Tu mi chiami a compiere un atto d’amore è un progetto corale, multiforme, partecipativo che nelle sale di Palazzo Vizzani, nel centro di Bologna, sede di Alchemilla, vede, sino al 28 maggio, la compresenza di ricerche e pratiche artistiche che abitano lo spazio in maniera empatica, nella ricerca continua di un dialogo tra artisti e pubblico, in una tensione costante che riflette, attraverso le opere, su alcuni elementi del nostro tempo, indagandone le prospettive meno ovvie, secondo le visioni di Nicola Bianco, Riccardo De Biasi, Camilla De Siati, Kenny Alexander Laurence, Rebecca Momoli e Marco Resta. Per Segnonline abbiamo incontrato il giovane curatore, nonché artista, Kenny Alexander Laurence.
Azzurra Immediato: Tu mi chiami a compiere un atto d’amore è il titolo della mostra ospitata da Alchemilla, a tua cura. Quali sono i riferimenti primari a cui questa titolazione rimanda e quali gli altri livelli di riflessione?
Kenny Alexander Laurence: Il titolo è stato un’idea di Rebecca Momoli, una delle artiste in mostra. Rebecca ha una sensibilità particolare rispetto alla parola e all’enunciato e quando mi ha proposto questo titolo abbiamo capito che coinvolgere il pubblico in una dimensione partecipativa chiamandolo direttamente poteva essere un’apertura forte della mostra oltre che diventare un po’ lo slogan di una pratica adottabile anche al di fuori di essa. Il titolo si pone dunque come un enunciato performativo e attiva così un meccanismo (paradossalmente) volto ad innescare la rinascita di una dimensione in cui l’emotività è costituente e generativa come alternativa alla narrazione contemporanea che la vede come caotica, distruttiva e come una forza che spinge all’asocialità. Dunque in questa chiamata a raccolta aperta c’è l’intenzione di proporre un vero e proprio atteggiamento, un’attitude relativista. Mi viene da dire, anche se forse è un po’ forzato come pensiero, che la mostra sia stata un pretesto per creare uno spazio fisico e cognitivo in cui, attraverso immagini e suggestioni, abbiamo proposto questa intenzione di riscrivere i modi in cui le tessiture sociali possono esistere. Dunque il titolo è in parte enunciato e in parte manifesto di un atteggiamento che credo essere decisivo per la società contemporanea nel suo divenire.
A.I.: In che maniera Tu mi chiami a compiere un atto d’amore si è rapportata con lo spazio di Alchemilla e in che modo hai immaginato potesse esserci interazione tra opere, spazio e pubblico?
K.A.L.: Lo spazio è stato sicuramente complicato da approcciare. É stata la prima volta che ci siamo approcciati ad un palazzo storico del genere e in queste modalità, perciò Il processo non è stato immediato come lavorare in un white cube, ma allo stesso tempo ha dato l’opportunità di vedere le opere contestualizzate nello spazio non solo come oggetti, ma anche come immagini in senso più ampio. Alcuni scorci tra una sala e l’altra sono volutamente scenici, mentre altre transizioni vanno nel buio o nella nebbia. É stato un gioco interessante capire cosa tenere e cosa cancellare dello spazio per lasciare che le opere esistessero nella loro dimensione potenziale più accesa. Inoltre alcune opere si sviluppano proprio come ambienti, dunque lo spazio è, a tratti, diventato una vera e propria estensione della mostra. Questi ambienti sfidano il pubblico ad articolarsi nelle sale in maniera intelligente. Ad esempio nell’opera di Nicola Bianco è necessario camminarci dentro e contestualizzarcisi. Marco Resta invece priva il publico di una sala che chiude con segno grafico di luce rossa e adatta la sua performance, estesa all’intero di tutto il palazzo, all’interazione diretta col pubblico. Dunque in un certo senso, per ritornare al titolo della mostra, abbiamo chiamato il pubblico a compiere un atto d’amore primo nel contestualizzarsi negli spazi della mostra in modo da tessere direttamente, in un discorso corale, possibilità nuove di relazionarsi in termini sociali attraverso una serie di esercizi legati proprio allo spazio.
A. I.: La serata dell’opening è stata caratterizzata anche da diverse performances, parlacene qui, per i lettori.
K.A.L.: Le performance che si sono svolte durante la opening della mostra sono state due: HEARTLESS di Marco Resta e SPIT ON THE FEAR di Camilla De Siati. Come ho anticipato precedentemente Marco Resta mette in scena un’azione che si mescola con i pubblico e si estende per il palazzo intero. Sette performer, lui incluso,vestiti con un abbigliamento Goth si distribuiscono per lo spazio e muniti di occhiali da sole, cuffie e iPhone guardano rispettivamente un film horror di una lista che Marco ha curato. Un richiamo ad un estetica specifica, quella dell’horror degli anni ’80 e ’90 in cui la costante è la presenza del mostro. Questa è una figura che generalmente si presenta come asociale e caotica e sempre mossa dall’emozione più che dalla logica convenzionale, ma Marco convoca queste figure perchè è proprio questa idea di emotività come schizoide che necessita di essere risignificata.
