Gabriele Perretta, Scuola di pittura all‘aperto

Fluidity & resistenza critica [II parte]

La convinzione che sorregge questo scritto è che ancora non è stata completamente restituita la ricchezza problematica della scrittura critica della storia dell’arte e dell’epistemologia mediale. È in questo quadro politico e culturale che si è posta una voce, come quella di chi scrive, nel convegno su Nuova AICA, tenuto in questi giorni all’Accademia di Belle Arti di Torino e del quale questo intervento tenta di offrire i risultati di maggiore interesse.
Questo testo è dedicato ai miei amici d’infanzia, che non sopportavano i giornalisti di Ciao 2001!


Ciascuno di questi predicati è controverso, e a ciascuno potrebbe applicarsi la critica. 
Però, se si fa sul serio, essa deve risalire a monte di questi predicati e indirizzarsi a qualcosa che è loro comune. L’idea di un progresso del genere umano nella storia e inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di procedere deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso. 
W. Benjamin, “Sul concetto di storia”, in Opere complete, scritti 1938-1940, Einaudi, Torino, p.490.

2. La storia dei rapporti tra «l’arte sperimentale» e i «movimenti della critica e della ricerca epistemologica» è densa di fasi contraddittorie. Ad un periodo di grande interesse per la ricerca e per la letteratura di completamento – che aveva caratterizzato la cultura europea d’avanguardia negli anni del primo e del secondo ‘900, è seguita poi una lunga fase di chiusura reciproca, durata quasi tutto l’ultimo trentennio del ‘900, un processo di lenta e inesorabile fluidificazione, che negli ultimi quindici anni ha dato luogo ad un reciproco interrogarsi, ancora certamente viziato da molti pregiudizi, ma nel complesso apportatore di un macchinario di cancellazione tanto vivo quanto ricco. La storia di questi rapporti e dei loro collegamenti con le fasi storiche e politiche in cui temporalmente (oltre che culturalmente) si situano, ci pare ancora tutto da scrivere; e forse quando questa ricerca sarà stata portata ad avviamento (magari sulla retta via), il confronto tra l’arte di ricerca e il movimento della critica si porrà su basi meno ideologiche, ma sicuramente più resistenziali. Ma non si tratta, a nostro parere, esclusivamente di un vuoto storiografico da colmare; fino ad oggi questo confronto ha trovato il terreno storico e sociale in cui collocarsi in società neo-capitalistiche, nelle quali o la forza del movimento critico (oscurato dal curatorialismo) era complessivamente scarsa, o comunque le metodologie della critica d’arte in dialogo con tutte le scienze sociali non aveva potuto porre con vigore il problema di una propria logica culturale. La sensazione che noi abbiamo è che lo stato di confinamento della critica nell’arte contemporanea, cui assistiamo oggi in Italia, trova la sua ragione di riscatto nei grandi ed originali risultati che l’azione della critica mediale sta dando in questo paese e non solo. Il fatto che la libera ricerca critica abbia responsabilità locali, per fronteggiare l’epoca della fluidità, obbliga a ripensare, tra mille altre cose, anche il modo di porsi di fronte al tema della contro-fluidità e dell’energia che la tutela; obbliga a ripensare il concetto stesso di energia. È questo che spinge il dibattito, attorno ai rapporti tra le varie diramazioni della semiotica dell’arte, ad uscire dalle secche dell’ideologismo formale. E così è anche per le altre scienze sociali il cui impiego critico da parte della specificità della parola critica negli ultimi dieci-quindici anni ha dato grandi risultati nel promuovere un contro-dibattito attorno alla società capitalistica. Oggi la richiesta che viene fatta alle scienze sociali in genere è assai più elevata; anche per queste si pone il problema di compiere un salto dall’analisi alla scioltezza del programma della critica.

Da almeno un quarantennio il tema della soggettività critica, della collocazione dell’intellettuale e del lavoro nelle arti, come tale, all’interno dei rapporti sociali (sistema e non sistema delle arti, industria culturale etc …), è diventato oggetto di un dibattito e di una riflessione contro il paesaggio delle fluidità, il cui maggior risultato, per chi si occupa di sociosemiotica, è stato quello di costringere la teoria delle arti a confrontarsi con il patrimonio storico-critico dei movimenti artistici ed estetici.

