Gerhard Merz
Giuseppe Desiato - Performance sociale

In morte di Giuseppe Desiato

Giuseppe Desiato è stato uno dei maggiori interpreti di quella temperie culturale napoletana che tanto animò il territorio italiano ed europeo degli anni ’60, ’70 e ’80 del ‘900. Era nato a Napoli, in condizioni difficoltose, nel 1935, da genitori modesti e dall’amore della cultura di strada: l’esordio avvenne subito dopo la seconda guerra mondiale e il periodo della ricostruzione, nel ruolo del bambino-performer che è sempre rimasto. E con quel primo esordio meramente sociale, si conquistò la frase delle Satire di Giovenale: “Maxima debetur puero reverentia”.

Mi risulta assai difficile parlare di Peppe, poeta di strada, pittore, scultore, fotografo, scenografo, costumista e soprattutto performer senza accennare di alcune “mostre illustri” e di scorribande che abbiamo animato nella nostra lunga “liaison intellettuale” e, soprattutto, fraterna.

Per quanto concerne l’arte visiva, Peppe la coltivò fin da adolescente assieme ad altri cari compagni-artisti napoletani, che oggi sono tutti scomparsi. Dal 1955 al 1958 dipinge figure erotiche, paesaggi espressionisti, nature morte e simultaneamente recita davanti a questi quadri, spostando l’attenzione dal retinico all’azione aretinica. Nel 1960 assume l’incarico di “disegno dal vero” presso l’Istituto Statale d’Arte dell’Aquila; qui continua a dipingere, disegnare, fotografare, incartare, progettare i “monumenti inutili”. Nel 1963 viene trasferito all’Istituto d’Arte di Sorrento, e qui, in maniera quasi autografica, incarta non più oggetti ma i bambini della Marina Grande di Sorrento, un indigente borgo di pescatori. Ritrova così i colori della tradizione negli scafi dipinti delle barche da pesca, nei vestiti usati di Resina, nelle processioni, nel viavai di gente cosmopolita e bene agghindata. Continuando il discorso sul recupero dei materiali poveri vengono fuori pupazzi usati come personaggi viventi, spostandosi oltre la forma compositiva di Hans Bellmer et alias. Nel 1964, subito dopo la notizia della morte di Kennedy, esegue una grossa composizione, facendosi interprete della cronaca politica e civile di quella congiuntura storica. Segue un periodo durante il quale recupera cifre e forme scritte apponendole su corpi viventi e su immagini inanimate, e nel 1966 esegue una serie di fotocopie manipolate del suo stesso corpo. Nel 1970, in Spagna, con alcuni visi di cartone, rappresentanti la morte e le guardie, maschera le persone per le vie di Barcellona. Dal ’70 al ’74 continua a filmare, fotografare, progettare, scartare, incartare, disegnare, progettare monumenti inutili. 

Antesignano in Italia delle ricerche legate al “corpo” e “all’azione”, Desiato nei suoi eventi alimenta una tensione demistificatoria, visibile nella teatralizzazione dell’immagine. In lui, inoltre, persiste una provocazione cara ai temi della “pittura accademica”, cioè la “modella come fonte di studio” e soggetto straniante, che viene riconsiderata in chiave “perturbante”, sul modello della seminalità erotica, capace di scoprire quegli impulsi naturali che una società moralistica, cerca di nascondere e deviare. La scelta dei motivi illustrativi preferiti da Desiato ricade sull’universo pop e nell’immaginario “erotizzante, clericale, pubblico e privato”. Un cosmo popolato da un impianto di idoli, tavole liturgiche, forme devozionali, in cui la leggenda sembra voler erigere un proprio culto: tutta la religiosità ed i riti connessi al corpo della donna, invocato dall’artista sacerdote e trasformato in immagini sospese nell’oscenità del rito.

