“Architecture Mobile” al Maxxi L’Aquila. Perché il pensiero di Yona Friedman è necessario

“Architecture Mobile”, la giornata di studio su Yona Friedman (1923 – 2023) in occasione del centenario dalla sua nascita al MAXXI L’Aquila è il frutto della collaborazione del museo, la No Man’s Land Foundation e il Dipartimento di Architettura dell’Università di Pescara.
L’evento si è svolto venerdì 28 aprile, alla presenza degli studenti del laboratorio di “composizione architettonica 1” ideatori dei progetti esposti in mostra e le introduzioni del Direttore del MAXXI L’Aquila, Bartolomeo Pietromarchi, e il Direttore del Dipartimento di Architettura, Lorenzo Pignatti.
Gli interventi si sono alternati seguendo la nascita e lo sviluppo della No Man’s Land Foundation sotto la spinta propulsiva di Yona Friedman con le parole Mario Pieroni, Presidente della Fondazione, Dora Stiefelmeier, Presidente RAM radioartemobile, l’architetto Alessandra Gabriele; si è passati ad una seconda parte dedicata all’esperienza didattica degli studenti con Pasquale Tunzi, professore associato di Disegno e Alberto Ulisse, professore associato di Composizione architettonica; infine, terza e ultima parte, è stata riservata al pensiero di Friedman, presentando il libro “The Diluition of Architecture” (Park Books) scritto dallo stesso Friedman insieme a Manuel Orazi, docente all’Accademia di Architettura di Mendrisio della Svizzera Italiana, quest’ultimo in dialogo con il professore Federico Bilò, professore associato di Composizione architettonica e urbana dell’Università di Pescara.

Beati coloro che seminano e non raccolgono

Avraham Ben Yitzhak, Poesie

Si conclude con un verso di Avraham Ben Yitzhak, la lectio del professor Manuel Orazi su Yona Friedman, un epilogo che custodisce la forza dirompente di chi non ha raccolto successi e favori di un immediato presente e, proprio per questo, “vagherà più lontano e sarà raccolto nel cuore del mondo”. 
La figlia di Yona Friedman, Marianne, ricorda in una lettera consegnata a Mario Pieroni come il lavoro del padre collegasse architettura, ambientalismo, sociologia e futurologia, fino ad essere etichettato erroneamente come utopista.
Studente, combattente, profugo, kibbutznik, architetto, professore, saggista, artista, fisico, presentologo, sono invece le parole utilizzate da Orazi per descrivere Friedman, più vicino ad una moltitudine di entità, ad un sistema complesso di saperi, a cavallo di ambiti disciplinari differenti, curiosità da soddisfare, visioni in cui immergersi che lo rendono tra le personalità tanto più originali e affascinanti del Novecento, quanto più necessarie.

Ed è intorno al bisogno irrinunciabile del pensiero di Friedman che ruota il legame tra Fondazione e Dipartimento di Architettura.
L’architetto ungherese rompe gli schemi con qualunque idea precostituita, rappresentativo di quel pensiero divergente capace di stimolare gli studenti nella progettazione persino dell’imprevedibile. Quando i partecipanti al workshop del primo anno di università si approcciano ai principi di architettura, lo fanno portando con loro il carico di pregiudizi sull’abitare lo spazio. Friedman irrompe nel mondo con la sua storia personale di profugo attraverso l’esperienza cosmopolita di culture e influenze differenti, intravedendo nell’architettura l’adattamento dei propri bisogni come quella di molti popoli migranti. 

L’abitazione diventa mobile, adattabile alle esigenze, “senza pareti”, per certi versi in un ritorno alle origini in cui gli studenti del laboratorio sono invitati a cimentarsi senza supporti tecnologici. Dal recupero del lavoro manuale, dalla semplicità di cerchi che si uniscono facilmente riproducibili in scala, gli studenti si confrontano con i primi principi architettonici di misura dello spazio, luce e paesaggio. Dora Stifelmaier in uno degli incontri con gli studenti ha ricordato come l’artista Carla Accardi fosse consapevole che nel passaggio dalla mente alla mano nel processo creativo dell’opera accadesse qualcosa di più di una semplice traduzione dell’idea iniziale. Sul valore aggiunto del lavoro con le mani i moduli di Friedman si inseriscono come un modello da seguire in favore della creatività degli studenti.

Abitazione e natura si combinano a No Man’s Land nel rispetto di una convivenza possibile che trova risposta in quella “diluizione dell’architettura”, che riporta gli studenti ai bisogni più etici che estetici di ricerca di una comunità energetica globale che esce dalle aule universitarie e ha un rapporto diretto con il paesaggio, anche laddove non c’è nulla ed è tutto ancora da costruire. 

A distanza di tre anni dalla morte di Friedman e a più di cinquant’anni dalla proposta della Ville Spatiale, alla quale seguì Architecture Mobile, la sua visione risulta necessaria per la duttilità dei campi attraversati, la portata didattica, in particolare per la sua contemporaneità nell’inclusione dei diritti di uomini e donne costretti a peregrinare tra le emergenze di una società tormentata da guerre, instabilità politica, povertà che rendono l’architecture mobile una soluzione percorribile o un’esortazione alla sperimentazione.

Dopo lo studio e primi progetti presentati al MAXXI L’aquila del workshop di “composizione architettonica 1”, gli studenti intraprenderanno l’allestimento di alcuni moduli de La città dei Rifugiati di Friedman e Jean-Baptiste Decavèle sul giardino della Fondazione di Loreto Aprutino per accogliere il prossimo Cantiere Aperto – No Man’s Land, la prima rassegna di arte contemporanea, musica e poesia della Fondazione in collaborazione con Aware – Bellezza resistente sul tema delle migrazioni.