Robert Smithson, Spiral Jetty, 1970 Great Salt Lake, Utah Foto Gianfranco Gorgoni Dia Art Foundation © Holt/Smithson Foundation and Dia Art Foundation, licensed by VAGA at ARS, New York

Fotografie fuori dal mondo! (III par.)

Nel saggio qui raccolto lo spunto particolare, in apparenza contingente e ristretto, da cui si vuol far emergere la complessa immagine di ciascuna foto, potrà trovarsi in un particolare tema, o in una icona naturale, in un singolo sintagma dell’universo; nel dono di preziosi paesaggi, nel confronto con altri paradigmi. Si genera immediatamente confusione se si definisce l’immagine come una imitazione, che ci porta naturalmente a vedere un’immagine del tutto somigliante. L’immagine non è la somiglianza della natura. Due oggetti identici non sono necessariamente l’immagine l’uno dell’altro, anche se si assomigliano: Agostino riassumeva questo paradosso dicendo: un uovo non è l’immagine naturale di un altro uovo.

1. È naturale che questa parola paesaggio dischiuda davanti a voi ampi orizzonti. Tutto quello che ci circonda appena varcata la porta di casa, può essere paesaggio; mare, montagna, laghi, pianura, alberi: quanti magnifici soggetti si offrono a noi fotografi. Ma,in realtà non solo ognuno vede le stesse cose con occhio diverso, ma il paesaggio cambia ogni giorno, col volgere dei cicli, e ad ogni ora, col girare del Sole. Basta spesso una nuvola per cambiare l’aspetto di un paesaggio, anzi a creare un paesaggio dove non era che una casa, un albero, o una barchetta. Uno studio utilissimo e divertente, anzi, che si può fare, senza allontanarsi da casa che di un chilometro e anche meno, è quello di fotografare alcune belle immagini della città, o dei dintorni della città, e di cercare di fotografare gli stessi soggetti da un altro punto di vista, con un primo piano adatto, con un bel cielo di nuvole, con un bell’effetto di sole.

La natura è una parte del mio ambiente e nasce all’atto della coscienza della mia singolarità. Non mi distinguo da un qualche cosa se questo non si distingue con me. Perché possa accorgermi che non sono quell’albero devo avere constatato il confine, la linea di demarcazione tra il mio essere e quello dell’albero. Ma lo stabilire il confine comporta necessariamente la constatazione della mia e dell’altrui distinzione. Rilevando che non sono un albero, rilevo anche che l’albero non è me. Se mi distinguo dall’altro non solo mi pongo nella mia identità d’essere ma permetto anche all’altro – dal quale mi distinguo – d’assumere (nei miei confronti) la sua identità d’essere.

Dunque, la determinazione della natura nasce dalla determinazione del mio essere. Che non è una determinazione categoriale (utile all’economia del parlato), ma una determinazione singolare ed originale. Io mi distinguo ponendomi nella singolarità e originalità del mio essere. Il che comporta che l’altro, la natura, dalla quale mi distinguo e con la quale mi confronto, sia singolare ed originale. La mia singolarizzazione comporta l’altrui singolarizzazione. La natura mi si presenta come molteplicità di altri esseri singoli. Natura significa letteralmente “quella che per generare; la forza che fa nascere” si afferma come la traduzione del termine greco physis, ovvero quell’elemento di base che coinvolge il tutto: sia nell’essere che nel divenire. Il desiderio di comprenderla e coglierla in ogni suo aspetto è sempre stato alla base della consapevolezza e della produzione umana. Il dialogo con essa ha trasportato il pensiero nel tempo e nei luoghi, modificando la visione dell’uomo stesso all’interno del mondo fisico.

