L’arte della burocrazia: Smith in Cina? [terza parte]…

Le idelogie liberali sono morte? Con la fine del modernismo liberista sembravano non avere più senso sistemi di idee destinati a promuovere interessi in conflitto permanente. Un’illusione così effimera da far sospettare che non ci sia niente di più ideologico della pretesa che le ideologie del capitale siano scomparse. In un testo nel quale la padronanza della storia della «Nuova Ricchezza delle Nazioni» si fonde con il dono enigmatico della sua realtà globale, il neo-Smith ci offre le chiavi per un esercizio critico del fanatismo ideologico, oltre il senso comune!

1.Dopo quattro o cinque miliardi e mezzo di anni di evoluzione, il nostro pianeta sta morendo. I segni del possibile collasso sono sempre più chiari e sotto le mani del liberismo anarchico e sfrenato: l’agonia del mare, la distruzione delle foreste tropicali, la lacerazione dello strato di ozono, l’effetto serra, le piogge acide, l’estinzione di intere specie animali, la sordità del burocratismo liberista, lo smodato managerialismo, il catastrofismo nichilista e post-moderno, l’inquinamento dello sviluppo democratico, il cinismo spettacolare liquido e post-liberale, il pensiero unico basato sulla teoria morale totalitaria. Per innumerevoli anni, le generazioni umane hanno vissuto problematicamente con il cinismo proprietario e l’accumulazione originaria, poi, nel corso della storia, c’è stato uno strappo improvviso che ha compromesso il traballante equilibrio capitalistico occidentale. Il Capitalista, a differenza degli animali che sono sottoposti alla selezione naturale, è riuscito a modificare le condizioni ambientali adattandole alle esigenze della produzione fiscale e manageriale. Questo processo si è realizzato, provocando gravi danni alla gestione dell’ambiente naturale: per creare un habitat sempre più tecnotronico e cinicamente postremo. Con la rivoluzione industriale, scientifica e tecnologica, la logica dello sfruttamento smithiana è diventata saccheggio indiscriminato delle risorse naturali. Sviluppo era una parola magica, perché anche noi, intellettuali, artisti, mondo della cultura e dell’istruzione, ci sentivamo compresi in questa parola, con la speranza che i poveri avrebbero ottenuto migliori condizioni di vita, ma invece tutto questo per le mani del cosiddetto “primo mondo” si è trasformato in ideologia apologetica del Nuovo Leviatano. La modernizzazione ha una forte caratteristica tecnocratica e si traduce nella priorità della tecnologia dei mezzi di produzione, causando il problema universale della disoccupazione e aumentando il livello di povertà del pianeta. Nel liberismo si parlava di marginalizzazione, ma si poteva sempre sognare di tornare al centro. Il neoliberismo parla cinicamente di esclusione, se si è esclusi da un’istituzione non c’è nessuna possibilità di ritorno, vivendo una dimensione di funzionarizzazione dell’esclusione. La frase più cinica di questa storia è quella del giornalista ed economista americano Samuelson, che ha scritto sul Newsweek: “La guerra contro la povertà è terminata ed i poveri hanno perso”. Cioè il capitalismo non deve mai preoccuparsi del problema della povertà, la povertà è un effetto naturale dell’avanzare del sistema capitalista: il processo di accumulazione sarà possibile solo se verrà accettato naturalmente il processo di esclusione e di esonero del problema del lumpenproletariat, ovvero i nuovi schiavi. La risposta degli esclusi è la compressione geografica che essi esercitano sul mondo dei ricchi, ossia il fenomeno della migrazione verso il primo mondo. E così, dopo che in esso è stato distrutto il muro di Berlino, sarà necessario costruire infiniti muri neoliberali per proteggere Milano, Parigi, New York dall’accesso dei poveri straccioni. La divisione Nord-Sud non è più una divisione geografica, è una divisione che si verifica in ciascuna delle città del mondo, nelle quali i poveri cercano una vita migliore e nelle quali i ricchi cercano il sistema per escludere bisognosi, indigenti, disgraziati, malfamati, diseredati, ma nessuno si adopera per cercare una struttura sociale che superi questa divisione. Il neo-liberismo ha creato un clima di vergogna, di disprezzo e di rifiuto omertoso nei confronti dei poveri. Nel liberismo parlavamo di produzione, nel neoliberismo si parla di speculazione, di orgoglio speculativo. Se si ha un capitale, non è importante sapere che cosa «voi producete», ma come si moltiplica il capitale. Oggi si calcola che ogni giorno 30 miliardi di dollari, via computer, percorrono il pianeta, dalla Borsa di Milano a quella di Tokio a quella di New York, e così’ via: in questo viaggio c’è la trascrizione della tecnotronia e l’emarginazione della cultura e della conoscenza.

