’intervista, con l’intreccio di voci e pensieri che essa immancabilmente comporta.

L’obiettivo principale del volume viene chiarito assai bene nella premessa: «Questa pubblicazione intende trasmettere al lettore alcuni effetti d’affezione, disseminati sul prato verde della memoria, su cui continuano a rinverdirsi, non senza emozione, autori opportunamente irrorati dal ricordo. Possono essere soggetti d’arte e di pensiero, documenti cartacei, visivi, acustici, reperti scritturali, strutture mentali, parole percepite on the road, tracce disegnate sulla volatile distesa del deserto, sul bordo del silenzio, riscritte, talvolta dette in pubblico»3. Benché Conti sia presente, in maniere diverse, in ognuno dei testi che compongono il libro, la sua intenzione non è quella di privilegiare l’approccio autobiografico. Lo dimostra la scelta di disporre i vari capitoli non in sequenza cronologica, bensì in base all’ordine alfabetico dei nomi degli autori trattati. Proprio quell’ordine alfabetico che era caro a Roland Barthes, il quale lo aveva adottato in opere famose4.

Cerchiamo adesso di entrare nel merito di alcuni fra i numerosi testi inclusi nel volume. Si inizia con la parte dedicata a Jean Baudrillard. Il filosofo, invitato a partecipare al citato convegno Sapere e Potere, percepisce nel titolo un omaggio indiretto a Michel Foucault, con cui ha già avuto modo di polemizzare5. Sceglie dunque di porsi in controtendenza, sostenendo che tanto la volontà di potere quanto la volontà di sapere sono ormai sul punto di estinguersi. A suo avviso, «l’ordine della verità, l’ordine del reale e del politico non esistono più in un universo in cui gli avvenimenti non hanno più conseguenze»6. Egli ritiene lecito porsi una domanda: il nesso che lega sapere e potere, la «congiunzione che Foucault ci descrive come piena e operativa, non è forse quella di due astri morti, i cui ultimi riflessi si illuminano a vicenda perché hanno perso la loro luce propria?»7. La discutibile strategia di Baudrillard, che consiste nel proclamare la fine di ogni evento reale, ormai sistematicamente sostituito dalla semplice simulazione, viene però messa in crisi da fatti non prevedibili come l’attentato del 2001 che causa il crollo delle Twin Towers a New York. In un’intervista concessa all’artista Jean-Pierre Giovanelli, egli deve ammettere che quel particolare accadimento «è irriducibile a qualsiasi antecedente, alle conseguenze, a ogni spiegazione […], nella sua natura di evento è radicale»8.

L’incontro di Viana Conti con John Cage, esponente di primo piano nell’ambito della musica contemporanea, avviene a Genova nel 1978, in occasione di un concerto-performance. Lei rimane colpita non soltanto dalle idee espresse dal compositore durante il colloquio, ma anche dal suo aspetto e atteggiamento: «Al di là della comunicazione verbale, la qualità della presenza di John Cage è già percepibile dall’ascetismo della sua figura fisica. Sorridente e disponibile al dialogo, è tuttavia attento e critico nelle risposte. […] Ascolta il suo interlocutore, ma ciò che non condivide viene da lui respinto con veemenza: il suo impeto è tuttavia dolcissimo»9. Secondo Cage, «la musica in sé non è che una parola», dunque «occorre fare del mondo intero una musica». «Quando si ascoltano dei suoni più o meno organizzati in un ritmo periodico, quel che si ascolta è necessariamente qualcosa d’altro rispetto ai suoni stessi. Non si ascoltano i suoni, ma il fatto che i suoni sono stati organizzati. Lo Zen mette in opera una condizione del rifluire verso la non-organizzazione, cioè verso i suoni così come sono»10. Conti torna ad occuparsi del compositore statunitense parecchi anni dopo, in una conferenza in cui ne riassume l’intero itinerario. Non può certo sfuggirle il fatto che Cage si è dedicato anche alla pittura, ed ha intrattenuto fruttuosi rapporti con artisti visivi come Mark Tobey, Robert Rauschenberg, Jasper Johns. È emblematico in tal senso il parallelismo tra i quadri bianchi dipinti da Rauschenberg, esposti per la prima volta nel 1951, e il celebre pezzo silenzioso (della durata di quattro minuti e trentatré secondi) ideato da Cage l’anno successivo.

