Alla ricerca del corpo. Valeria Geremia – 2a parte

Malgrado il significato cruciale della performance sia riconosciuto nell’ambito della storia dell’arte, e molteplici azioni siano ormai entrate nei musei, l’ultima emergenza sanitaria ha seriamente compromesso l’attuabilità delle pratiche artistiche “dal vivo”. Di questo problema, e di altre importanti questioni, come la differenza – nella percezione del pubblico – tra performance e coreografia, abbiamo discusso con Valeria Geremia, coreografa e danzatrice Butoh con un lungo trascorso nelle arti visive.

Ti limiti a scegliere le musiche su cui danzi o qualcuno le crea per te?

Entrambe le cose. Ascolto un suono, o un brano, e immagino lo scenario che possa costruirsi su quell’atmosfera o viceversa. I suoni che prediligo come sottofondo sono quasi sempre senza un ritmo o armonia preconfezionati: sono “suoni materici”, quali potrebbero sentirsi sospesi nello spazio, o immersi dentro l’acqua.

Da anni collaboro col digital artist Karmek, un amico cui si devono molti paesaggi sonori dei miei spettacoli, e, sebbene meno spesso, con la cantante jazz Rosalba Bentivoglio. 

Ho anche collaborato con Sainkho Namthchylak, una delle più grandi voci a livello mondiale per overtone singing, con la quale ho strutturato Heyat, che significa “Anime” nella lingua di Tuva. L’esperienza con Sainkho è stata davvero potente; lei lanciava, letteralmente, il suo canto che “proviene da molto lontano”.

Cosa differenzia una performance da una coreografia?

La performance presenta una maggiore interazione col pubblico. Vuole lasciare il segno, fondando sul momento presente le sempre diverse evoluzioni di una medesima azione.

Il qui e ora racchiude in sé un universo di percezioni, che muta da persona a persona e si evolve nel tempo. Le sfaccettature della mutazione, vive come un cuore pulsante, uniche, sono irripetibili. Direi quindi che a differenziare una performance da una coreografia è un’evoluzione sempre nuova dell’atto creativo e soprattutto una sempre nuova maniera di sperimentarlo. Mi pare però che chi partecipi a una performance non ne sia sempre o del tutto consapevole. 

Le performance sono, per definizione, fugaci. Che cosa resta dei tuoi lavori?

Questa domanda si dovrebbe fare a uno spettatore. In cuor mio anelo ad un incontro di anime che possa far evadere dall’automatica percezione del reale. Suoni, forme, ritmi e silenzi, flussi che aprano vie nuove. Tutto questo, ripeto, avviene inconsapevolmente, ma l’effetto è dirompente.

Dopo una lunga permanenza all’estero, sei tornata in Sicilia: il richiamo della foresta?

La permanenza a Berlino durante il periodo del Muro e negli anni successivi è stata fondamentale. Ha strutturato la mia spina dorsale mostrandomi un’altra possibilità, un diverso modo di concepire la vita. Sentivo di trovarmi nel posto giusto al momento giusto. Berlino, allora, non era certo di tendenza come lo è adesso; anzi ricordo che, quando decisi di traferirmi lì, dopo averne percepito l’immenso fascino trasgressivo e culturale, molti tra amici e parenti mi dicevano: “che ci vai a fare in quel posto freddo, sotto il Muro?”. Ma ero determinata nel mio progetto e così partii. Ringrazio il cielo di averlo fatto. Volevo imparare il tedesco e poi seguii anche l’Accademia di danza contemporanea; Berlino resterà sempre nel mio cuore. Dopo Berlino, stanca dei cieli plumbei e desiderosa di cambiamento, andai un anno a Madrid, dove ho avuto la fortuna di collaborare con il gruppo Artnophobia. Fu quindi un anno non solo di “marcha madrilena”, ma di grande lavoro e apprendimento creativo. Con questo gruppo di scultori, saldatori, restauratori, sotto la guida dello stravagante artista e amico Javier Ayarza, abbiamo allestito uno dei locali più intriganti del momento: La Bodega de Roberto el Pirata.

Il desiderio di rivedere il mio mare, il mio sole mi ha riportato in Sicilia. Il desiderio di realizzare nella mia terra, a contatto con amici ed artisti, nuovi progetti dopo aver tanto immagazzinato negli anni precedenti. Il desiderio di lavorare accanto ai miei familiari, ai miei nipoti, magari di intrigarli in avventure di creazione, per trasmettere loro l’idea cha anche qui possiamo e dobbiamo fare tanto. 

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai nel prossimo futuro?

Promuovo ancora, fino a giugno, un progetto che ho ideato e realizzato durante il primo lockdown: ho invitato diciannove danzatori Butoh da tutto il mondo ed abbiamo realizzato il video WE BODY WE NATURE, visibile su Vimeo On Demand. Ciascuno ha donato un momento: io, ad esempio, ho danzato su una vecchia colata lavica. Tale progetto è parte del BUTOH CARAVAN PROJECT, un format più ampio in cui coinvolgo artisti locali ed internazionali, come nel caso di ANIME, realizzato a Catania, al Convitto Cutelli, per il Wondertime festival, e DIE MAUER – IL MURO, che ho organizzato, sempre a Catania, a Palazzo Platamone, per il trentennale della caduta del muro di Berlino. 

Parallelamente sto realizzando un lavoro che unisce pittura e corpo e movimento. Il progetto si chiama “Body rEVOLUTION” e interpreta il vissuto di questi ultimi anni: le chiusure, le paure, gli orrori della guerra, l’ennesimo incredibile degrado della nostra DISumanità. Il progetto avrà diversi capitoli, e vorrei iniziare con AMORE.

Su questa linea artistica, che unisce come sempre la danza e la pittura del corpo, ho strutturato un festival nelle Dimore Storiche Siciliane che si terrà da maggio a luglio a Catania, Ragusa, Caltanissetta, Caltagirone, Palermo, Noto e forse Scicli e Trapani in meravigliosi palazzi siciliani, dei quali ho selezionato i saloni più sontuosi, evocativi. Saloni che faranno da cornice al mio corpo/scultura/opera d’arte interamente ricoperto di colore (lo dipingo personalmente, e ci vogliono circa quattro ore).

Sarà un viaggio nella tradizione, ma dal sapore avanguardistico, primordiale. 

La prima tappa il 20 maggio a Ragusa, al Castello di Donnafugata. L’ultima a luglio, a Noto, a Palazzo Nicolaci.

Dopo il festival terrò un workshop a Berlino col ballerino russo Valentin Tszin e quindi uno spettacolo con i partecipanti.

(a cura di Andrea Guastella)