Se la logica è l’accumulo del capitale, anche gli esclusi sono partecipi di questa logica: per prima cosa bisogna ricorrere a tutti i mezzi per affrontare questa separazione del denaro, compresi i sistemi criminali per nulla produttivi e fuori dal controllo dei mercati internazionali. Si calcola che il narcotraffico muova 50 miliardi di dollari ogni anno: chissà quanta roba muove la narcomoralità neo-lberista? Il problema del narcotraffico sta più nei suoi consumatori che nei suoi produttori. Ci sono migliaia di persone che nel Perù, in Bolivia e in Colombia che sopravvivono grazie al narcotraffico, questo vuol dire che il sistema dei mercati della corruzione è riuscito ad introiettare una teoria morale costruita sul virus e la pandemia del bisogno di ricchezza e di benessere, trasformando il traffico di droga in affermazione di felicità collettiva e in atto rivoluzionario. Il problema si trova dall’altra parte: perchè nelle nostre società, tanto evolute, c’è tanto consumo di droga? La risposta è molto semplice, perchè quando  qualcuno ha  sentenziato sulla fine della storia, mascherando la sola fine del vecchio ciclo liberista, stava dicendo che il sogno vissuto da pochi sfruttando molti era finito, ovvero finito per tutti. In effetti, lo «strumento della fine», della «finitudine strategica» è un ottimo regolatore, a destra e a sinistra, della pianificazione dei sentimenti morali inquinati da una «futurologia infetta». L’affermatività distruttiva liberista è il vero male, perché contraddice la natura della vita tesa allo sviluppo; il cosiddetto male è appunto la distruttività multiforme che il capitalismo stesso riproduce – tutto il capitale neoliberista – quando determina circostanze di passività. E se la società non ci offre utopie, se le religioni non ci offrono una mistica, perché non provare con le droghe, che ci permettono di superare questa realtà tanto conflittuale? Negli USA sono 300 le tonnellate di cocaina, consumate ogni anno, con la media di mille chili al giorno. Nel liberismo si parlava di necessità umane, nel neoliberismo si parla di mercato che abolisce il mercato, di una società post-mercantile, che abolisce la memoria mercantile dei padri di Adam Smith, ma che poi afferma un nuovo mercantilismo tossico. Oggi, tutto ha valore se ha valore il mercato, e il mondo si divide fra quelli che stanno nel mercato e la grande maggioranza che sta fuori dal mercato. Quelli che possono consumare si sentono nel regno di Dio, quelli che devono comprare a rate si sentono in purgatorio, e quelli che non possono comprare sono all’inferno. La risposta degli esclusi è la critica alla dichiarazione dei diritti umani: la dichiarazione in se stessa è una conquista importante, ma il suo contenuto è borghese e dobbiamo fare molta attenzione a cercare di non sacralizzare la dichiarazione perché è molto limitata: essa tratta dei diritti umani molto genericamente, non tratta dei diritti sociali, non parla di diritti ecologici e non contiene i diritti uomo-donna. Risultato: abbiamo la dichiarazione dei diritti umani, ma nessuno si preoccupa del fatto che gli USA abbiano annesso Portorico al loro territorio, o che perpetuino il blocco cubano e le persone credono che sia normale che intervengano nelle lotte sociali dell’America Latina, o che si faccia campagna elettorale aggredendo la Libia o l’Iraq, e che ci si disinteressi alle guerre d’Africa, al conflitto della ex-Yugoslavia. La risposta a questa idolatria del mercato è ampliare i diritti dell’uomo e della donna, includendo i diritti alla terra, i diritti cosmici e così via. Il liberismo aveva un’apparente attenzione ai problemi sociali, il neoliberismo dice che conta una tecnotronia di punta. Gli esclusi rispondono con forme più intelligenti di organizzazione, che tengono conto di tecnologie avanzate: per esempio la lotta di Greenpeace, o quella degli zapatisti del Chiapas che lavorano via internet, per cui questi mezzi sono oggi utili alla lotta degli esclusi. Il liberismo voleva richiamare