D’altra parte, l’arbitrio del gas (stabilità, equilibrio, costanza, emancipazione, resistenza, etc…) a sfavore del fluido (liquidità,etc…) è atto di mediamorfosi nei confronti dello stesso giudizio, della stessa coscienza critica. Diceva S. Freud: “non si può avanzare di un passo se non speculando, teorizzando” (Analisi terminabile/interminabile (1937) in Opere 11 (1930-38), a cura di C.L. Musatti, Bollati/Boringhieri, Torino, 1979, p. 508). Tanto vale rendere esplicita questa provocazione, affinché l’interpretazione non rimanga appannaggio dei fluidificatori (leggi anche liquidatori), ma divenga diritto riconosciuto di ciascun lettore. La facciata della pertinenza è, dunque, pretesto per aprire uno spazio e un’occasione di scrittura e di lettura a chi è disposto a dare forma concreta ad un contributo critico, a un articolo, a un saggio di interpretazione e traduzione, che trovano in se stessi la propria giustificazione. Ma la critica «mediale» nasce nella continuità di un’iniziativa eretica di resistenza (airesis, secondo l’accezione più ovvia e recente della radice greca, sottende sia quella di critica che quella di semiosi illimitata della comunicazione), che mi appartiene fin dagli esordi del mio percorso e mi ha accompagnato lungo le indagini e le pratiche del Medialismo. Essa costituisce un «affrancato», «intenso» e «denso approdo» a quella orizzontalità, verticalità o spazialità e temporalità delle arti e della cultura che pare tutt’ora, a chi scrive, un mondo <costante>, in gran parte inesplorato o da ri-esplorare con strumenti sempre rinnovati.

È abitudine diffusa, ormai, nell’arte colta emarginare (ridurre al minimo) lo spazio dedicato alla storia e alla critica d’arte: la norma chiede d’eccezione veder trattati quei millenaristici anni di storia del pensiero artistico nel ristretto margine di due, tre, o al massimo quattro battute enunciative fatte di dati, nozioni wikipediane e assenza di interpretazione. Già il fatto di saltare a piè pari un periodo di centinaia e centinaia di anni dovrebbe lasciare almeno un po’ perplesso chiunque, anche non addetto ai lavori, fosse dotato anche in misura minima, di senso della storia dell’arte (oltre che di buon senso critico). Ma la perplessità diventerebbe decisamente un grave sospetto, allorché ci si chiedesse se quei mille anni non siano trascurati proprio per quel pregiudizio sulla gestione della fluidità, che condiziona ancora pesantemente l’approccio a tale civiltà o all’altra. Quali sono le motivazioni di chi nega alla storia delle arti (e non storia delle arti e del costume) e alla storia della critica estetica o filosofica il diritto di comparire con pari dignità a fianco di quella antica e di quella moderna e contemporanea? Esse si potrebbero ricondurre sostanzialmente a due prospettive di programma: 1) la critica d’arte classica o non è critica (ma teologia dell’arte, sociologia dell’arte, semiotica dell’arte eccetera), perché si limita a sostanziare tesi che si muovono contro la cultura della fluidità, o circoscrive il proprio lavoro su tesi già elaborate nel campo delle epistemologie; 2) quand’anche esistesse un, peraltro ristretto, nucleo di critica d’arte, esso non avrebbe poi avuto una incidenza sufficiente e rilevante sulla critica più in generale. In questo intervento, qui alla nuova AICA, che del resto non ha la minima pretesa di trattare organicamente il tema in esame, non pretendiamo di dire molto di nuovo, a livello di ricerca filologica, ma semmai cerchiamo di fornire con un certo ordine qualche spunto in una prospettiva prevalentemente teorico-organizzativa (naturalmente il teorico organizzativo è riferito anche al pratico). Da un punto di vista filologico infatti si può ritenere che quanto andava detto è sostanzialmente già stato detto nella famosa disputa tra Semiotica ed Estetica, compagine storiografica degli anni 60-70, e dialogo tra sapere iconologico e semiologia non verbale. Le tre vie della liberazione secondo la critica sono: arte, scienza e politica dell’autogoverno. L’arte ha una capacità liberatoria, perché è una forma di conoscenza libera e disinteressata e, quindi, priva di progetti legati al successo, l’affermazione e il conflitto economico. Nel momento in cui si contempla o si costruisce, ci si immette su una liminalità autonoma o eteronoma, sul confine tra estraneo e reale, solitamente si pensa all’utile (ma anche all’inutile), e invece in quel momento si pensa alla bellezza e dalla bruttezza, al simbolo e all’allegoria o allo stato di realtà. La pratica artistica afferma anche che: poiché l’opera d’arte esprime l’universale, il soggetto è trasportato nel mondo delle idee. Nelle diverse arti sono espresse diverse idee: dunque, cancellare la cancel fluidity o cancellare la damnatio memoriae della critica? Fluidità significa cultura della cancellazione acritica e, se una volta c’era l’indice delle teorie e pratiche proibite, oggi c’è una preoccupazione ancora più diffusa per la pubblicazione di letteratura senza storia e finalità, arte curatoriale senza critica, operatività espressiva senza espressione, film che trasferiscono l’impegno nel  banale turbamento delle coscienze. 