Il significato attribuito alla natura ha sbaragliato tutta la realtà osservata, l’aspetto del divino, come ciò da cui ha origine il naturale, è stato sostituito con l’illusione del sapere umano. Tenete presente che una buona riproduzione del paesaggio non si può avere se non è resa bene la prospettiva aerea, la quale sola può rendere la profondità della lontananza: quindi usare con discernimento il diaframma. Inutile adoperare le grandi aperture; non c’è nessuna necessità di far presto: anche se nel paesaggio vi sono oggetti in movimento, si tratterà perlopiù di animali, di soggetti non troppo rapidi, oppure di un treno, o di una barca in lontananza (e nei soggetti lontani il movimento è assai poco percettibile).

Tuttavia, il flusso della cognizione segue ancora il proprio corso con innocenza fotografica: il tentativo di studiare il mondo percepibile si basa sul mantenimento di una ricerca lineare fino al raggiungimento di un punto cieco, traghettabile solo attraverso la combinazione delle riproduzioni, il loro grado di misurabilità, una valutazione quantitativa che a volte corrisponde al vero ed altre volte al falso enunciato indicale. Non abbiate quindi timore di «diaframmare» tanto da ottenere perfettamente in fuoco il primo piano, anche se molto vicino, e i soggetti un po’ più lontani; ma non tanto da togliere allo sfondo quella leggera incertezza che sola può rendere la prospettiva aerea. Un’apertura di 5,4 oppure di 6,3 nella maggior parte dei casi; soltanto quando si abbiano primi piani molto ravvicinati, così da dover mettere a fuoco a breve distanza, si potrà usare un’apertura di f.9. Un’apertura più piccola darebbe ugualmente in fuoco il primo piano e l’infinito, togliendo così ogni prominenza al quadro.

2. Lo sconfinamento tra le discipline e i vari campi del sapere è necessario per attuare un ravvicinamento all’estensione della natura. Essa assorbe, così facendo viceversa stimola il sogno umano, ripresentandolo come il germoglio di un nuovo processo di trasformazione spontanea e continua. Concependo la conoscenza secondo questo criterio, si ha un rimando alla concezione dell’immanenza naturale, per cui essa è in continuo divenire e la staticità viene mantenuta nell’ambito dell’illusione. La propensione umana verso la comprensione del mondo mette in atto il meccanismo di evoluzione dell’io e della realtà, fino al raggiungimento della distinzione tra spirito e materia. A partire da tale separazione, il volto della storia ha sfruttato, per gran parte del proprio corso, l’espressione della religiosità e dell’infinitezza divina. Basandosi su significati apparentemente trascendentali e non dimostrabili, non vi è stata l’opportunità di attuarne la conferma. La parte sacra del vivere riempiva tutto il vuoto dell’incomprensione, pur non essendo tangibile. Di conseguenza, lo studio analitico del mondo materiale si è sviluppato in sottofondo, fino alla rivalutazione dello scientismo e del razionalismo acritico come esplicito potere umano. Il dibattito tra mitologie della visione mistica e luoghi comuni dell’immagine materiale si riscontra chiaramente nella storia dell’arte, producendo una pedestre visione dei generi artistici, del linguaggio della critica d’arte, della prospettiva, delle tecniche artistiche e del restauro, del classicismo, della sociologia dell’arte, dell’avanguardia, dell’iconografia e dell’iconologia, delle copie, delle riproduzioni, dei falsi, del primitivismo, del disegno, della proporzione, dell’esotismo, del collezionismo, del mercato e della letteratura artistica.

