Ziva Kraus Unica - Marina Bastianello Gallery Venezia -Mestre 26 marzo. Credito foto Giorgia Rorato

Živa Kraus. Pittura come «atto di resistenza»

Per Gilles Deleuze, teorico del nomadismo e della condizione rizomatica del desiderio, la funzione della filosofia è quella di costruire concetti. Il suo approccio all’arte e ad artisti come Bacon, Cézanne, Hantaï, Herbin, Klee, Michaux, Pollock, non cessa, infatti, di strutturare forme di pensiero e tipologie di termini che possano accostarne la complessità e renderla comprensibile a chi guarda, trasmettendone il portato essenziale, intimo. «Qual è il rapporto tra l’opera d’arte e la comunicazione? Nessuno, nessuno. L’opera d’arte – continua Gilles Deleuze – non è uno strumento di comunicazione. L’opera d’arte non ha nulla a che fare con la comunicazione. L’opera d’arte non contiene, a rigor di termini, la minima informazione. In compenso c’è un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza. Allora lì sì, che ha qualcosa a che fare con l’informazione e con la comunicazione, a titolo di atto di resistenza. Ma qual è il rapporto misterioso che intercorre tra un’opera d’arte e un atto di resistenza? Dal momento in cui gli uomini che resistono non hanno né il tempo né talvolta la cultura necessari per avere alcun rapporto con l’arte…non so. Malraux sviluppa un buon concetto filosofico. Malraux dice una cosa molto semplice sull’arte; dice: ‘È la sola cosa che resiste alla morte’». L’opera pittorica di una Živa Kraus Unica è un lascito culturale alla città Unica di Venezia.

«L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è».

Paul Klee

Il farsi luogo del colore nell’abisso della superficie

Živa Kraus, ragguardevole pittrice croata naturalizzata italiana (nata a Zagabria il 4 ottobre 1945, dal 1971 risiede e opera a Venezia), fondatrice nel 1979 di Ikona Photo Gallery – nome che ne restituisce la potenzialità di immagine sacrale – è figura di donna e artista irriducibile. Nella mitologia slava il nome Živa significa vitalità, esistenza. Nel nome che le è stato dato è già presente il suo destino. Il destino, s’intende, di una donna storica e innegabile precorritrice dei tempi nella valutazione della fotografia, in genere, e di quella a colori, in particolare, come opera detentrice di un suo linguaggio e di un suo statuto d’arte. Fotografia, quindi, come oggetto estetico, leggibile, in quanto tale, al di là di un preteso pittorialismo degli esordi o di un documento oggettivo del reale o, ancora, di un reportage giornalistico da inviato speciale. Sensibilità, cultura, conoscenza, determinazione, hanno contribuito a costruire in Živa Kraus quella Weltanschauung, quella complessa e sfumata visione del mondo che la sua duplice opera nel contesto artistico riproduce come un indecidibile autoritratto.

Motion Emotion Motivation/Moto Emozione Motivazione. Una chiave di lettura

L’opera pittorica e il disegno di Živa Kraus scaturisce da un colore che si dà e si nega, come la luce e l’ombra di un corpo che accade nello spazio, di una pulsione interiore che si fa visibile. Un’opera la sua che si confronta con il non-finito dell’infinito, ricorrendo a strumenti come il colore, mai simbolico in quanto carica espressiva di se stesso, come segno vettoriale, come macchia densa o rarefatta, iscritta in un spazio fluido. Opera come segno che si avvolge in una curva chiusa, agli esordi, che tende ad aprirsi nei lavori successivi, come retino punteggiato di micro-entità, come punto disseminato nel vuoto. Il percorso pittorico di Živa Kraus è supposto muovere, storicamente, da Malevič, attraversare intensamente Kandinskij, raggiungere cromaticamente Klee, condividere l’equilibrio visivo, libero da vincoli contenutistici, espresso dal Neoplasticismo di De Stijl, le sinergie colore-musica-movimento-pittura di Kupka,  l’emancipazione dalla prospettiva di Matisse. Appartiene al suo patrimonio conoscitivo una memoria del Bauhaus, di un Futurismo inteso in senso dinamico-dialettico, non ideologico. Trasferita dal piano tridimensionale a quello bidimensionale, l’opera pittorica di Živa Kraus può rinviare, per leggerezza, a certi Stabiles/Mobiles di Calder. I suoi esordi come artista avvengono alla fine degli anni Sessanta/primi anni Settanta, dopo il New Dada, l’Espressionismo Astratto, la Pop Art, il Conceptual, la Minimal Art, negli Stati Uniti, movimenti che si contrappongono alle esperienze parallele europee di Art autre/Informale, Tachisme, Scrittura Visuale, Poesia Visiva, Mail Art, Nouveau Réalisme, Nuova Figurazione, Arte Povera, Transavanguardia, Neue Wilden. È figura del molteplice, della complessità, come artista e in parallelo, autonomamente, gallerista e curatrice. La sua esperienza multimediale e polisemica ne fa anche una figura pioniera dei nuovi media come la fotografia di ricerca e il video.
I suoi tre campi di esperienza estetica nella fotografia, nella pittura, nella conduzione curatoriale, interagiscono, stimolando la qualità della sua attività espositiva, e, a latere, di quella pittorica e grafica. Lanciando ponti da sponde metaforiche tra terra/aria, acqua/fuoco, intimità/esteriorità, oscillando tra un Astrattismo che ora sfiora il lampo surreale di un Mirò, ora il geometrismo cromaticamente scontornato di un Poliakoff, l’artista veneziana/zagabrese si orienta verso un’astrazione espressionista del segno, nero o luminescente, mai descrittivo, sempre dissolto, poeticamente, in oscurità o luce. 