Camilla De Siati invece costruisce uno scenario, un paesaggio e un dispositivo per la lettura e ci inserisce Giulia Terminio, una talentuosa performer con la quale collabora da tempo. Gli eventi della performance si contestualizzano, con un riferimento esplicito a Teorema di Pasolini, nel cratere di un vulcano che Camilla costruisce con il sale e che colloca in una sala nebbiosa. Il secondo riferimento è ad Artaud con l’idea del ribaltamento degli organi. In questo scenario la performer interpreta un testo che narra delle fasi di una metamorfosi che si scandisce attraverso pose iconiche attraverso le quali si riordinano proprio gli elementi del corpo in conformazioni nuove. Un’Ode alle possibilità di rinascita del corpo femminile.
Entrambe le performance, proprio per la loro natura, si sviluppano attraverso le dinamiche con il pubblico. HEARTLESS con i performer che, sia come display viventi, che come elementi di disturbo, si rapportano in maniera diretta con il pubblico, mentre SPIT ON THE FEAR fa leva sulla suggestione del pubblico attraverso l’immersione in un paesaggio specifico e l’immedesimazione con la performer nel suo rimescolamento. Due modalità performative che hanno attivato la mostra ed il pubblico in maniere complementari arrivando ad esaudire, forse nella maniera più concreta, il nostro desiderio di comunicare con il pubblico in maniera diretta senza mediazioni riduttive.
A. I.: Ogni ricerca dei differenti artisti presenti, pur nella diversità, è legata da un fil rouge importante. La tua presenza, poi, è stata sia quella di curatore del progetto che di artista. Come si è svolta questa doppia trama e come ti sei relazionato con gli altri artisti sia mediante la pratica curatoriale che quella artistica?
K.A.L.: Come ho anticipato nella risposta alla prima domanda, la mostra si è sviluppata in maniera molto organica all’interno del collettivo, la cui conformazione è stata specifica per questo progetto. Questa è la modalità che portiamo avanti con Slug: l’idea di un collettivo aperto ed amorfo capace di riconfigurarsi in funzione dei progetti che desideriamo realizzare. Allo stesso modo anche i progetti si adattano in risposta alla formazione del collettivo e in questo caso specifico abbiamo avuto l’opportunità, grazie ad Alchemilla e agli sponsor che hanno finanziato il progetto, di sperimentare in libertà sia artisticamente per le singole opere, inedite e realizzate specificamente per questa mostra, che nella curatela.
Ognuno ha apportato qualcosa di integrale alla realizzazione della mostra, ad esempio Rebecca Momoli con il titolo e Nicola Bianco con l’idea del rosa e delle sue gradazioni come identità visuale unificante. Inoltre è importante specificare che partiamo da un rapporto di amicizia e di fiducia reciproca tale da permettere un influenzarsi tra di noi mantenendo sempre i rispettivi focus sulle proprie ricerche specifiche. Siamo o siamo stati tutti studenti alla NABA di Milano, quindi partiamo da una formazione comune che è incentrata proprio sull’idea che il confine tra artista e curatore sia più una sfumatura che un confine netto. Credo che oggi l’idea del curatore sia a tratti più eroica di quella dell’artista. Il curatore si pone come maestro interprete di opere che risultano inaccessibili senza il suo apporto teorico e discorsivo ed è dunque esso che, con la spiegazione, impartisce un aura di mistero alle opere stesse. Credo quindi che un’artista, debba essere capace di contestualizzare il proprio lavoro come se fosse il curatore della sua pratica per liberarsi da questi rapporti spesso conflittuali con la curatela e in senso più ampio anche il mercato dell’arte. Chiaramente questo non vuole essere un discorso generalizzante, ma nel mio caso specifico l’approccio è questo. Inoltre, parlando in termini più personali, io sono un artista e semplicemente mi affascina l’idea di restare immerso nei discorsi contemporanei e di partecipare. Il lavoro di curatela mi permette questo, quindi la vedo come una metodologia di studio funzionale alla mia pratica artistica. Inoltre, come si può capire dal testo che apre la mostra, credo che sia necessario attivarsi per risignificare le sovrastrutture della società contemporanea e un’approcciocuratoriale e teorico lo vedo come un’altra dimensione attiva nella quale contestualizzarmi per agire nei miei intenti.
A. I.: Nicola Bianco, Riccardo De Biasi, Camilla De Siati, Rebecca Momoli e Marco Resta, sono gli altri artisti protagonisti di Tu mi chiami a compiere un atto d’amore. Quali sono i punti nodali delle loro poetiche e delle opere che hai voluto in mostra?
K.A.L.: Mi permetto di specificare subito una cosa: io non ho voluto, o al contrario rifiutato opere. La struttura della mostra è nata da un discorso corale al quale ho partecipato in maniera specifica con le mie capacità organizzative e comunicative. Inoltre avendo già familiarità con Alchemilla e Palazzo Vizzani mi sono posto da tramite tra esso ed il collettivo. Diciamo che mi sono posto più come una figura strumentale alla riuscita di un desiderio comune.