Nelle illustrazioni medioevali la natura viene rappresentata attraverso forme simboliche, la cui comprensione è possibile grazie alla familiarità dei soggetti e dei loro significati. La coerenza formale è molto distante da quella che è o potrebbe essere la realtà, poiché il desiderio di raffigurazione era dettato da una necessità esclusivamente ideale. Quasi sempre, le immagini antiche, rimandano a narrazioni di scene religiose o addirittura ne sono la trascrizione in linee e colori. In alcune esperienze fotografiche che si inseriscono come Landscape into art, ogni elemento naturale è subordinato ad un significato allegorico indicale, divenendo prototipo del divino. Foglie, alberi, montagne, fiori, frutti, non sono soltanto oggetti del vivere quotidiano, ma la cerimonia di Dio e dell’immagine di Dio nella realtà. In questi casi, la mano del corpo coincide con la mano divina, che crea una natura artificiale e sacra, i cui elementi sono interpretabili singolarmente. Ognuno di essi diviene soggetto esistente e vivente nell’insieme dell’immagine. Nel luogo di queste raffigurazioni nasce un modo primitivo e globale, disegnato dal divino con il linguaggio dell’umano. L’artista è colui che è in grado di seguire i tratti stabiliti dalla natura e di comprendere il valore sacro degli elementi quotidiani. In un articolo del 28 ottobre 1927 dice S. Kracauer:

«La coscienza imprigionata nella natura non è in grado di scorgere il suo fondamento. Compito della fotografia è di mettere in risalto il fondamento naturale rimasto finora inesplorato. Per la prima volta nella storia la fotografia porta alla luce nella sua interezza l’involucro naturale, per la prima volta attraverso di essa il mondo dei morti si manifesta nella sua indipendenza dall’uomo. La fotografia mostra le città in vedute aeree, porta giù dalle cattedrali gotiche le guglie e le decorazioni; tutte le configurazioni spaziali vengono incorporate nell’archivio principale con inaudite intersezioni che le allontanano dalla misura umana» (La Fotografia in La Massa come ornamento, pres. di R. Bodei, tr. di M.G.Ammirante Pappalardo e F. Maione, Prismi Napoli 1982, p.26).

Ravvivare il paesaggio con qualche figura animata è una tentazione alla quale è difficile resistere: e il paesaggio animato è infatti assai più interessante, purché le figure animate siano in carattere col paesaggio stesso. Questa visione della realtà si può ritrovare nella fotografia di paesaggio americana della seconda metà dell’Ottocento. La filosofia del trascendentalismo ha influenzato scrittori come H. D. Thoureau in Walden e R. W. Emerson in Nature, i quali iniziarono ad osservare le forme e i paesaggi naturali attraverso una concezione olistica: ogni elemento e ogni sua evoluzione era la manifestazione di Dio nella realtà tangibile. Il saggio Nature (Natura, 1836), manifesto del movimento trascendentalista, è infatti un discorso sul rapporto occulto fra Natura e Anima, in cui Emerson affermava che Dio si rivela ovunque e in ogni tempo; che la Natura è la rivelazione di Dio; che la ragione (intuizione) è la facoltà con cui l’uomo osserva direttamente lo spirito nella natura; che la comunione della ragione con la natura, intesa come spirito, può redimere l’uomo stimolando le sue affinità spirituali. L’idioma linguistico deve essere simbolico, per alludere al divino che si manifesta nelle cose, ma al tempo stesso materiale, vigoroso e “realista”. La natura, nella sua maestosità e grandiosità, si configura in particolare in America, nella “sua vasta geografia che abbaglia l’immaginazione… L’America è un poema steso davanti ai nostri occhi”. Tutto era quindi osservato attraverso una condizione simbolica del mondo. Tale visione toccò anche la mente di fotografi paesaggisti come Edward Weston, il quale provò ad adoperare il mezzo fotografico per spostare grandi miti nella realtà. Riuscì a sfruttare l’interazione tra sabbia e luce, per trasformare l’ambiente desertico in un luogo pieno di presenza metafisica. Il deserto fu uno dei soggetti più approfonditi in ambito statunitense, poiché osservato come il continuo divenire della natura, l’effimero incontenibile e sfuggente. Ogni granello di sabbia, così come qualsiasi oggetto presente nelle immagini di Weston, ha la stessa rilevanza, non esiste una gerarchia dell’osservazione, a favore di un’intensità della visione in grado di trasmettere la concretizzazione di una terra ideale. Scrive A.N. Whitehead, in un brano del 1920 su Il Concetto della natura: “La natura che costituisce il fatto della sensazione contiene in sé il verde degli alberi, il canto degli uccelli, il calore del sole, la durezza della sedia, l’impressione del velluto. L’altra natura invece, che è la causa della sensazione, viene immaginata come un sistema di molecole e di elettroni che agiscono sullo spirito in modo da provocare la sensazione della natura apparente. Il punto d’incontro delle due nature sarebbe lo spirito, su cui la natura causale eserciterebbe il suo influsso e di cui la natura apparente sarebbe l’influsso … Ma per me è un assioma che la scienza non è un racconto fantastico: essa non ha il compito di inventare enti inconoscibili forniti di proprietà fantastiche ed arbitrarie. Qual è, dunque, il lavoro della scienza, e che cosa ci garantisce che questo lavoro sia davvero importante? Rispondo che la scienza determina i caratteri delle cose conosciute, cioè i caratteri della natura apparente, poiché non esiste che una sola natura, cioè la natura che ci sta davanti nella conoscenza percettiva” (Einaudi, Torino, 1948, p. 27). 