La maggior parte delle opere storiche di Desiato sono andate distrutte, o utilizzate come materiale primario per la costruzione di nuovi lavori. Indispensabile è, pertanto, la documentazione fotografica delle performance e degli happening che l’artista ha rappresentato con precisione, celebrandone la valenza documentaria, fantastica, satirica, scurrile o dissacratoria.

L’esperienza dell’età informale si radica dentro orizzonti precisi. Lo sguardo del pittore cresce traendo la sua grana, le sue carte imbevute di colla e di detriti, dalla terra che l’ha visto nascere, crescere e conservarsi nel suo spirito-bambino. Sì perché il “frammento antropologico” che ha accompagnato l’esperienza artistica e politica di Giuseppe Desiato merita la scheggia di Novalis: “Dove sono i bambini c’è un’età dell’oro”. Lo sguardo del fotografo cresce rimorchiando la sua ruvidità dagli ingredienti del teatro sociale, come un varietà senza confini, pregiato di un frutto della natura che acquisisce determinate caratteristiche grazie al luogo in cui è cresciuto: Napoli! Questo sigillo tra performer, cineasti, fotografi e luoghi è cosa nota: non c’è neanche bisogno di nominare gli artisti e le immagini che si materializzano nella mente al sentire evocare questi nomi. Si potrebbe organizzare un nuovo tour, da nord a sud dell’arte comportamentale, della morfologia della performance, del campo della body o dell’azionismo, per poter far riemergere il nome di Giuseppe Desiato. Un’immersione nelle terre meravigliose della popolarità mediterranea, e di rovescio, un bagno nelle meraviglie storiche e naturalistiche della nostra città che hanno ispirato le azioni di tanti corpi fuoriusciti dalla genialità di Peppe!

Giuseppe Desiato – Performance corteo

In un secolo – come il ‘900 – elevato a summa della nostra arte d’avanguardia e neo, Peppe rappresenta una di quelle voci troppo spesso dimenticate, omesse, sanzionate dall’occulto. Una sorte senz’altro causata dall’etichetta di performer trasgressivo, sperimentatore radicale, schietto guitto, ironico giullare alla corte dei ribelli e che dopo tanto tempo è rimasta, come un tatuaggio di medio valore, molto distante dalle eccellenze acclamate di quegli anni. Peppe canta quello che gli storici dell’arte non sapranno scrivere di lui, canta l’indipendenza e la libertà da una generazione di letterati e di galleristi che non l’ha saputo apprezzare, neanche quando han fatto finta di apprezzarlo; canta la disperazione e l’opposizione dell’altra Napoli, quella che non ha mai subito la porcheria borghese del sistema artistico ufficiale! Peppe è stato un vero e proprio performer, senza se e senza ma, e questo ha condizionato moltissimo la sua stanzialità che era davvero satura di senso e di emotività. Persona singolare oltre che dottissimo ed ottimo conoscitore della materia artistica europea del tempo dell’informale, Peppe non ha mai smesso di operare su diverse tecniche.

La lingua artistica della trasgressione non è mai unitaria se non come astratto sistema di forme. Come vivo mezzo concreto la performance è totalmente pluridiscorsiva; vive di una sorta di intreccio interno e sconveniente, della pluralità corporale irriproducibile ed esistenziale. La lingua della performance presenta stratificazioni che riguardano i generi della passione espressiva e della sedimentazione poetica-naturale. 

