Monica Ferrando, Arcadia sacra

Sabato 6 aprile il Centro Brera di Milano ospiterà (h. 18) la presentazione del nuovo libro di Monica Ferrando, Arcadia sacra. Ne discuteranno con l’autrice Massimo Cacciari e Giuseppe Russo.

Leggere i tre volumi nei quali Monica Ferrando ha svolto finora la ricostruzione affascinante e originalissima della categoria politico-etico-estetica della “Arcadia” significa accettare la sfida di un pensiero all’altezza dei tempi proprio nella misura in cui si distacca dal pensiero usuale. Laddove oggidì spesso si continua a reiterare la dogmatica di alcuni classici novecenteschi (che non nominerò), Ferrando colloca le proprie riflessioni in una quarta dimensione (una dimensione cioè non visibile) che attinge al perenne riattualizzarsi di alcune situazioni allo stesso tempo lontane e di bruciante attualità.

I tre volumi Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico (Neri Pozza 2018), L’elezione e la sua ombra. Il cantico tradito (Neri Pozza 2022) e Arcadia Sacra (Il Mulino 2024) concordano nella loro diversità componendo qualcosa come un “paesaggio mediante le parole” di una atopia mai/sempre presente: l’Arcadia come speranza ed esempio di un nomos non fondato sul dominio del più forte, bensì guidato dalla “musica” della libera convivenza. In questione è senza dubbio l’idea della possibilità della persuasione, peitho, come paradigma opposto alle retoriche politiche e sociologiche della potenza che si traveste da ragione e/o da “elezione”. (Del resto, “Il dolore è la scossa che sola è capace di spezzare il cerchio dell’illusoria e autoillusa sfera magica della retorica come ‘significazione sufficiente’”, notava Gianni Carchia in Retorica del sublime). E senza dubbio la luce che guida Ferrando è l’intreccio di dolore individuale e collettivo a cui non offre balsamo né il presente né il recente passato.

Il libro recentemente dato alle stampe, Arcadia Sacra, appare nella collana, curata da Massimo Cacciari, fondata sul pensare un’immagine muovendo dall’immagine. In questo caso al centro del discorso è il grande dipinto di Tiziano Fuga in Egitto (1508, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage). A partire da un contrasto di opinioni in “una sera di novembre del 2012 a palazzo Mocenigo, dove Vittorio Gregotti intratteneva i suoi ospiti veneziani”, a proposito di quell’opera giovanile di Tiziano “in quei giorni in mostra alle Gallerie dell’Accademia dopo il restauro”, Ferrando tesse un’analisi policentrica, quasi una “poesia concettuale”, su alcuni temi ineludibili, attinenti al nesso fra la ricerca di un’umanità illesa (è questa la parola che mi sembra apparire più frequentemente, nel libro) e la Terra, là dove la nozione di Arcadia rinvia a un possibile cambiamento di paradigma.

Il dipinto di Tiziano presenta uno splendido paesaggio, specificamente situato (si intravedono le Dolomiti), uno spazio mentale perché a suo modo sacro, e viceversa. La Famiglia fuggitiva lo “abita”, nel suo presente immemoriale e perenne; ma lo abitano anche altre figure, protagoniste d’un lavoro inteso in senso spirituale, in sintonia con la Terra e non in opposizione a essa in operazioni di sfruttamento e dominio. La sobrietà dei costumi “arcadici” trova riscontro o, forse meglio, contrappunto “musicale” nella ricchezza del luogo. L’Arcadia, secondo Ferrando, non è utopia consolatoria ed escapista, bensì indicazione di un “può essere” o “può essere stato”, fornendo così un insegnamento, un esempio lancinante se rapportato alla terribilità dei tempi, allo scandalo della storia.

La struttura dell’analisi filologica e poetante di Ferrando qui si sviluppa ritornando a riflessioni su Virgilio, a cui si aggiunge una chiarificazione delle intuizioni di Jacopo Sannazaro, autore del prosimetro Arcadia e tramite umanistico fra Napoli e Venezia. Ma in conclusione (e come meta) emerge il riferimento alle ville venete del Palladio, giacché un tema eminente è quello del rapporto fra architettura e paesaggio, quasi una risposta a Gregotti, “il decano degli architetti italiani [che] non esitava a mettere addirittura in questione il pregio del dipinto”.

Da dove sorse il tema del paesaggio? E in che rapporto si poneva con l’anomalia architettonica di Venezia, legata allo “spazio naturale, di cui si percepiva non la minaccia, ma la bellezza”? Ferrando non fa ovviamente riferimento alla spiegazione corrente, che addebita al colorismo veneto (ovvero proprio a quanto dovrebbe essere invece spiegato) l’origine dell’attenzione per l’esterno, per la sensibilità atmosferica, per il nesso fra visione e Terra. Il paesaggio appare concretizzazione di un’istanza di pensiero, di una filosofia per le immagini e mediante le immagini che trova una possibile scaturigine e un fondamento nell’idea/forza dell’Arcadia (luogo di ordine poetico musicale realmente umano).

Si tratta di un passaggio importante, anzi essenziale, della necessità di articolare una pensiero “per custodire il vedere” (Furio Jesi) ed eventualmente formulare una “teologia pittorica”. In questo senso, Arcadia sacra è anche un episodio della precisa delineazione della pittura che Ferrando (filosofa e pittrice) propone da alcuni anni. “La pittura, unica in questo tra le attività umane, muove direttamente dalla preistoria. […] sono esempi tratti dalla pittura a dare il senso del passato, tanto immemoriale che storico, ad intrecciare in un unico plesso permanenza ed impermanenza, tradizione e rottura, tempo e spazio” (Monica Ferrando, Editoriale, in “De Pictura”, n. 1, 25 marzo 2013, disponibile online (http://www.depictura.info/download/01/depictura_01.pdf).

La pittura, colta in questo libro nello snodo umanistico cruciale (ma di cui di solito non avvertiamo la problematicità, salvo poi a trasalire quando tale problematicità viene indicata ad esempio da Pavel Florenskij), non è una mera attitudine transeunte, soggetta alla mode, perfino obsoleta, come è stato preteso. La pittura è una presenza, spesso martoriata ma pur sempre illesa, qui e ora, dell’atopica arcadica, per chi sa vederne l’elemento oltre il visibile.