Anche in Anselm Adams è possibile osservare questo aspetto della trascendentalità all’interno degli elementi reali, così come in Stieglitz prima di loro. La natura può manifestarsi in quanto tale solo grazie alla perdita del senso della propria esistenza, alla perdita della familiarità dei significati. L’osservazione della stessa subisce sempre il filtro della finalità e mentalità umana. La fotografia stessa non è indipendente da codici estetici e filosofici predeterminati dalla società, in particolar modo se si tratta il paesaggio come soggetto.

Cartesio distinse due realtà indipendenti della natura: quella della mente e quella della materia. Si iniziò ad osservare il mondo materiale come ciò che è inerte e frammentario, in cui tutti gli oggetti sono raccolti sotto lo stesso meccanismo. All’inizio della modernità, tutto viene studiato anatomicamente, separato dal contesto e sezionato nelle sue parti. La totalità dell’individuo non esiste se non attraverso la dimensione dello spirito. La visione del corpo all’interno dell’ambiente assume valore solo se si prende in considerazione la valenza santificata dell’esistenza. Lo sguardo stesso, come ci ricorda A.N. Whitehead, diviene significativo solo se è in grado di cogliere la magnificenza della realtà. La bellezza deve divenire fisica per permettere all’uomo di considerare se stesso come presente, esistente. La paura verso una natura imperfetta ha spinto la volontà umana a sottometterla e controllarla, attuando modifiche e aggiustamenti infiniti a livello teorico e concreto. Di questa volontà si ha un grande riscontro sempre nella fotografia di paesaggio, passando inizialmente per la ricerca britannica e di conseguenza quella del colonialismo americano. La fotografia nasce in un contesto in cui la ricerca accademica volgeva verso un nuovo realismo, o in cui J. Ruskin concepisce la «scienza dell’aspetto delle cose». 

3. La visione della realtà doveva essere ben controllata per esprimere bellezza e ordine, derivando da uno sguardo pittoresco in grado di raggiungere una realtà pastorale universale. La pittura, nella seconda metà dell’Ottocento, stava studiando la trasformazione della natura attraverso il potere dell’illuminazione. I cambiamenti del cielo, dell’acqua e del mondo in generale, erano trascritti pittoricamente seguendo l’aspirazione ad un’armonia rurale ed eterea. Roger Fenton, fotografo inglese, fu molto influenzato nell’osservazione del paesaggio da un punto di vista poetico. Le sue immagini sono quasi cartoline pastorali, in cui non vi è traccia di lavoro e fatica e in cui ogni elemento segue l’ordine e la perfezione. In questo senso, il fotografo appare come un turista privilegiato, capace di controllare la natura attraverso il proprio sguardo e di riportarla all’altrui con il mezzo utilizzato. In questo caso l’immagine è ben costruita, dettando oltretutto una gerarchia dello sguardo inevitabilmente studiata. L’osservazione esterna della realtà da parte del fotografo si sviluppa poi nelle spedizioni antropologiche nelle Americhe. Anche i grandi spazi statunitensi divennero luoghi da contenere entro i limiti dell’immagine, quasi come se la figura umana trasportasse nella rappresentazione il proprio desiderio di gestire la potenza naturale, seguendo le proprie leggi. I paesaggi più ampi e incontrollabili sono inseriti entro le linee di un modello di riferimento ben definito. Ogni immagine di questo periodo rispecchia il contrasto tra naturale ed umano: vi è un continuo confronto tra la sottomissione al sublime e il desiderio di eliminarlo, tra la visione di una natura piacevole e pericolosa allo stesso tempo. Ne è un esempio la fotografia di Timothy O’ Sullivan, in cui l’uomo è inserito nella vastità del paesaggio, seguendo due atteggiamenti: uno contemplativo e uno strumentale.

