Accade che una nota fotografa palermitana effettui uno shooting per una altrettanto nota casa automobilistica bolognese (di proprietà tedesca).
Accade che le fotografie facciano il giro (dei gironi) dei social, Facebook in primis, tra post, commenti, condivisioni e variopinto bla bla bla.
Accade che – ed è ovvio – l’opinione pubblica si divida in pro e contro. I contro, odiosamente, ferocemente, gridano allo scandalo per via della presenza delle bambine, per l’accostamento tra una fuoriserie prodotta da una multinazionale e il barocco cittadino, per la qualità delle foto, ma senza argomentare alcunché. I pro, da vittime, rispolverano il cilicio e, allo stesso tempo, la storia artistica della fotografa, giudicando ignoranti chi non apprezza, rivendicando libertà di espressione, avanzando, su quegli scatti, analisi semiotiche che… dài, lasciamo perdere.
Accadimenti a parte, per una polemica di provincia, di una provincia che incide poco o niente sul piano artistico di una Penisola pericolosamente decomposta, il trofeo va come al solito al vuoto, allo spettacolo della rissa, all’ignominioso disorientamento culturale, tipico d’oggi, in cui si fa fatica a rintracciare il valore delle cose utili, malgrado il periodo storico lo richieda.
Se posso permettermi di aggiungere una nota personale, ciò che mi dispiace è che Palermo, fresca dell’esperienza di Manifesta 12, e cioè del messaggio di Gille Clément – quello del Giardino Planetario, per chi l’avesse dimenticato –, non ha recepito nulla. Proprio nulla. Ma a che serve, ‘sta arte? Lo chiedo con rammarico, perché mi assalgono parecchi dubbi sulla sua reale funzione.