Per quanto riguarda gli artisti e le loro rispettive ricerche e pratiche ho avuto la fortuna di seguirli come amico nelle loro attività e provo un grande rispetto ed interesse verso ognuno. Per introdurli cito le brevi descrizioni che ho inserito nel foglio di sala della mostra:
Nicola Bianco si esprime secondo una poetica di gesti delicati permeati di un misticismo naturalistico esistenziale. È una comunicazione per versi poetici che hanno come forza generatrice la necessità di sublimare il trauma tramite gesti di dolce eversione e di apertura verso l’altro. La poesia diventa paesaggio: luoghi temporanei anticamere di condizioni interiori con le quali è tanto possibile ingaggiare dialoghi quanto duelli.
Riccardo De Biasi narra per sincretismi un’Italia anacronistica, futura ma già vissuta, ricca di un immaginario vernacolare punk che ha come capitale Borgo Africa: una località seminventata del Pordenonese. Osserva la performativitàeliogaballica e la rende soggetto di uno studio archeologico immaginifico dai cui scavi emergono disegni, fotografie, feticci, ceramiche e giocattoli che raccontano tanto delle gioventù contemporanee quanto di quelle passate.
Rebecca Momoli, armata di parola, innalza inni, statement politici e versi poetici di lotta. La pelle nuda si marchia di frasi che diventano anticensure, l’oggetto si fa verbo concreto e diventa un’arma brandita contro i sistemi patriarcali che ci hanno lasciatismatriati. I diritti di proprietà del corpo femminile e dell’immagine di esso vengono interrogati ibridando la memoria collettiva con quella individuale e il monumento diventa un’immagine mordace non conservatrice, bensì distruttiva.
Marco Resta indaga la mascolinità guardandola come un negativo fotografico. Il suo sguardo inverte le gerarchie, i rapporti padre-figlio e gli attributi fisici classici del maschio trasformandolo in oggetto feticcio e rappresentandolo servile al suo stesso depotenziamento. Il corpo si annienta e si riduce ad attività metaboliche distorte che percuotono cacofonicamente ed increspano la membrana nera lucida che le contiene: un’uniforme notturna che, come un costume, si fa vessillo di un’epoca senz’ordine.
Camilla De Siati transita per l’onirico alla ricerca di simboli, forme e schemi visuali per poi centrarsi nella cruda fisicità del corpo femminile e le capacità espressive e narrative di esso. Esercita l’emancipazione del corpo e della voce tramite coreografie che ricontestualizzano il corpo stesso all’interno dell’azione, come se questa fosse uno spazio da abitare; una ricerca spasmodica mossa dalla necessità di costruire un corpo nuovo. Dal singolo alla coralità questa metamorfosi si scandisce per immagini di corpi che si rimescolano e con il potere del moto e della voce rinascono.
A. I.: Cosa credi lascerà nel pubblico bolognese e non solo Tu mi chiami a compiere un atto d’amore?
K.A.L.: Mi piacerebbe che Bologna ritornasse un luogo acceso, vivo ed impegnato. Non che ora non lo sia, ma sono cresciuto con i racconti dei miei genitori e della loro generazione e ho l’impressione che Bologna sia andata man mano mansuefandosi. Questa mostra ha voluto essere una scintilla con la speranza che Bologna prenda fuoco e ricominci a bruciare dell’energia che fino ai primi anni 2000 l’ha resa una città magica e centrale per tanti discorsi alternativi alle grandi narrazioni.
In termini più personali, ho semplicemente voluto partecipare alla tessitura Bolognese. La mia collaboratrice e amica Lucia Russo Thomson ed io abbiamo deciso portare il lavoro che abbiamo fatto negli ultimi anni fuori dalla città (Londra e Milano rispettivamente) per arricchire la città nella quale siamo cresciuti. Riprendendo il titolo, questa mostra è stato il nostro atto d’amore verso una Bologna che ci chiama e noi con questa mostra l’abbiamo chiamata a nostra volta. Con Slug, che è una realtà internazionale, desideriamo realmente partecipare e aprire Bologna al mondo e questo è stato un primo momento di un piano più grande al quale continueremo a lavorare assiduamente.
Archetipi, paradigmi, visioni e prospettive si tramutano in ‘Tu mi chiami a compiere un atto d’amore’ al pubblico il compito di agire…
Tu mi chiami a compiere un atto d’amore
A cura di: Kenny Alexander Laurence
Promossa da: Alchemilla in collaborazione con Slug
Periodo: 5-28 maggio 2023
Sede: Alchemilla | Palazzo Vizzani, via Santo Stefano 43, Bologna
Ingresso: libero
Orari: mercoledì h. 17 – 20; venerdì su appuntamento; sabato h. 10 – 13 e h.17 – 20.
Informazioni: info@alchemilla43.it | www.alchemilla43.it
Con il supporto di: Zunarelli – Studio legale associato
Si ringrazia: Banca di Bologna
Ufficio stampa: Irene Guzman | irenegzm@gmail.com | +39 349 1250956