Le spedizioni governative erano alla base di queste ricerche paesaggistiche e ciò attivò anche un meccanismo di supervisione politica oltre che visuale. È inevitabile che tale atteggiamento trasporti la condizione umana al di fuori del contesto naturale, come se appartenesse ad una dimensione esterna e indipendente da essa. L’attenzione verso il naturale, in quanto elemento del mondo, assume importanza solo a seguito delle calamità distruttive, le quali impongono la propria presenza slegata dalla volontà umana. In questo caso si ha una modalità di perdita di senso, non più dettata dal passare del tempo, ma da un evento – come direbbe Benjamin – nell’hic et nunc.

Tutt’altro avviene nella razionalità orientale, in cui gli elementi della realtà e della natura sono interconnessi tra loro e in cui una visione separatista è vista addirittura come la manifestazione di una mente turbata. Tutte le cose sono considerate come raccolte in un’unità cosmica: i corpi delle persone e gli elementi naturali appartengono allo stesso livello valoriale. La principale modalità per ottenere la conoscenza è quindi l’intuizione: essa viene attivata con lo stato meditativo dell’essere, che raggiunge il suo apice di concentrazione attraverso l’esperienza di unione con l’ambiente circostante. Seguendo questa modalità ogni forma di frammentazione viene meno; l’Io e il tutto sono interconnessi in questa dimensione unica e unitaria. La facoltà di vedere, intesa come comprendere, afferrare e portare dentro di sé, è l’azione che, in Oriente permette all’umano di sperimentare. Vedere significa raggiungere la consapevolezza della conoscenza mistica e, di conseguenza, attuare una trasformazione fisica. In questo senso, conoscere è trasformare. Un aspetto fondamentale dell’atto dell’apprendere consiste nell’impossibilità di raggiungere un sapere definitivo e comunicabile: sorgono le problematiche dell’incompletezza e dell’inesprimibile (imperfezione del linguaggio). Anche in rapporto a tali questioni la razionalità orientale e occidentale, reagiscono differentemente: in Oriente le forme di indeterminazione vengono accettate nel flusso delle cose, poiché l’esperienza incompleta spinge ad un approfondimento dell’introspezione e quindi allo sviluppo del meccanismo di intuizione che, a sua volta, inserisce l’individuo nel tutto, nella natura; in Occidente, il raggiungimento della conoscenza deve essere dimostrabile e porta la scienza a raffinare la tecnologia con cui osserva e analizza la realtà. Tale modalità permette una maggiore analisi e separazione della materia, nonostante ciò l’osservazione rimane indiretta, tenendo in secondo piano l’esperienza sensoriale. Paradossalmente la fisica moderna occidentale è arrivata a temporanee conclusioni che mantengono la conoscenza entro il limite della supposizione e quindi nell’astrazione. Per esempio nella meccanica quantistica non è possibile scomporre il mondo in unità con esistenze indipendenti; oppure vengono compresi aspetti della materia che non ne permettono una facile comprensione, dimostrando oltretutto l’impossibilità di separare infinitamente gli elementi che la compongono: ne sono esempio la teoria della relatività di Einstein, secondo cui tempo e spazio non sono entità separabili, poiché interconnessi, e la composizione del fascio luminoso, che si espande sia attraverso particelle (elettroni) sia tramite il movimento ondulatorio. Attraverso queste osservazioni è possibile notare quanto la scienza occidentale si basi su aspetti spirituali e filosofici che, in qualche modo, tendono comunque alla dimostrazione di una realtà cosmica.