La mostra. Živa Kraus. Unica.

La mostra personale intitolata Živa Kraus. Unica si articola in venticinque opere, pittoriche e disegni, del formato prevalente 70 cm. x 100 cm. Sono lavori che rinviano a una condizione visuale cosmica, che disegnano mappe cromatiche su fondi solari o notturni, sono carte a pastello, a carboncino, a tecnica mista, che portano, significativamente, titoli evocativi come tracce, impronta, incontri, gioco, suolo, éclat, città, sguardo, navigazione, Atlantico, laguna, voli. Nel delineare una sequenza operativa in cicli, con l’intento di avviare un possibile approccio a un’evoluzione segnico/formale, si può suddividere l’opera pittorica di Živa Kraus in Forme Chiuse (1969 ― 1972), in Forme Aperte (1972―1977), in Campi Luce (1978 ― 1983), in Orizzonti (dal 1981 in avanti). Dalle astrazioni segnico/morfo/dinamiche, a carbone o a forte contrasto cromatico, anni Settanta, agli addensamenti, coloristico costruttivi, dall’andamento orizzontale, anni Ottanta, fino alle vorticose e lievi città dell’immaginario, in volo verso lontani orizzonti del terzo Millennio, si coglie nell’opera di Živa Kraus la continuità di un filo espressivo evolutivo, che corre all’infinito, in parallelo all’esperienza di una vita votata curatorialmente ed espositivamente, da gallerista, alla fotografia. Il suo percorso, infatti, è teso sul crinale mobile, segretamente interattivo, tra l’opera fotografica e l’esperienza pittorica. La qualità della sua armonia, slittante tra pulsione e contemplazione, entra in sintonia con il termine greco diapason – musicalmente riferibile all’ottava come intervallo compreso tra una nota e un’altra di frequenza doppia – nell’opera pittorica di questa artista, riferibile all’attraversamento di tutte le note cromatiche tonali e timbriche. È identificabile, nella sua ricerca, un sensibile riferimento alla scala di valori, a livello espressivo e intensivo, della Scuola di Parigi. La sua pittura è un accadimento senza narrazione, un susseguirsi di intensità tali da restare segrete, trattenute, intenzionalmente, dietro la soglia di una storia in cui l’io, l’altro, l’immaginario collettivo, si sono identificati. Ricorre, nelle sue opere, la figura del doppio, la duplicità come accostamento di due presenze autonome che assumono la forma del cerchio, della macchia casuale, del contorno colorato. Un vistoso punto esclamativo azzurro, su un fondo rosso fuoco (Éclat, 1978), divide in due la superficie dinamica della tela, come, un omologo segno ocra, (Portrait,1978), posto tra gli occhi, delinea un geniale, impenetrabile ritratto dello scrittore Alberto Moravia, persona amica e familiare all’artista, nonché lucido presentatore a catalogo di una sua mostra. Un termine tecnico come quello di gradiente cromatico, definisce, anche nell’opera di Živa Kraus, la differenza tra due condizioni inizialmente percepibili come separate, ma che poi sfumano l’una nell’altra, con effetti visuali carichi di intensità di vario ordine: dal lirico all’ottico, dallo psichico al sensoriale, dal segnico allo scritturale. È leggibile nella sua opera, slittante tra realtà interiore e realtà esterna, tra introspezione e mondo, quella condizione che lo psicoanalista francese Jacques Lacan denomina con il termine composito Extimité – extériorité/intimité – analizzato nel suo Seminario VII, ma già presente in Freud come concezione modale di un soggetto dall’io diviso. Quando, sola nel suo atelier, Živa Kraus impugna i suoi pastelli di polvere colorata, il suo carbone, è per liberare impronte gestuali sulla carta, è per costruire relazioni lineari, spaziali, temporali, su fondi di un azzurro, di un verde smeraldo, di un’ocra dorata o bruciata che un Paul Klee non tarderebbe a riconoscere come familiari. I valori tonali del suo autoritratto ocra con silhouette nera, o i valori timbrici dei suoi squillanti contrasti tra colori puri e nero, sono parte del suo essere donna-artista. La sua opera accade nel tempo di un gesto pulsionale che si contorna di un segno nello spazio aperto di un fluido arcobaleno.

