Centrale e sapiente sono stati il ruolo e il lavoro del curatore e direttore Wayne McGregor (Stockport, Gran Bretagna, 1970), coreografo pluripremiato, alla sua seconda edizione consecutiva che, quest’anno con la scelta del titolo Boundary-Less, ci (di)mostra come la danza sia un linguaggio universale senza confini, che opera nelle diverse arti accomunata a esse dallo studio del corpo e dei suoi movimenti nello spazio. Senza dimenticare che la disciplina ha come obiettivo primigenio quello di oltrepassare i limiti del corpo, per il ballerino, e della parola, per lo spettatore. Unendo da sempre culture diverse, generando nel suo processo creativo un senso di comunità, coinvolgimento, identità, e superamento del disagio, a chi vi partecipa ma anche a chi vi assiste. McGregor ci propone una ricerca collettiva che sfruttando la danza ci fa riflettere sulla percezione e sulle esigenze del (nostro) corpo contemporaneo indagando senza confini gli altri linguaggi, con spettacoli live, installazioni, performances, una mostra fotografica, una giornata dedicata a molte videoproiezioni, una scuola di formazione (la Biennale College Danza), con stage, workshop e show dedicati, ma anche numerose inedite collaborazioni, e conversazioni, che hanno permesso al pubblico di dialogare con chi, qualche minuto prima, si stava esibendo per lui.
Per McGregor “fare arte” è già un superamento dei confini. “Un modo per re-immaginare. Una nuova modalità di pensare, nella quale l’arte, quindi, è forse lo spazio che sta nel mezzo di tutte le possibili soglie. I lavori e gli artisti di questo secondo anno non sono catalogabili, sfuggono alla singola definizione, in quanto trascendono il genere e il mezzo espressivo con cui lavorano. Il loro essere senza confini apre nuove strade al fare arte e offre al pubblico sfide inedite in materia di percezione e interpretazione”. Il suo lavoro d’altronde affonda le radici nella danza, come espressione di molteplici ambiti tra cui la tecnologia, le arti visive, il cinema, e l’opera. Tutti temi indagati singolarmente, in modo inedito, dai più grandi interpreti delle diverse scene e dei diversi stili, restituendoci tendenze e suggestioni inedite o finalmente mature.
La Biennale Danza 22 inaugura il suo fitto programma di 42 appuntamenti il 22 luglio, con l’apertura al pubblico, nelle Sale d’Armi, dell’installazione scenica digitale di Tobias Gremmler, intitolata Fields, che si spinge oltre i limiti dello spazio reale giocando con corpi sospesi in un processo di fusione; e la mostra fotografica Artist in Residence 2021 con gli scatti di Indigo Lewin che cattura corpi inzuppati di sudore e calzini logori, comunicando l’essenza fisica della danza. A inaugurare il Festival invece è l’atteso spettacolo in anteprima di Saburo Teshigawara (premiato con il Leone d’oro alla carriera) intitolato Petroushka,che coinvolge tutti materializzando il tormento umano e “il dolore che sentiamo dentro agli occhi” mediante una bambola alla continua ricerca della bellezza. Nelle serate a seguire, sul palco la danza ha dialogato con un fenomeno in rapida ascesa, la realtà aumentata, grazie a Blanca Li con Le bal de Paris, spettacolo vincitore del premio come Migliore esperienza VR alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, che ci invita ad assistere, ma anche ad esibirsi, interagendo dal vivo con i danzatori. Tra le tendenze (sub)culturali troviamo la consacrazione del genere Vogueing, con Maggie the cat di Trajal Harrell, una danza di strada che vediamo sempre più spesso esplodere nei social, espressione di comunità tra i giovani americani, e che prende movenza dal mondo della moda e della passerella imitandone i movimenti secondo l’atteggiamento queer. Sempre tra le espressioni d’identità troviamo la compagnia interculturale Marrugeku, artisti australiani indigeni e non, che con Jurrungu Ngan-ga / Straight Talk (parlare chiaro), si esibiscono in un grido di libertà per l’abolizione di tutte le forme di violenza, di confinamento e di ingiustizia. Fo:NO di Diego Tortelli, vincitore del primo concorso dedicato dalla Biennale alla coreografia italiana, invece ci fa entrare nel corpo per un esperimento sonoro e viscerale in cui si mescolano beat boxing (con 120 microfoni in scena) e politica, alla ricerca d’identità per ovviare alla perdita di caratterizzazione che ci riguarda. Di forte impatto contemporaneo sono anche i visionari MacArthur Fellow Kyle Abraham e la pionieristica produttrice/compositrice di musica elettronica Jlin, che hanno unito le forze per creare una rivisitazione della partitura del Requiem in re minore di Mozart attraverso temi astratti quali la vita nell’aldilà, la reincarnazione, la mitologia e il folclore, con uno spettacolo che tocca la tradizione e si rinnova per noi, con musica elettronica, movimenti contemporanei, ma raccontando tematiche ataviche come il rito e la rinascita. Un esempio di quanta preparazione e visione ci vogliano per una rivisitazione di repertorio ben riuscita e coerente. Tra gli spettacoli in anteprima mondiale e le novità europee e italiane troviamo primo fra tutti, Seven Sins un progetto che si basa sulla collaborazione di sette importanti coreografi di fama mondiale, chiamati a trasformare ciascuno un peccato capitale, in un’opera di Gauthier Dance//Dance Company Theaterhaus Stuttgart. Il risultato è uno spettacolo che consiste in sette prime italiane firmate rispettivamente da Aszure Barton, Sidi Larbi Cherkaoui, Sharon Eyal, Marcos Morau, Sasha Waltz, e dai due coreografi associati di Gauthier Dance//Dance Company Theaterhaus Stuttgart: Marco Goecke e Hofesh Shechter. Rocío Molina con Carnación parla della capacità mistica del corpo di (ri)creare immagini di un passato che non riusciamo a comprendere. Sempre legato all’atmosfera atavica e mistica, da vedere e conoscere calorosamente, infine è la compagnia Humanhood di Ridu Cole e Júlia Robert, per la prima volta in Italia, porta in modo inedito il misticismo orientale e sciamanico grazie al Teatro Meditazione, con lo spettacolo ∞ {Infinite}.
Citare tutto e tutti quest’anno è davvero impossibile. Chiamati a superare i confini dell’immaginario e di noi stessi in questi ultimi due anni di pandemia e lockdown, abbiamo modificato la nostra resilienza e la nostra percezione, e i risultati si vedono. Un pubblico gremito, entusiasta, e in grado di cogliere e apprezzare davvero tutte le proposte, anche quelle ultra contemporanee o di nicchia che Wayne McGregor non ha avuto timore di presentare. L’attenzione che c’era, e la voglia di tornare a teatro senza i limiti fisici e concettuali, sono stati poi il tocco che ha completato l’opera.