La rappresentazione più teorica della scienza occidentale coincide inconsciamente con l’arte del paesaggio come forma di «immanente religio». Entrambe si scontrano con la consapevolezza della vastità della natura e con l’impossibilità di comprenderne il funzionamento o la totalità significativa. Nonostante tutte le scoperte scientifiche nel corso della storia, la rappresentazione dei paesaggi naturali rimane ideale e accetta la propria imperfezione nei confronti della biologia. Allo stesso tempo, il desiderio di avvicinamento alla natura ha creato l’incontro tra arte e scienza.

Recentemente è stata pubblicata la prima fotografia di un buco nero. La foto svela il buco nero al centro di Messier 87, un’enorme galassia posta nel vicino ammasso della Vergine. Questo buco nero dista da noi 55 milioni di anni luce e ha una massa pari a 6,5 miliardi e mezzo di volte quella del Sole. Questa immagine apre una serie di questioni che riguardano non solo la scoperta scientifica, ma anche il mondo della rappresentazione, ovvero la maniera di guardare l’immagine accompagnata dall’osservazione scientifica o umanistica che sia. Nella letteratura scientifica specializzata il buco nero viene definito come oggetto che accumula una quantità indeterminata di materia e che, di conseguenza, brucia tutto ciò che lo circonda, insomma brucia più di una scultura di Lucio Fontana o dei crateri del gruppo degli artisti dell’Arte Nucleare. Esso è la più grande manifestazione dell’impossibilità umana di comprendere tutto ciò che è esistente. La natura stessa di tale entità non è definibile né come materiale né come immateriale. La conoscenza della sua posizione all’interno dello spazio è puramente astratta e la fotografia presa in considerazione non segue la classica definizione di fotografia. Anzi, appare come l’esempio evidente di un concetto di fotografia che, nel frattempo, ha superato anche quello concomitante di immagine. Essa è piuttosto la rielaborazione di dati raccolti da un meccanismo di interlacciamento di otto telescopi disposti in diverse parti della Terra. L’immagine del buco nero è paragonabile al paesaggio naturale delle rappresentazioni medioevali, di cui ci parla Hans Belting: è il risultato simbolico dell’incontro tra un’entità lontana, ideale, immaginata e la conoscenza umana. La sua superficie non è percorribile, ma viene presa in considerazione come allegoria delle possibilità di trasformazione della natura, è qualcosa che si avvicina alle parole di Walter Benjamin, quando descrive la condizione di Lesabéndio, o quando commenta gli sguardi di A. Blanqui sugli Astri. Il suo significato raggiunge il nostro pianeta grazie alle scoperte scientifiche attraverso un dipinto elettronico, il cui autore è l’umanità, ovvero il salto autoriale nell’identità stessa di una civiltà. In questo caso, l’osservatore e l’artista, se così si può dire, occupano la stessa posizione di lontananza. Nel 1994, in una breve storia dell’inizio,  denominata Le origini dell’Universo, John D. Barrow, scrive: “Indipendentemente da quello che possa essere l’esatto indice dell’entropia gravitazionale, è chiaro che, se esso aumenta col passar del tempo, l’universo deve aver avuto – nel suo stato iniziale – un’entropia gravitazionale molto bassa, o addirittura uguale a zero. Se riuscissimo a identificare con esattezza l’aspetto dell’universo che ci rivela la sua entropia gravitazionale, saremmo in grado di comprendere alcune conseguenze del fatto che quell’entropia era molto bassa nella fase iniziale del cosmo.[…] La struttura dell’odierno universo visibile è soltanto l’immagine ingrandita delle condizioni esistenti in una minuscola regione dello stato iniziale. […] Ciò che vediamo sono soltanto i risultati dell’evoluzione di una parte piccolissima di quello stato iniziale. Un giorno saremo forse in grado di dire qualcosa sulle origini delle regioni cosmiche a noi più vicine; ma non potremo mai conoscere le origini dell’universo. I segreti più profondi sono quelli che rimangono non svelati”(Nuove Dimensioni, in The origin the universe, superbur scienza Rizzoli, Milano 2001, pp.132-133.). Il processo di acquisizione e creazione dell’immagine assume un valore misterioso, comprensibile solo agli addetti ai lavori, come se identificasse una nuova forma di artigianato algoritmico. Inoltre, vengono manifestate le possibilità dell’essere umano di avvicinarsi alla conoscenza e di allontanarsi da ciò che lo circonda. Come successe con la prima fotografia scattata alla Terra dallo spazio, il rapporto tra uomo e natura subì un cambiamento, ritrovò un momento di estensione della vista nell’espansione della materia. Un’idea è diventata fotografabile ed osservabile, esattamente come accade con le immagini microscopiche. Lo scienziato diviene il fotografo del nostro tempo, in grado di percorrere le superfici della materia attraverso l’utilizzo di mezzi specializzati. Il suo inserimento nella natura avviene idealmente, ma tale esperienza viene espressa tramite un’immagine che chiunque può osservare. Di questo se n’è occupato Werner Herzog in Lo and behold