“Di dove sono venuto?”; “Di dove mi ha preso?”, domandava il bimbo alla mamma. Essa rispose mezzo piangendo e mezzo ridendo e stringendo il piccolo Peppino contro il petto: “Tu eri nascosto nel mio cuore come un desiderio, mio caro! Tu eri nelle bambole dei miei giochi infantili, e quando io tutte le mattine, facevo con l’argilla l’immagine della mia scultura, plasmavo e riplasmavo anche la tua. Tu eri chiuso nel teatro della nostra casa, entro la nicchia, e io ti adoro. Quale magia ha attirato gli occhi del mondo in queste mie deboli braccia? E la domanda del piccolo Desiato non si ripete. Sorride forse per un istante alla madre, poi torna a raccogliersi con le forme di creta: i cari pezzi di legno con i quali costruisce modelli di oggetti, ponti, torri; non vede né madre né padre; solo i suoi legni, le sue modeste costruzioni; è assorto in un unico pensiero. È piccolo ancora? Molto piccolo? Allora insiste per far stare in bilico un pezzo con un altro. Non ci riesce, il trave cade, la palla scivola … Non fa nulla, riprova, una, due,dieci,venti, trenta volte. Una mosca vola, si posa sulla ringhiera di legno del lettino dove è in piedi come un imputato alle sbarre, con la testa sporgente fuori dal bordo della ringhiera per giocare col mondo degli altri …”. 

Giovane performer maledetto, sempre giovane e forse dimenticato, eppure le sue azioni le abbiamo fruite e studiate nelle migliori rassegne della neo-avanguardia! Non si mobilitava in “dolce body art”, come altri suoi contemporanei e antagonisti, bensì in una sua parodia provocatoria e satirica nel filone neo-espressionista e post-dada dell’azione giocosa, affermatasi tra gli inizi degli anni ’60 e i ’70 del 900. Il suo modello artistico fu in un certo senso il plazer performatico, ovvero l’elenco di cose di rottura per colpire e provocare il fruitore, in cui si inneggiava in modo simile al “teatrino della pernacchia”, al vino, al gioco farsesco e il piacere sessuale. La culla italiana di questa “performazione” teatrale non poteva che essere Napoli, città in cui borghesi e proletari miscelano ozio, pathos, rifiuto del lavoro, lacrime, sorriso e disperazione … Ogni discorso sul pregiudizio desiatiano dovrebbe così venir meno, a tener conto del significato patetico-resistenziale assunto naturalmente dal nostro napoletano. Più futile ancora risulterà il tentativo di proporre un Desiato body artista, trascinandolo nell’equivoco dell’arte pornografica in cui talvolta si è cercato di annoverarlo, se terremo conto della prorompenza delle osservazioni che ha suggerito sulle due e forse più avanguardie napoletane!