«Qualcuno (ma chi? sono in molti? sono in pochi?) – riflettono gli organizzatori dell’incontro di Torino della nuova AICA – vuole che le parole e le immagini abbiano un valore anzitutto fluidity! E che nulla di troppo scorretto ci induca in tentazione!». A quanto pare, lo strumento per farci critici (ovvero persone di qualsiasi genere) è ancora una volta la censura o la sovrapposizione, la cancellazione di una memoria a favore di un’altra. 

Dal pluralismo metacritico alla società dell’omologazione. In un momento storico in cui tutto sembra andare per il verso sbagliato, e ogni nostra certezza critica sembra che sia messa in discussione, pare che le risposte dell’arte non debbano più pervenire dal pensiero critico. L’egemonia culturale sembra sia, infatti, prevalentemente preoccupata della necessità di una fluidità, che arriva persino a giustificare la cancellazione e la rimozione di tutto ciò che non sia conforme alla strategia della provocazione, dell’immagine dello scorrevole e del sintetico: «presto è finita…»! Così, dinanzi alle questioni irrisolte della storia dell’arte moderna e contemporanea, di fronte alle enunciazioni della neoavanguardia, visto che il mercato ne ha acquisito le opere, siamo passati alle certezze collezionistiche e all’apologia della merce! Oggi più che mettersi alla ricerca di soluzioni che tengano conto di un dialogo tra la storia, la critica e la mediamorfosi, la fluidità suggerisce di cancellare e di rimuovere tutto ciò che la cronaca recente reputi sia andato a rovescio. La tendenza, infatti, è quella di usare la strategia della fluidità, rinunciando alla comprensione delle cause, alla ricerca della problematica storica, semmai sbrigativamente rimpiazzante da ormai sterili rituali celebrativi. Il fluidismo si presenta, infatti, come un modo comodo e rassicurante di fare marketing mix, nella misura in cui sembra dispensare dalla fatica di una seria analisi del contesto storico in cui viviamo. Per scongiurare la possibilità che gli errori del passato possano ripetersi, o magari che a fiori e venga la luce un’arte che si è affermata negli anni novanta del Novecento, non è più necessario analizzare (l’esperienza del medialismo per esempio) e rintracciare le cause di quelle produzioni: basta esprimere simbolicamente il proprio volere di cancellazione, ad esempio imbrattando slogan di fluidità, o abbattendo oggetti d’arte contro flussi di rete che, in fondo, più che comprendere si intende ignorare. Una nuova forma di fluidoclastia e fluidocrazia diviene lo strumento di questa presunta pacificazione con la storia dell’arte, come se il nostro tempo non fosse più nemmeno in grado di tenere distinto il valore estetico ed artistico di un’opera d’arte, dall’evento storico critico che con essa si intende rappresentare. Il presentismo della fluidità senza arte né parte, senza passato critico presente critico e futuro critico si afferma a iosa. Si tratta di una operazione apparentemente fluida che, però, sembra volerci portare in una direzione ben diversa da quella della ricerca della risposta critica (per risposta critica intendo la funzione della semiologia critico letteraria rispetto alla curatorialità visiva monca). L’idea è che non serve più ascoltare la voce storico-critica, non serve più cercare corrispondenze tra scienze sociali e ragione critica, non serve più porsi domande di taglio epistemologico per capire il presente e che, l’unico modo per comprendere un evento storico, sia quello di decontestualizzare e di reinterpretarlo alla luce di ben precise categorie relazionali nel presente politico, nella strategia espositiva e nella sostituzione di cattedre di storia e teoria della critica e della forma con elementi di comunicazione pubblicitaria. 