l’attenzione sulla funzione sociale della proprietà dello stato, il neoliberismo parla di privatizzazione, una privatizzazione scientista, una privatizzazione che vuol diffondere il credo della libertà attraverso la burocratizzazione dell’individualismo e del sé. Così, al trionfo del liberismo economico, si accompagna – in maniera del tutto funzionale – la massima rigorocrazia nel centralismo burocratico: le forme miste e pianificate di sviluppo economico, accompagnano un surplus di controllo accentrato – spesso aggressivamente forzato – sullo sviluppo stesso. Prefetture e polizia, controllo burocratico-amministrativo e controllo forzoso, rappresentano i capisaldi di un politichese diffuso in tutta la società civile, la sfera pubblica e l’industria culturale. È necessario privatizzare tutto: le imprese, i servizi, la salute, le scuole, le spiagge, ed è necessario privatizzare e differenziare anche la lotta al Covid-19, operando una differenza di classe. Intanto, la risposta degli esclusi è di riproporre la questione dell’etica, soprattutto nella politica, alla “funzione dello stato” come responsabile del benessere della maggioranza della popolazione. Il liberismo parlava di cultura, il neoliberismo ha abbandonato il concetto di cultura per il concetto di intrattenimento, distrazione, hobby. La televisione, in molti dei nostri paesi, fa solo intrattenimento e non cultura. Esso è il risultato della logica di decontestualizzazione: quanto più ignoro il contesto in cui vivo e quanto più entro nella logica della frantumazione dei fatti, tanto meglio è per il sistema. Per il sistema è bene che l’individuo non sappia qual è il legame tra i governi in Medio Oriente, i rapporti con la Cina e le elezioni presidenziali negli USA;  sulla stampa, apparentemente, non c’è alcun legame tra una cosa e l’altra. Pericoloso per il sistema è quando noi sappiamo collegare, relazionare questi fatti: ovvero attiviamo l’esercizio della critica.

Tornando al mondo della cultura, perché tra le categorie di affermazione formativa, ovvero l’estetica, la poetica e la critica, quest’ultima è maggiormente penalizzata? Perché abbiamo l’impressione che, dall’industria culturale fino alla critica dell’economia politica, sia proprio la nozione di «valutazione e disapprovazione o apprezzamento» che è stata fatta fuori? Perché la critica è la no man’s land della riflessione che una volta avvertita e intuita la presenza di un valore, tende a confermarlo o meno, interpretando e valutando l’opera sociale, o poetica in termini di razionalità. È la motivazione del consenso e del dissenso. Più che per persuadere gli altri, essa è nata per rendere conto a noi stessi dell’impressione che è insorta dalla lettura o dal vissuto di un fenomeno, dall’osservazione di un deficit, dallo sguardo su di una anomalia.  Tutti, nel loro ambito, rappresentano il primo critico, il critico primigenio. Nella divisione dei poteri, nei governi, nella pubblica amministrazione la formazione della burocrazia è, dal punto di vista attuale, assimilabile al processo genetico dello Stato Liquido Contemporaneo (assolutismo e pubblica amministrazione): esso nasce come stato burocratico nella misura in cui, dopo aver sviluppato i processi di centralizzazione del potere e di astrazione, pretende una mediazione organizzata per riproporre, dal vertice alla base, una omologazione singola e persistente. Nel liberismo si accentuava il concetto di nazione; nel neoliberismo si accentua la globalizzazione. Globalizzazione significa imposizione del modello del “primo mondo” sul resto dell’umanità; la globalizzazione, grazie alla tecnologia, è la pastorizzazione della società nel senso di avere tutti gli stessi gusti, la stessa sensibilità, scegliere lo stesso vino, la stessa musica e la stessa politica. La diversità non può essere soggettiva, ma deve essere oggettiva, esterna: i nostri gusti devono essere uguali, ma dentro lo stesso gusto possiamo scegliere differenti marche del prodotto o dei sessi e quant’altro.