C’è ancora del materiale, e abbondante, nell’opera di Desiato: basti rammentare ai suoi accenni polemici all’età del comportamento e ai raduni della società artistica napoletana contro le gallerie del provincialismo esterofilo; o il progetto di una pratica performatica, un gesto collettivo destinato a tutti; e avremo testimonianza del modo curioso e frammentario di relazione fra l’artista, la vita politica e il costume visuale degli ultimi tre decenni del ‘900. Eppure anche questi rimarranno elementi di secondo piano, subalterni rispetto alla formulazione di un più schietto ed organico piano di realtà: perché Desiato era un artista totale, e volle esserlo, in un senso che per lui fu altrettanto duro che per gli altri paladini della diversità, della differenza e dell’outsider, e insomma per la generazione sventurata che fu anche sua, non solo per proprietà anagrafica ma per interiore coerenza e consapevole accettazione. Così certi spunti oziosi, ovvero da compagno autonomo e anticipatore di particolari ribellioni, concorrono a delineare il debito della performance psicologica, più di quello che fanno altre opere, vistosamente programmatiche in tal senso. Ecco allora la perfezione ritmica della sua “messa in scena”, proprio quanto ad equilibrio per ragioni spirituali, di cultura, e restituzione in immagine, di un frammento (non poco artaudiano) come la sua stessa biografia. Ma se le sorgenti del pensiero, in questo caso, paiono le stesse che nel teatro di Leo e Perla e del loro insediamento a Marigliano, c’è una sfumatura, e anzi qualcosa di più, che distingue la posizione di Peppino e la inserisce in un’area che denuncia piuttosto un certo artaudismo ante-litteram, in alternativa all’operazione antropologica di Leo e Perla. Difatti la violazione palese che, dalla voce dello “scugnizzo” (delle Quattro Giornate di Napoli), il Desiato compie della proposta artaudiana di Farla Finita col Giudizio di Dio, e lo stato “crudele” da lui inseguito, almeno fino alla perdita della vista, non hanno solo una sostanza catartica ne risolvono in senso insidioso il nodo delle mille questioni che avvolgono l’artista. Quel che invece significa per Desiato “crudele”, o “crudo”, è ben altro; e torniamo all’epigrafe della sua performance. “L’ultimo performer autentico in Italia” è un puro, uno spaesato infante nel mare dell’impurità; se nel mondo dell’azione desiatiana resiste in qualche forma il mito del “fanciullo ironico e ribelle”, per noi di converso: patetico, cerca di agire controcorrente (mentre non è fatto per la documentazione fotografica), aspira a comportarsi da azionista crudele in un’età che si svela corrotta dagli istituti della classificazione storiografica e dalle convenzioni del sistema artistico-finanziario. Questa è azione tellurica, è l’equivalente del sisma che gli traspare nelle declinazioni del suo statuto libertario! Leggendo oggi le performance di Desiato, a cui io stesso, sin dagli anni ’70, ho partecipato, nella direzione di quel perturbamento sfrontato, ch’era per lui una strada senza alternative, dal momento che vedeva un rapporto fra “crudeltà” ed esistenza, e che la sua vita, giorno per giorno, insieme a Giovanna, Paco e Roberto Maria (“siamo la famiglia desiato” recitava la segreteria telefonica degli anni Novanta) veniva a costituirsi come una favola, in capitoli “marginalia” e controcorrente. Il suo riso senza bonomia era come un’eco ribaltata degli episodi di quella fabula vissuta quotidianamente.

In un’epoca, in cui i valori individuali e collettivi risultano svistati e fortemente compromessi, il monopolio della schiettezza e della vitalità artistica alla Peppe Desiato è stato paradossalmente conquistato dai Buffoni! Questa mancanza di valori coincide con un’evidente latitanza di idee e di istituzioni che prima collaboravano per tenere su la barca, ovvero la società in cui viviamo. Tra queste latitanze, quella che più lascia smarriti è la latitanza di “artisti totali” che sappiano dare una valida interpretazione del reale, ma soprattutto di performer (con la P maiuscola) che sappiano glorificare e gettare luce sull’esistenza con parole e azioni nette e chiare. La performance d’altronde è nata proprio come eroica e celebratrice di quell’attimo di umanità in cerca di totem o semplicemente affamata di valori, di un senso, di una bussola. Scopo di questa “nuova azionalità” di Desiato era quella di raccontare il reale dei “più diversi”n(ricordiamo che altro napoletano che nei giorni scorsi ci ha lasciato è stato il bravissimo Salvatore Piscicelli; operante nel campo del cinema generalista, ovvero sulla stessa scia controculturale di Desiato), con immagini radicate nell’antropologia sociale: semplici, chiare, icastiche e a tratti giustamente etniche e aggressive. La performance non doveva essere una miscela di “empirici e concettuali mezzi misti”, come lo era stata da Pollock fino a Kaprow, ma doveva attingere al segreto dell’inconscio tecnologico, del sex appeal dell’inorganico (per dirla con Walter Benjamin), nel dettaglio dei corpi, nell’analisi minuziosa dei conflitti, nell’indole di ciò che per un “napoletano verace” si può vedere, mangiare, toccare, o infantilmente immaginare.