Gabriele Perretta, Vuoti della pittura

3. Essere moderni venne a significare, così come significa oggi, essere incapaci di fermarsi e ancor meno di “fare senza fluidità”. Quanto è cambiata la nostra arte e la nostra abitudine ad approcciarci ad essa in meno di 30 anni dall’introduzione del paradigma mediale? Tanto e rapidamente, senza dubbio. La tecnologia ci ha consentito di essere sempre più connessi, semplificando processi e procedure, ma abituando i curatori a cancellare storia e critica militante! L’atteggiamento dello storico dell’arte attuale è quello di scrivere o usare la scrittura storica come fluida cancellazione storiografica. Parliamo del nostro paese, l’Italia, per capire quanto e come le persone dell’arte stiano affrontando queste evoluzioni e rivoluzioni presentificanti, digitali e tecnologiche. Nell’era della tecnofluidità (la fluidocrazia), in cui tutto è diventato merce, anche la curatorialità fluidificante non può che essere un sentimento prefatto, che il leviatano fornisce franco domicilio come il collegamento alla rete o le immagini della cultura della cancellazione stessa. L’Italia è un paese in cui utenti-curatori, e in particolare i social-quadriennale, i social-triennale e i social-biennale, cercano svago, sorpasso, occultamento, divertimento competitivo sulle bravure e i plausi estetici, prima ancora di capire di cosa si tratta. Ma capiamo meglio come si stia affrontando questa mutazione in atto, attraverso l’affermazione del caoticismo fluidity, contro quello di critica e autonomia della critica: scenari fluidi e di consumo, istanze passeggere, agganci disagiati, aggregati/disaggregati. Se un campione di mille utenti di un museo ha fatto emergere un clima positivo e di sola curiosità critica da uno degli eventi prodotti dal museo stesso è già tanto! Che rapporto abbiamo con le corrispondenze critiche? Cosa ne sappiamo dei rapporti tra le neo-avanguardie letterarie e quelle visive? Cosa ne sappiamo delle vere relazioni mediali fra le corrispondenze artistiche degli anni 90? Quali sono le cause che ci portano a sperimentare e utilizzare poco tutti gli strumenti disponibili? Sicuramente la scarsa confidenza con una storia democratica, in cui si dà accesso al campo della riflessione quasi a tutti i movimenti! Resta il fatto che la fluidità evolve a ritmi sempre più rapidi e, certamente, più veloci della capacità di adattamento della società delle Arti e, quindi, la risposta da parte dei curatori è quella di cancellare i capitoli di storia. Ed è il potere della fluidità che – in Italia si è trasformato in lotta intestina e in odio per il protagonista – decide quando e come distribuire il veleno della cancellazione, consapevole che per i suoi bisogni di guerra fratricida può sempre disporre di tanti piccoli curatori e storiografi della cancellazione, pronti ad avvicendare nella sostituzione di solo potere, nell’asfalto crudele la strada della ricerca, quei loro faldoni di recitazione espositiva con le pratiche di morte e di annientamento. Nel dialogo paranoico con il suo capostruttura della Treccani, il curatore dell’ultimo dizionario delle Arti e dell’estetica contemporanea è fiero del suo esercito di cancellatori, di occultatori, di mediatori della bugia, dal momento che è lui stesso a giudicare ciò che è politicamente opportuno. In questo universo comportamentista, ormai dominato dalla strategia della fluidità, anche il guerriero moderno, dice il medialismo, ha smarrito la sua identità, è divenuto una spia, un delatore, una marionetta evoliana dal gesto compulsivo e meccanico, in grado di cancellare, cancellare ad iosa! Il curatore della tarda modernità si è mutato in impiegato della retorica fluida, colletto inamidato del boia dell’applicazione grab (l’equivalente di Uber), che nel sud-est asiatico spopola con un’economia da milioni di persone. 

La capacità di generare fluidità, che la società dell’informazione ha innescato sui modelli perversi degli anni 70, non ha pari nella storia dell’arte e questo è un dato incontrovertibile sul quale occorre riflettere, per non ritrovarsi tagliati fuori dal mercato della riproduzione oggettuale. Così come non siamo più nella condizione di scegliere se vivere connessi o meno, così non siamo più nella condizione di abbattere memoria, i media hanno arricchito le potenzialità e le risorse di archiviazione, imponendo una selezione tautologica, ma anche una pluralità di alberi della conoscenza. Piaccia o no, l’iperconnettività storica delle banche dati è una condizione imprescindibile della post-enciclopedia, anche se essa a forza di fluidità si è trasformata in un effetto Ground Zero. Essere fluidi non è più sufficiente, e nella società attuale occorre diventare gassosi, mettersi alla ricerca di nuove energie democratiche di uguaglianza.

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