Le idee attuali sono dominate da stereotipi, dei quali il più determinante e pericoloso riguarda la presunta teoria del classico stato liberale. È anche vero che queste concezioni errate paiono trovare un sostegno nella formulazione della teoria liberale, per esempio in Adam Smith. In A Theory of Moral Sentiments o nella Glasgow Lectures on Justice, Police, Revenue and Arms, il rapporto fra politica e economia viene presentato press’a poco nei futuri punti estremi: la società riproduce se stessa, per mezzo degli interessi individuali e nazionali; tale accordo viene reso possibile, sostanzialmente, grazie all’eliminazione della politica. Lo stato interviene solo affinché si rispettino i rapporti basilari, cioè per assicurare che i concorrenti si battano con armi consentite, impedendo che la disuguaglianza dei concorrenti diventi troppo  appariscente e che si formino dei monopoli spettacolari facilmente deteriorabili. Solo allorquando ciò non fosse possibile lo stato dovrebbe assumere delle funzioni economiche.

2.La Ricchezza delle Nazioni (per esteso, Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, 1776) di Adam Smith compie quest’anno il suo compito di supporto storico all’antimodernismo del nuovo design burocratico. Lo scozzese Smith aveva seguito a Glaslow le lezioni di Francis Hutcheson, il quale affermava che gli interessi individuali e gli interessi sociali coincidono: infatti l’uomo, obbedendo agli impulsi naturali, realizza il proprio «privilegio» insieme con quello collettivo della sua classe sociale. A prima lettura, è facile avere l’impressione che il seguente passo della Ricchezza delle nazioni sia la traduzione abbastanza precisa del pensiero di Hutcheson: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che noi attendiamo il nostro pranzo, ma dalla considerazione del proprio interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità, ma al loro interesse, e non parliamo mai dei nostri bisogni, ma dei loro vantaggi». L’idea di un ordine naturale, in cui i vari elementi si equilibrano, già era stata applicata dai teologi all’intero universo e poi alle scienze naturali dagli scienziati, da Galilei a Newton. Secondo tale idea, gli eventi sembrano molteplici e caotici, ma, in realtà, essi sono guidati da una misteriosa Provvidenza, che pone l’ordine fittizio al posto del disordine immaginario, l’armonia artefatta al posto della disarmonia irreale. Anche nel campo delle scienze economico-sociali venne adoperata la nozione dell’ordine naturale, da cui partono i fisiocratici. Anche Ferdinando Galiani ne manteneva inalterato il presupposto filosofico, dicendo che la «natura se lasciata a se stessa, porterà all’equilibrio, allo stato di cose che corrisponde alla potenza della physis, ed è più accetto all’uomo». Apparentemente, nel suo scritto, Smith è molto cauto: egli si avvicina con sospetto alle armonie universali e, anche se ritiene che, in molti casi umani, intervenga “una mano invisibile”, provvidenziale, si limita a dire che l’interesse dell’individuo e quello della società corrispondono spesso, ma non sempre. Così, non senza ragione, la critica  anti-funzionaristica e antiliberale può dire che da un lato c’è lo Smith scienziato, scolaro di Hobbes e collega di Mendeville, dall’altro c’è lo Smith ideologo (non insensibile al fascino della mano invisibile) e continuatore di Hutcheson, al quale risale la formula della “maggiore felicità per il più gran numero di persone, in universale armonia”.

