Breve storia del mondo e dell'umanità, da un'idea di Andrea Guastella, foto Laura Veschi

Vedi Portici e poi muori

Dal 3 maggio al 3 luglio presso la Reggia di Portici è in corso ONYRIA. Surrealismo di Ordinaria Contemporaneità, a cura di Michele Citro, con opere di oltre quaranta artisti contemporanei.

“Vedi Napoli e poi muori” non è un proverbio riciclato da un tifoso biancoazzurro ma una citazione di Goethe, per cui Napoli era così bella che il visitatore dopo averla conosciuta poteva anche morire in pace, perché la contemplazione del bello che si prova nel guardarla è una sensazione così profonda e intensa da riempire l’esistenza.

La stessa cosa, almeno sino all’Ottocento, poteva dirsi di Portici, se Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia decisero di costruirvi, nel 1738, la loro villa estiva, alla cui edificazione lavorarono Canevari, Medrano, Vanvitelli, Fuga, Canart, Bonito, Re e Geri; un vero e proprio dream team di ingegneri, architetti e decoratori chiamato a interpretare un sito che si rivelò ben presto intriso di memorie: ad ogni scavo, qualche meraviglia del passato riemergeva alla luce. I reperti, provenienti dalle città sepolte di Ercolano e Pompei, furono così tanti da formare un museo, che divenne ben presto la meta privilegiata del Grand Tour.

Più avanti, le collezioni di archeologia furono trasferite a Napoli, ma senza che ciò costituisse un problema: dal 3 ottobre del 1839 Napoli e Portici vennero infatti collegate dalla prima linea ferroviaria italiana, una delle prime d’Europa. Un po’ più complicato raggiungere Portici in auto: avventurarsi oggi lungo la costa significa imbattersi in una fila interminabile di case, rifiuti, inquinamento. Chi, dopo un tale trattamento, si accosti ai cancelli della reggia, non è affatto predisposto alla bellezza del sito. Che perciò appare, a maggior ragione, assoluta e sfolgorante.

Sollecitato da questa sorta di naturale straniamento, che fa della reggia un sogno a occhi aperti, costellato di visioni, Michele Citro vi ha organizzato ONYRIA. Surrealismo di Ordinaria Contemporaneità: la collettiva d’arte contemporanea più spontanea, ma niente affatto ovvia, che si possa immaginare, in cui gli artisti coinvolti (Elia Alunni Tullini, Annalisa Apicella, Luigi Citarrella, Alessia Forconi, Ignazio Fresu, Marco Fusco, Alessandro Guerriero, Marco Manicardi, Fulvio Merolli, Giuseppe Negro, Giuseppe Palermo, Nicola Pellegrino, Adriano Sambito, Corrado Sassi, Emanuele Stifano, Fernando Spano, Filippo Tincolini e Vinzela), per nulla appesantiti da un pesante e concettoso canovaccio curatoriale, hanno dato libero sfogo alla loro fantasia. Il risultato è una di quelle mostre che è quasi impossibile narrare.

L’unica installazione di cui, avendola ideata, posso parlare con contezza (a parte Alla ricerca di un ideale di Luigi Citarrella, che ho presentato lo scorso anno a Palermo a Palazzo Oneto di Sperlinga), è la Breve storia del mondo e dell’umanità di Filippo Tincolini, Fulvio Merolli e Alessia Forconi. Ciascuno dei tre è intervenuto presso la Serra dell’Orto Botanico con una singola scultura: lo Skykeeper (Guardiano del cielo) di Fulvio Merolli è una figura alata che si origina da un grumo di roccia. Il suo corpo contorto, bloccato in un gesto introspettivo, emerge dalla materia bruta sviluppandosi in forme nette e levigate, sino a dispiegare ali composte di una sostanza non volumetrica ma grafica, solo ideale. In 500 ore di Venere di Alessia Forconi – un busto di gesso affacciato su una vasca ricolma di petrolio –, la donna che si specchia è un’immagine dell’umanità al cospetto del disastro ecologico che essa stessa ha provocato; viviamo come se non facessimo parte di un unico mondo, quasi vi fosse una disconnessione tra ogni individuo e ogni elemento, quando invece ciò che facciamo qui e ora ha conseguenze nei posti più lontani e disparati. L’uomo prende dal proprio Habitat qualunque cosa, ma non restituisce mai nulla di buono, al massimo scarti dannosi. Questo inaridimento emotivo, questo impoverimento interiore, prende forma a poco a poco. Perciò lo sguardo di Venere è lo stesso di Narciso: uno sguardo offuscato. Vedendo la bellezza della propria immagine replicata nella ricchezza del petrolio, Venere non si rende conto del pericolo che corre sinché non vi è più nulla da fare per evitarlo. Distratta, come Narciso, dal suo gradevole riflesso, finisce per assorbire il male di cui è lei la prima causa. E diventa indistinguibile da esso. Spaceman di Filippo Tincolini vuole infine creare un contrasto tra la corsa allo spazio e il potere intrinseco della natura. Ci propone una natura vincitrice e che si riappropria dei suoi spazi, anche di quelli più inattesi: la tuta dell’astronauta è in posizione eretta, quasi il suo ospite fosse lì per intraprendere la prossima missione, ma l’astronauta non c’è più; al suo interno, magari nutrendosi della sua linfa vitale, sono spuntati dei fiori. Insieme le tre sculture, e la struttura che le accoglie, sono una sintesi sognante – come il titolo dell’istallazione, ironico almeno quanto altisonante, suggerisce – della storia universale. Un racconto in cui il passato il presente e il domani si sono attivati persino in fase di montaggio: nello smuovere il terriccio della serra per collocarvi le statue di Fulvio e di Filippo, sono venuti alla luce cocci, frammenti di Ercolano…

Domani, chissà, anche le brutture antropiche recenti che circondano la reggia saranno rovine, lasciandola risplendere come una gemma solitaria. Nel frattempo, insieme agli artisti di ONYRIA, non ci resta che sognare.

Vedi Portici e poi muori.