Un percorso bio-storico-curatoriale

Il contesto familiare di appartenenza – la madre Herma Delpin, medico, diventa Ministro della Salute, il padre Ivo Kraus, avvocato e procuratore, è uno dei primi presidenti delle gallerie d’arte cittadine, oggi Museo d’arte contemporanea di Zagabria – la formazione, le precoci scelte, tracciano un cammino operativo diretto, senza flessioni, verso obiettivi ben determinati come l’estetica, l’etica, il viaggio come percorso di conoscenza, oltrepassamento del proprio contesto verso un altrove, un territorio di esplorazione e ricerca. Fondamentale è la sua formazione a Zagabria, ambito in cui, fine anni Sessanta e primi anni Settanta, l’arte, la scienza, la percezione ottica, il cinetismo reale e virtuale, la fenomenologia, il gesto performativo, lo scorrimento video del fotogramma, sono stati indagati con strumenti avanzati, raggiungendo esiti che hanno dato struttura a una certa neo-avanguardia e, successivamente, alla cosiddetta arte contemporanea. Arrivata a Venezia nel 1971, Živa Kraus diventa assistente dello Studio Vedova, frequenta scenografia all’Accademia di Belle Arti, realizza nel 1972 la sua prima mostra personale allo Studio Galerije Forum di Zagabria, seguita, nel 1975, da quella alla Galleria Il Canale di Venezia. Nel 1973 diventa assistente di Peggy Guggenheim e dal 1974 al 1976 della Galleria Il Cavallino di Carlo Cardazzo, collaborando anche con il di lui figlio Paolo nell’ambito della nascente videoarte. Da citare, in questo settore, anche il suo contatto con il centro fiorentino Art/Tapes/22 a cura di Maria Gloria Bicocchi e con il Centro di Videoarte di Palazzo dei Diamanti, diretto da Lola Bonora. Del 1975 è la sua personale alla Galleria Il Canale di Venezia. Nel 1976 Živa Kraus coordina, con la Galleria del Cavallino di Venezia e la Galleria d’Arte Contemporanea di Zagabria, il IV Incontro a Motovun, sul tema dell’Identità, organizzato dal Museo Etnografico d’Istria di Pisino. In questo contesto l’artista realizza il video in bianco e nero The Motovun Tape – ripreso da Paolo Cardazzo e Andrea Varisco – in cui scorre sensibilmente con la sua mano le pietre di un muro a secco, mentre il rumore della registrazione in loco funziona come unico, diretto, fondo sonoro. Questo video storico è un’opera chiave anche per comprendere il rapporto di sensorialità tattile che l’autrice intrattiene con l’opera pittorica e in particolare con i suoi pastelli. L’incontro è testimoniato dal raro documento storico del catalogo bilingue (italiano/croato) edizioni del Cavallino, Venezia, 1977. La qualità dell’immaginario pittorico dell’artista, può aver interiorizzato anche le modalità dinamico-processuali del video nel ductus della sua pulsione grafico-gestuale. Del 1978 è la cura, da parte di Živa Kraus, del catalogo della 38a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale veneziana Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura, presieduta da Carlo Ripa di Meana. Nel 1979 l’artista fonda Ikona Photo Gallery, pietra miliare della fotografia internazionale, e nel 1989 Ikona Venezia International School of Photography, a Ponte di San Moisè, successivamente in Campo del Ghetto Nuovo, nel sestiere di Cannaregio. Dirige, nel contempo, dal 1982 al 1991 la Galerija Sebastian, con sedi a DubrovnikBelgrado Varaždin. La sua pratica del valore del colore, a livello tonale e timbrico, come artista, la induce a individuare, prima della loro notorietà internazionale, fotografi che lo hanno adottato come medium espressivo in tempi storicamente precoci. Al quarto decennale della sua attività critico-curatoriale, la Fondazione Ugo e Olga Levi celebra, nel 2019, il significativo anniversario con la rassegna e il libro “Memory for the Future – 40 anni di Ikona Gallery a Venezia”. L’esercizio di una valutazione critica quarantennale ha fatto storia intorno al nome di Živa Kraus, in una città internazionale come la Serenissima, che ha visto selezionati in galleria alcuni nomi come Abbott, Basilico, Batho, Beato, Berengo Gardin, Bevilacqua, Dabac, Davidson, de Meyer, Doisneau, Fontana, M. Franck, Freedman, Freund, Klein, Levitt, Model, Monti, Morgan, Music, Naya, Newton, Pedriali, Scianna, Solomon. Emblematica, dal punto di vista visuale, è la scelta del termine Ikona fatta da Živa Kraus per la sua Photo Gallery, implicando la parola greca Eikón/Immagine una doppia lettura i cui referenti sono la teoria formalista wölffliniana, riconducibile all’iconografia, come momento descrittivo-rappresentativo dell’immagine, e la teoria panofskiana, evoluzione storico-critica del pensiero di Aby Warburg, riferibile al sostrato socioculturale iconologico, inteso come momento interpretativo dell’immagine, in cui agirebbe, come intermediario, tra lo sguardo e l’opera d’arte, l’elemento della psiche, che Erwin Panofsky chiama in tedesco Seele, ovvero lo spirito, l’anima.