Da un punto di vista parascientifico si ricollegano a Smith, nel consenso e nel dissenso, economisti come Ricardo e critici dell’economia politica come Karl Marx, da quello ideologico si ispirano al suo pensiero le “armonie” di Say e soprattutto di Bastiat, nonché l’utilitarismo funzionaristico di Bentham e James Mill. Così nel 1776, A. Smith sostiene nel suo Inquiry …, che ogni uomo, in quanto non violi le leggi di giustizia, deve essere lasciato assolutamente libero di perseguire i suoi interessi come meglio gli conviene, e di mettere il suo lavoro e il suo capitale, in concorrenza con quello di ogni altro uomo e di ogni altra classe. Da questo punto di vista, la storia del liberismo coincide con quella dello sviluppo economico e degli epigono della teoria classica. Ma è proprio all’interno della funzione ideologica ormai del tutto chiara di quest’ultima, che si trovano tutti i nodi dell’antinomia tardo-capitalistica. Forse si può tentare di dare un’idea dell’importanza scientifica dell’analisi economica smithiana, soffermandosi su due punti nodali della Ricchezza delle Nazioni: la divisione del lavoro e il processo di spinta funzionaria e funzionale al sistema liberale e la teoria del valore che produce efficienza amministrata dal capitale. Già nell’Abbozzo del 1763 dell’opera maggiore, Smith propone, riguardo al primo ragionamento, la seguente esagerazione: “In un paese civile i poveri provvedono a se stessi e all’enorme lusso dei loro signori … Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell’intero prodotto della propria attività. Non ci sono tra loro né padroni, né autorità, né esattori di tasse”. Eppure, ed è questo la stranezza, i ceti subalterni in un paese civile godono in misura maggiore degli agi e di tutte quelle cose che sono necessarie per vivere. Per Smith,”soltanto la divisione del lavoro, per la quale ciascuno individuo si limita ad esercitare un’attività particolare, può fornirci una spiegazione di questa maggiore ricchezza che si produce nelle società evolute, e che, nonostante l’ineguaglianza della proprietà, si estende ai più umili componenti della comunità”. Un solo caso, una sola prova, basta a valutare in concreto la portata della divisione del lavoro: se uno spillo dovesse esser fatto in ogni sua parte da un solo essere umano,anche il più operoso non sarebbe capace di produrre più di uno spillo in un anno.

Una volta Emerson definì l’uomo significativo come “una sintesi della dottrina tratta, dalle esigenze di un’epoca, di molti precursori”. E tale citazione non è casuale, se si pensa che, in nessuna parte, il discorso smithiano sopracitato è nuovo: l’estrosità è di Locke ed era già stata ripresa da Mendeville; la esposizione della divisione del lavoro, compreso l’esempio, è mutuata con leggerezza da William Petty e da Mendeville. Eppure, riflette Giovanni Arrighi, “nelle mani  di Smith tutto torna come nuovo perché solo lui, e per la prima volta, è riuscito a trarre da quel paradosso un modello teorico dello sviluppo […] Alla fine del diciottesimo secolo, Adam Smith predisse la possibilità di un riequilibrio dei rapporti di forza tra l’Occidente e il resto del mondo, e la nascita di un “commonwealth” delle diverse culture”. La straordinaria ascesa economica cinese consente di “rileggere Smith in maniera radicalmente diversa rispetto al passato e di riesaminare la previsione dell’economista inglese alla luce del recente tentativo americano di dare vita al primo vero impero globale della storia”. Arrighi esamina come il “programma per un nuovo secolo yankee” sia stato concepito come risposta allo spettacolare successo economico cinese degli anni novanta e come la disfatta irachena potrebbe avere come esito la Cina nei panni di vero vincitore della guerra, ingaggiata dagli Stati Uniti contro il terrorismo. La tesi  di Arrighi è che, nel “corso del ventunesimo secolo, la Cina potrebbe diventare quel tipo di economia di mercato non-capitalistica a suo tempo immaginato da Smith, ma in condizioni storiche mondiali e nazionali totalmente differenti, aprendo la strada a una maggiore eguaglianza tra le nazioni”. Tale giudizio trova ulteriore conferma, se si prende in considerazione quest’altra analisi della Ricchezza delle nazioni: “il valore che