Tale modalità richiama sicuramente il desiderio di creare un contatto con la natura, che esca dalla dimensione umana, mantenendo la possibilità di attraversamento della stessa.  Si fa allora riferimento alle opere della Land Art come Spiral Jetty di Robert Smithson, a quelle delle Terre Animate di Luca Maria Patella o le cavità negli edifici di Gordon Matta-Clark, in cui la totalità del lavoro è comprensibile e trasportabile nel tempo solo attraverso l’immagine fotografica. In tutti i casi, l’immagine  craterica o riferita alle terre astrali diviene una fotografia di paesaggio, in grado di far confluire la visione naturalistica e quella artistica nello stesso luogo della rappresentazione. L’entropia della materia è raccontata attraverso le descrizioni volontarie dell’opera, le quali colmano e accompagnano le ambiguità delle immagini. La visione diretta è molto spesso impossibile o improbabile, come nelle opere di Michael Heizer realizzate nella perdizione dei deserti statunitensi; o in Matta Clark in cui gli edifici sono poi stati demoliti. Nella Land Art il simbolico della realtà è ancora presente, anche se i significati mistici sono stati sostituiti da quelli artistici. Il fotografo è colui che è stato, il presente che si è fatto storia, donandoci un archivio indicale. Egli trasporta le possibilità di esistenza di alcuni fenomeni dell’arte. Questi artisti aspiravano al riavvicinamento alla natura, ma non si resero conto dell’ulteriore aggiunta di significato e il conseguente allontanamento.

L’impossibilità della visione diretta ha condotto figure, come Jochen Lempert, ad abbandonare una visione analitica della natura per ritrovare una sintesi nel segno fotografico. Esperto biologo e interessato alla «fotografia artistica», Lempert viaggia, scopre e osserva la trasformazione e la bellezza delle forme di vita in quanto tali. Rispetta la realtà nel suo essere, lasciando che sia essa stessa a manifestare l’irriducibilità indicale della natura, una natura-artificiale comprensibile allo sguardo delle persone. Riesce a far coesistere lo sguardo scientifico e lo sguardo artistico. La semplicità dell’immagine fotografica in bianco e nero, senza fronzoli massimalisti o riduzionisti, oltrepassa i limiti della visione soggettiva. I preconcetti della storia sono disposti in secondo piano, a favore della pura e schietta realtà vivente, «indicale».