Živa Kraus artista contemporanea

Ritengo ancora fondamentale, nella lettura di Živa Kraus come artista contemporanea, far emergere nella sua opera quella componente pulsionale, istintuale, casuale talvolta, performativa spesso, che prende le distanze da una condizione mimetico-rappresentativa, illusionistica, per individuarsi, al contrario, in una forza d’urto immediato, in un presentarsi  fattuale, attuale. La sua pittura, è atto di resistenza, ricorrendo alla teoria deleuziana, ma anche atto di esistenza, richiamando in causa il nome che le è stato dato.
La sua componente antinarrativa e anti-descrittiva, la sua scritturalità antisemantica, non impedisce tuttavia la percezione delle condizioni aeree, liquide, materiche, dei suoi paesaggi della memoria e della mente. Orizzonti di luce sul pelo dell’acqua, paradossali abissi notturni della superficie, fasci di intrichi lineari, indici grafici di profondità, stratificazioni cromatiche ad alta vibrazione ottica, icone del sinuoso, del serpentino, dell’affermazione e della cancellazione, canti pittorici risonanti per le orecchie di Marc Chagall: tutte tracce che presentano la loro realtà duale all’osservatore. Lo aveva lucidamente percepito, presentando con un saggio una sua mostra, lo scrittore italiano Alberto Moravia, che di lei scrive «Živa Kraus è una realista dell’invisibile proprio come Courbet e Guttuso sono realisti del visibile, 1979». Di un’affermazione analoga è autore Francis Bacon rispetto alla pittura di Lucian Freud di cui avrebbe detto: «sei un realista senza essere reale». Živa Kraus non si racconta al mondo, vi accade con una forza di natura inequivocabile, che non è la narrazione di se stessa, ma l’accadere di una forte presenza sospesa, senza soluzione di continuità, tra apparizione e sparizione. È persona dotata di un carisma identitario che ha impresso il suo segno, la sua indelebile impronta nell’arte e nella storia. Questa artista porta, nella sua opera, la percezione di una Venezia che è vitalità dell’ombra tra le ombre. Di questo è fatto il suo autoritratto del 1966, scelto quale invito alla presente mostra personale intitolata Živa Kraus. Unica. La sua esile figura è ombra sospesa nella luce del tratto pittorico, prossima a dileguarsi tra il contorno lineare della sua nera silhouette e il fondo fluido ocra dorata. Alle parole di Paul Klee «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore» l’artista veneziana/zagabrese risponde con le sue relazioni magiche tra forme e segni in cui il colore è il farsi luogo dell’esperienza vitale. Come la verità dell’essere, nella filosofia di Emanuele Severino, così l’arte, per artisti e amatori, è da sempre per sempre. «Venezia  – scrive Živa Kraus – non ci può dare la sua bellezza. Io la guardo sempre da sopra e da sotto e la vivo come la cima in luce di una piramide che di fatto è sott’acqua».

Živa Kraus. Unica 
Marina Bastianello Gallery
Venezia-Mestre