gli operai uniscono ai materiali si divide in due parti, di cui l’una paga il loro compenso, l’altra i profitti dell’imprenditore sull’intero capitale dei materiali e dei salari, che egli ha anticipato”. Infatti, in una società evoluta secondo i principi dell’ambigua liberalità, il prodotto del lavoro non appartiene sempre tutto al lavoratore. Nella maggior parte dei casi “dovrà dividerselo” con il proprietario dei capitali, che lo ha occupato”, il quale a sua volta, dovrà pagare i prodotti ottenuti dal proprietario della terra. Così, il prodotto  del lavoro costituisce tre redditi: il salario del lavoratore, il profitto del capitalista, la rendita del proprietario terriero che produce fiscalizzazione e burocratizzazione integrata. L’intuizione della definizione si misura appieno, se si pensa che Smith la diede agli inizi dello sviluppo industriale. “Benchè Adam Smith avesse seguito – dice K. Polanyi in The Great Trasformation(1944) –  avesse seguito la falsa partenza di Locke sulle origini del valore nel lavoro, il suo senso del realismo gli impedì di essere coerente; aveva perciò opinioni confuse sugli elementi del prezzo pur insistendo esattamente sul fatto che nessuna società i cui membri sono per la maggior parte poveri e miserabili, può fiorire. Tuttavia ciò che appare come un truismo era a suo tempo un paradosso” (Einaudi Torino, sec. ed. 1974 p. 157). Un paradosso che si è legittimato in forma di  spettacolo e funzionarizzazione. “Non è stato né con l’oro né con l’argento, ma con il lavoro, che tutte le ricchezze del mondo sono state acquistate”. Per Smith, dunque, in maniera confusa, l’origine del valore risiede nel lavoro. Egli dà due definizioni del valore: il lavoro assimilato e il lavoro comandato. Nella prima definizione si considera l’ipotesi di un’economia primitiva, in cui il valore dei beni è misurato dal lavoro incorporato: infatti, se “l’uccidere un castoro costerà il doppio del lavoro che l’uccisione di un cervo, un castoro si cambierà per due cervi”. Nella seconda definizione, si esamina l’ipotesi di una economia civilizzata, in cui il valore dei beni è misurato dal lavoro comandato, che è maggiore del lavoro incorporato, in quanto, nel costo del prodotto, devono entrare anche il profitto e la rendita. Ne deriva che, più di una teoria del valore-lavoro, sembra debba parlarsi di una teoria del valore-costo di produzione. La distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo in relazione all’accumulazione del capitale destò interesse in Marx da spingerlo a lodare Smith, come il delegato di una “borghesia ancora  rivoluzionaria” e, in realtà, questa analisi conferma che Smith è il primo teorico dello sviluppo funzionaristico dell’economia. “C’è una specie di lavoro – scrive Smith – che aggiunge valore all’oggetto cui è applicato, e un’altro che non ha tale effetto. Il primo, in quanto produce un valore, può essere chiamato lavoro produttivo, il secondo valore improduttivo …  Sebbene il salario di un operaio gli sia anticipato dal padrone, in realtà egli non costa a costui alcuna spesa, perché il valore di quel salario è recuperato in genere, oltre il profitto, nel maggior valore dell’oggetto al quale è stato applicato. Il mantenimento di un servo, invece, non è mai recuperato. Una persona, occupando una moltitudine di operai, si arricchisce; mantenendo una moltitudine di servi/e, si impoverisce. Senonchè, al pari dei servi/e, anche i servitori dello Stato sono improduttivi. Smith intende secondo una logica liberal-funzionale che la borghesia, in questa fase rivoluzionaria, chiede allo Stato di ridurre fino all’osso le spese improduttive e parassitarie. Egli non si esime nemmeno dall’ingrato compito di fare un imparziale elenco di tutte le categorie improduttive: non soltanto “gli ecclesiastici, i legali, i medici, i letterati, i pittori, gli artisti di ogni genere e gli attori, i buffoni, i musicisti, i cantanti, i ballerini, etc …, ma anche il sovrano e tutti gli ufficiali e i funzionari che servono sotto di lui, tutto l’esercito e tutta la flotta” sono lavori non redditizi. Ne consegue che, in ogni produzione annua, il capitale si scambia con lavoro produttivo e produce plusvalore, il reddito si scambia con lavoro improduttivo e produce servizi.