Si torna alla filosofia con Jean-François Lyotard, con cui Conti ha avuto la possibilità di dialogare a Firenze nel 1988. Il fatto che per lei l’intervista registrata, destinata poi alla trascrizione, non sia da considerare un procedimento ovvio emerge bene dal primo quesito rivolto al pensatore francese: «Una quantità di parole lanciate in aria nelle figure delle domande e delle risposte, sta per ordinarsi nelle righe della scrittura. Cosa viene trattenuto e cosa perduto nel passaggio? In ogni registrazione c’è il rischio di perdere l’autore due volte, cioè in diretta e in differita, nella trascrizione e nella traduzione»11. Lyotard condivide questo approccio, e si sofferma a sua volta sulle difficoltà connesse al tradurre, un atto che gli appare quasi irrealizzabile, «perché non soltanto bisogna trovare la parola, e solitamente manca il tempo di aspettarla (fatto del tutto angosciante), ma per di più non basta trovare l’analogon della parola, bensì ciò che l’altro voleva dire attraverso quella parola»12. Interrogato poi sul concetto di sublime – oggetto fra l’altro di una serie di lezioni che verranno pubblicate pochi anni dopo13 –, il filosofo lo definisce così: «Il Sublime è l’impossibilità di ogni sintesi rappresentativa: è quell’impresentabile che non si lascia informatizzare»14. Tale impossibilità si manifesta anche nella scrittura e nelle arti visive odierne, legate spesso alla ricerca di una parola o di un segno mancanti, non ancora conseguiti: «Quando si dipinge […], si parla, si scrive, si produce un deserto per costruire un luogo in cui rompere il silenzio. Qualcosa è in gioco, quando si fa quel lavoro di ricerca, qualcosa che non ha a che fare con il già sperimentato»15. Dunque, in un momento storico in cui tutto appare riconducibile o riducibile alla tecnologia informatica, per contrasto conviene valorizzare proprio il momento di indicibilità, di «infanzia» nel senso etimologico del termine: «Nessuna memoria elettronica ha fatto esperienza di una non-esperienza, come quella dell’infanzia, che è di non parola. Io penso che colui che scrive, dipinge, compone […], non faccia altro che testimoniare l’infanzia»16

Di notevole interesse sono anche le osservazioni fatte dallo storico e critico d’arte Louis Marin in un’intervista di Viana Conti pubblicata nel 1989. Essendosi occupato, nei suoi libri, soprattutto della pittura dei secoli passati, egli riflette su ciò che la distingue dalla produzione artistica recente. A suo avviso, mentre la prima manteneva il discorso teorico sul dipingere separato dall’opera stessa, nell’arte contemporanea teoria e pratica tendono a coincidere: «Nel passato, il pittore […] faceva un discorso teorico sulla sua procedura pittorica. Nel “presente” esercita pittoricamente la sua teoria della pittura facendo un’opera, un quadro»17. Tale mutamento, però, non costituisce un ostacolo per chi voglia indagare oggi sulle creazioni artistiche definibili come classiche, anzi vale piuttosto l’inverso: «Per lo storico-teorico dell’arte, per lo “studioso di estetica”, diventa estremamente fruttuoso guardare le opere del passato, abbandonandosi ad una sorta di sperimentazione “mentale” partendo dai protocolli […] che gli propongono le opere del presente»18. A chi obiettasse che retrocedere nel tempo equivale a confrontarsi con una pittura legata alla rappresentazione in misura assai maggiore di quanto lo sia la produzione novecentesca, Marin risponderebbe facendo notare come, sia allora che oggi, la concezione mimetica dell’arte «è soltanto un effetto percettivo, mentale e sociale, che rischia, soprattutto nel campo della pittura, di occultare quelle forme di articolazione e di organizzazione dei colori e delle linee su una superficie che costituiscono […] l’essenziale del lavoro»19. In tal senso, egli ritiene poco proficuo l’utilizzo di nozioni come «postmoderno» o «citazionismo», visto che da sempre gli artisti hanno messo in atto, nel produrre opere nuove, meccanismi di richiamo a quelle di autori antecedenti.

Una delle tipiche attività di un critico d’arte consiste nell’organizzare esposizioni collettive. Lo sa bene Conti, che ha curato ad esempio due ampie rassegne dedicate all’arte svizzera20. Ancor più congeniali per lei sono le mostre nelle quali può includere pochi artisti (cui è legata da amicizia e frequentazione) e nelle quali può far emergere la propria concezione di un’arte non soltanto apprezzabile sul piano estetico, ma anche coinvolgente, in quanto legata ad un certo pathos21. Ciò basterebbe a spiegare, da parte sua, l’interesse e l’ammirazione per Harald Szeemann. È infatti in causa un critico capace non soltanto di organizzare grandi mostre, fortemente segnate dalla sua personalità, ma anche di coltivare il sogno di un «Museo delle ossessioni». È lo stesso Szeemann, intervistato da Conti nel 1985, a ricordare alcune di quelle celebri rassegne internazionali, da When Attitudes Become Form (1969) a Documenta 5 (1972), da Junggesellenmaschinen – Les Machines Célibataires (1975) a Der Hang zum Gesamtkunstwerk (1983). Egli dichiara appunto che «quello delle mostre è un linguaggio che ha possibilità espressive ancora sconosciute», e aggiunge: «Per me una mostra è una grande avventura passionale»22. Quanto al «Museo delle Ossessioni», lo definisce come un progetto «sempre inquieto, in cui l’ossessione è rappresentata da un’idea che aspira a una potenza rappresentativa, senza diventare prigioniera della forma. È quel famoso museo che non si realizza mai»23.