G. Desiato – Gruppo di foto BN e Col – Medialismi 2.0-2.0 a cura di G. Perretta – Corciano (PG) 2020

L’azione, la traccia performatica di Peppe va persino oltre tutto questo: espressioni che inneggiano al coraggio della sposa e all’attimo della perturbazione sessuale, paesaggi miniaturistici che rimandano ad un “political (s)correctness” d’altro luogo, un altrove strabordante di barocco-pop, di pacchetti cellofanati, ex-voto, tabernacoli votivi e desacralizzazioni dell’intimo, nuove “fiabe plebee” e miti rielaborati per catturare lo struggente senso del presente. L’attenzione formale all’apparato sceno-tecnico e al teatrino in superotto si accosta ad una più attenta selezione dei temi territoriali e degli oggetti, un’essenzialità transitiva, una chiarezza ai limiti dello scandalo. Tutto è qui e ora in Peppe, e tutto è glorioso (uso il termine alla maniera di Artaud) se visto con gli occhi dell’infante. In contrasto alle pretese ricche di sviste di alcuni critici che avevano supposto di seguirlo (sto pensando alle velleità inconsistenti degli extra-media di Enrico Crispolti), Peppe sentiva il bisogno di promuovere una performance che fosse soprattutto (turbamento) reale sul nostro territorio, un lavoro da artigianato gramsciano e dissidente, umile, individuale, ma al contempo votato all’umanità, al pubblico, al rispetto per la condivisione mediale. Ed è proprio questo rapporto schietto con la vita della strada che il performer promuove: niente sotterfugi; niente ipocrisie.

L’artista, nudo di fronte al suo destino, deve prendere di petto la vita così come la morte. Ci vorrebbe un lungo studio e parecchie pagine per meglio analizzare le mille tematiche e stilemi rielaborati da Peppe nei suoi esperimenti di artigianato performativo e situazionista. Purtroppo però gli studi su Peppe Desiato sono stati da sempre ostacolati e tralasciati, direi delittuosamente dimenticati, a causa del suo stile non strettamente classificabile, a causa della sua figura scomoda e del contesto politico-culturale non sempre favorevole, almeno da più di un secolo a questa parte. A Napoli e negli Istituti di Storia dell’arte del nostro difficile paese la figura di Peppe è stata osteggiata già dalla sua prima comparsa, a causa dell’evidente contrasto con la nozione di arte sociale che aveva allora il predominio della scena culturale. In seguito, c’ha pensato la strategia unica transavanguardista e poverista, nonché apost-post-post-duchampiana alfiere bianco della nobiltà sistematica dell’arte contemporanea, a raggirare il reato di esistere. Se il ruolo del performer è quello di donare “storie turbolente”, di scuotere la società dalle fondamenta e rinvigorire quei legami che uniscono l’umanità alla natura e al suo status di essere cosciente e pensante … si può ben dire che l’ignorare la vasta opera di un gigantesco artista, in questo caso Giuseppe Desiato, sia davvero un atto di incuria prima di Napoli e poi dell’Italia tutta, quasi quanto abbattere delle colonne secolari del Pantheon! Inoltre, se davvero ci si lamenta della mancanza di valori, di concrete linee direttive spirituali e filosofiche, in un’era in cui tutto è uguale a tutto e tutti “nel sistemino” dell’arte italiota fanno la guerra a tutti per emergere su una cattedra che già da molto tempo è fallita e manca il discernimento – si dovrebbe a maggior ragione dare più attenzione ai performer con il loro bagaglio assolutamente immateriale, magari promuovendo condivisioni culturali e pensieri critici; traduzioni, riedizioni e riscritture.

Allora Peppe fa della sua scomparsa la forma estrema della dimostrazione, quando si tratta di testimoniare l’intestimoniabile. La sua posizione, la sua dipartita, il luogo da cui in questo momento ci sta guardando, adombra una particolare carica etica (proprio perché dell’estetica ce ne strafreghiamo) e politica in grado di immaginare che l’unica voce possibile, nell’età della fine dell’arte, è non lasciare traccia dell’opera originaria, del gesto del puer che fu. Caro Peppe, bisogna ricordarsi di tutta la tua vita: questa è la linea che nell’eterno presente dell’arte diviene infinito!