New York continua ad essere meta ambita per gli artisti di tutto il mondo, da quando negli anni Cinquanta diviene capitale dell’arte contemporanea spodestando Parigi. Danilo Correale, dopo la formazione all’Accademia di Belle Arti di Napoli prima ed alla NABA di Milano dopo, ed una serie di esperienze all’estero, decide di stabilirsi nella metropoli americana.
A New York Danilo porta avanti la sua ricerca artistica, che spazia tra diversi media, utilizzati per commentare ed approfondire tematiche attuali come il rapporto tra lavoro, tempo libero e sonno, mettendo in discussione le strutture di potere che ci governano.
Alice Ioffrida: Cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia? Qual è stato il percorso che ti ha condotto a New York?
Danilo Correale: Non ho mai programmato la mia migrazione, forse solo il bisogno, ad un certo punto di fermarmi. La fuga, è diventata necessaria oltre che un desiderio, ma non è mai stata pianificata, come per tanti della mia generazione è il risultato di un susseguissi organico di eventi. Per me la partecipazione a grandi biennali, i progetti di ricerca, la necessità e il dovere sentito di approfondire la conoscenza di un territorio prima di sentirmi in grado di poter contribuire ai suoi discori culturali, così c’è stata Berlino, il Belgio, l’Inghilterra. Certo gli Stati Uniti sono stati il luogo che mi affascinava di più dove ho sviluppato la mia tesi di master, viaggiando nei distretti del piacere, Florida, California, NY etc… Le amicizie e i sentimenti poi, oltre il lavoro hanno giocato la loro parte e così mi sono ritrovato emigrato a New York dal 2015.
A.I.: Cosa offrono gli Stati Uniti in materia di sostegno agli artisti? Come hai trovato il mercato dell’arte?
D.C.: Negli Stati Uniti non esiste supporto pubblico per l’arte contemporanea. Al contrario, esiste un network estremamente dinamico di organizzazioni filantropiche che garantiscono il sostentamento di tantissime realtà che lavorano a sostegno di artisti la cui pratica non è direttamente commerciale.
Il mercato a New York è fortissimo e a volte opprimente nei confronti di pratiche che non desiderano relazionarsi direttamente ad esso. Tuttavia, rimane un network culturale estraneamente ricettivo e pieno di opportunità per poter portare avanti dei percorsi diversificati fatti di collaborazione e sperimentazione.
In gran parte domina ancora la velocità e la competizione, per questo le ricerche più intime, immateriali, che dialogano con temi scomodi o impopolari non sempre trovano terreno fertile, soprattutto considerando che ciò che non è pittura figurativa copre forse solo 10% dell’offerta culturale ed espositiva.
A.I.: Hai notato un’evoluzione o semplicemente un cambiamento di direzione nella tua ricerca artistica o nella tua poetica in seguito alla tua migrazione?
D.C.: Non credo il mio percorso sia cambiato, certamente si è evoluto e arricchito. New York fornisce un punto di osservazione unico attraverso la quale poter osservare il mondo e una piattaforma critica per riflettere sulle sue ineguaglianze, il futuro e a volte e i suoi pericoli. Tutto materiale preziosissimo per il mio lavoro. L’unico cambiamento credo sia stato di tipo processuale, mi sono scontrato con il mito della “studio practice” con il quale, sento a volte di essere ancora in conflitto.
A.I.: Al momento in cosa sei impegnato, quali sono i tuoi progetti in progress?
D.C.: Il mio è un lavoro transterritoriale che non si concentra né sugli USA né sull’ Italia, (tranne rare eccezioni). È una riflessione sul tempo, sulla nostra speciale relazione nei confronti del capitalismo. Quello di cui mi piace occuparmi sono i tempi dimenticati, l’ozio, il sonno, le storie di disobbedienza e di rifiuto, esponendo i paradossi dei luoghi dove viviamo e lavoriamo. Alcune mie importanti installazioni sono attualmente in esposizione in Francia e Belgio, presto in Australia e Olanda. Purtroppo, dopo la tempesta del biennio Covid19, e la conseguente cancellazione di importanti produzioni che avevo in programma tra Singapore e Manila – in particolare il film che avrebbe chiuso il mio ciclo di ricerca sul sonno e la colonizzazione capitalista del tempo – è certamente stato impegnativo superare gli ostacoli economici, ma è stato ancora più difficile dare senso alla mancanza di solidarietà che alcuni professionisti e istituzioni hanno avuto nei confronti degli artisti con cui avevano accordi e contratti nel biennio 20/21.
Questo mi ha dato lo spunto per collaborare in modo più incisivo in risposta alle gravissime mancanze di accountability con cui i professionisti dell’arte devono avere a che fare continuamente e non solo in Italia. Questo anche grazie alla collaborazione con nuovi gruppi di Art Workers internazionali che si sono formati negli ultimi anni, come il collettivo AWI (art workers Italia)
Al momento sto lavorando a due grossi progetti, il primo è un gemellaggio transoceanico con due importanti istituzioni sul tema del futuro del lavoro. Il secondo è una collaborazione nuova, transidisciplinare che mi permette di pormi tante domande sullo spazio e i nostri corpi nel presente post-pandemico.
Gli ultimi mesi mi hanno dato la possibilità di lavorare di più sul mio tempo e al mio ritmo, ho capito in questo nuovo tempo liberato l’importanza di lasciarmi coinvolgere e entusiasmare dalle persone e l’energia di coloro con cui entro in dialogo. Per questo mi sono lasciato coinvolgere in progetti davvero nuovi e sperimentali, che nascono spesso dal sud, e dal basso, sperando così di poter apportare un contributo significativo alla crescita individuale e territoriale di nuove realtà.
A.I.: Torneresti in Italia? quali sono le condizioni che ti permetterebbero di continuare a fare il tuo lavoro in Italia?
D.C.: Non tornerei. Difficile a dirsi quali potrebbero essere le condizioni adatte, sento una responsabilità forte verso i luoghi che ho lasciato, Napoli in particolare, e mi rammarica vedere una scena culturale in chiara sofferenza, con poca innovazione e le solite voci forti che suonano sempre più come delle litanie, completamente anacronistiche sia nella forma che nei contenuti.
Non so nemmeno se sia la mancanza di identità culturale collettiva a ostacolare la crescita ed il rinnovamento, ma di certo il continuo approccio turistico e estrattivo di alcune istituzioni o “iniziative” inaridisce e stanca.
Potendo ritornerei, magari nei panni di Ned Ludd a mescolare un po’ le acque.
Courtesy Danilo Correale Reverie, On The Liberation From Work, 21min Sound, Video, custom chaise, stained Glass, Installation View at Art in General, New York, 2017, Courtesy Danilo Correale Birdsong, Two Channel Video Installation, 16min Video, Sound, stained glass, Installation View at Hasell Museum, Bard, 2019, Courtesy Danilo Correale