Pur non condividendo tali aspirazioni demiurgiche, né la nostalgia per il sogno wagneriano di un’opera d’arte totale, Viana Conti riesce a tracciare nel suo volume «una mappa di spostamenti, incontri, colloqui, documenti, flussi, che non cessano di ricostruire il percorso di una militanza critica sul terreno mutevole e cangiante, su una risorgiva archeologia del passato nel presente dell’arte contemporanea»24. E non si tratta certo di una cosa da poco, poiché per far ciò occorre, come già detto, saper mettere la critica d’arte in dialogo con esperienze assai diverse, aprendola dunque a una rischiosa, ma nel contempo fruttuosa, «deterritorializzazione».

Teatro del Falcone, Palazzo Reale, Genova 1981, da sinistra: Viana Conti, critico e traduttore, Giuliano Galletta, artista e scrittore, Carlo Romano, critico, scrittore esponente della Controcultura a Genova, Giuseppe Zuccarino, critico e traduttore.
  1. Cfr. gli atti del convegno: Sapere e Potere, Milano, Multhipla, 1984.
  2. Pratiche discorsive su arte e filosofia, a cura di V. Conti, Milano-Udine, Mimesis, 2021.
  3. V. Conti, Premessa, ibid., p. 7.
  4. Come si rileva dal loro indice, nelle edizioni francesi: R. Barthes, Le plaisir du texte, Paris, Éditions du Seuil, 1973 (tr. it. Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975) e Fragments d’un discours amoureux, ivi, 1977 (tr. it. Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 1979).
  5. Cfr. J. Baudrillard, Oublier Foucault, Paris, Galilée, 1977 (tr. it. Dimenticare Foucault, Bologna, Cappelli, 1977).
  6. J. Baudrillard, Configurazioni. Contro il sapere e il potere: segreto e seduzione, in Pratiche discorsive su arte e filosofia, cit., p. 22.
  7. Ibid., p. 25.
  8. J. Baudrillard, Troppo tardi per la rappresentazione?, ibid., p. 38.
  9. John Cage. Lasciar essere… i suoni, ibid., p. 51.
  10. Le asserzioni di Cage qui citate fra virgolette si leggono alle pp. 53-54.
  11. Jean-François Lyotard. Fare arte è non smettere di testimoniare l’infanzia, ibid., p. 111.
  12. Ibid., p. 112.
  13. J.-F. Lyotard, Leçons sur l’Analytique du sublime, Paris, Galilée, 1991 (tr. it. Lezioni sull’analitica del sublime, Milano-Udine, Mimesis, 2021).
  14. Jean-François Lyotard. Fare arte è non smettere di testimoniare l’infanzia, cit., p. 113.
  15. Ibid., p. 115.
  16. Ibid., p. 120.
  17. Louis Marin. Autoritratto, ibid., p. 127.
  18. Ibid., pp. 128-129.
  19. Ibid., pp. 132.
  20. Si vedano i rispettivi cataloghi: Ipotesi Helvetia. Un certo espressionismo, Genova, Costa & Nolan, 1990 e Frammenti Interfacce Intervalli. Paradigmi della frammentazione nell’arte svizzera, ivi, 1992.
  21. Pensiamo in particolare ai libri-cataloghi Arte e intelligenza emotiva, Recco, Le Mani, 2009 e Arte e perturbante, Savona, Delfino & Enrile, 2017.
  22. Harald Szeemann. La verità di Szeemann, in Pratiche discorsive su arte e filosofia, cit., p. 154.
  23. Ibid., p. 157.
  24. Premessa, cit., p. 8.

Giuseppe Zuccarino, nato nel 1955, è critico e traduttore. Ha pubblicato vari volumi di saggi (La scrittura impossibile, 1995; L’immagine e l’enigma, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, 2000; Percorsi anomali, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, 2005; Il dialogo e il silenzio, 2008; Da un’arte all’altra, 2009; Note al palinsesto, 2012; Il farsi della scrittura, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, 2016; Immagini sfuggenti. Saggi su Blanchot, 2018; Interscambi. Filosofia, letteratura, pittura, 2019. Sacrifici e Simulacri. Bataille, Klossowski, 2021. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.

Pratiche discorsive su arte e filosofia
Curatore: Viana Conti
Editore: Mimesis
Collana: Eterotopie
Anno edizione: 2021
In commercio dal: 4 febbraio 2021
Tipo: Libro universitario
Pagine: 190 p.
EAN: 9788857572918