A ragione Marx dirà che l’essenza della Ricchezza delle nazioni è nella comprensione del fatto che il modo di produzione capitalistico è il più produttivo, ma contemporaneamente è quello che deposita maggiore funzionariato amministrativo. Senonchè, l’arricchimento e il progresso, connessi all’accumulazione capitalistica, non avvengono senza le contraddizioni della diseguaglianza e dell’oppressione, che non bloccano il sistema, ma lo fanno muovere con un’espansione di apparato. Ne risulta un’irreparabile divaricazione fra l’economia, realizzantesi dal conflitto degli interessi egoistici delle persone naturali (il che, del resto, non sfugge a Smith), e l’etica, nascente dalle azioni libere e razionali delle persone. Ma l’etica dell’individuo non è forse il dover essere dell’economia della persona? Adam Smith non aveva una dottrina politica, ma è proprio questa assenza che riveste una rilevanza eccezionale. Egli non espresse mai una opinione chiara sul resoconto fra «sistema sociale» e «forma di governo»: monarchia, aristocrazia, democrazia, c’è posto per tutte nel suo «organismo teorico liberista», purché lascino pieno gioco all’assoluta concorrenza. Comunque, non c’è dubbio che, la posizione politica di Adam Smith coincida con quella di Locke ed è in quest’ultimo che bisogna cercare la vera dottrinarietà mancata della «democrazia costituzionale», che come un work in progress, seguendo le sue ingarbugliate derive, si trasforma in uno stagno liberal che punisce sempre la stessa classe: proletari e lumpenproletari.

Va ricordato, inoltre, che i liberalisti sfrenati non compresero neanche Smith, perché fu proprio la «teoria giuridica del liberalismo» a scartare le sue obiezioni alla concorrenza senza limiti: la sua richiesta che i concorrenti siano almeno in condizione di parità, la sua lotta contro i diritti esclusivi, la sua istanza che le funzioni del capitalista e dell’imprenditore siano ricongiunte nel padrone e, non ultima, la sua lotta contro la società anonima. I giuristi liberali giunsero all’unanimità alla conclusione che la libertà di contratto consentiva di fare con franchigia qualunque genere di contratto, senza contravvenire a particolari diritti legali. 

Si dice che Hobbes con la sua  filosofia – che incute e diffonde pessimismo e maleficio – , un goticismo antelitteram e leviatanico, affidi perciò  tutto allo stato. Locke dunque diventa il teorico della stato negativo, Hobbes dello stato positivo; Locke il difensore dello stato liberale, Hobbes di quello assoluto. 

Ora non vi è dubbio alcuno che il sistema lockiano fu l’ideologia dominante dell’Inghilterra fino al British Labour Party. Potremmo, dunque, chiudere questa riflessione sull’ulteriore degenerazione contemporanea del liberalismo borghese, con un dettaglio di Strada a senso unico (1924-5) di Walter Benjamin, chiamato Segnalatore d’incendio: “se la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta a un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione e guerra chimica) tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata”.