Il film Pink Floyd a Pompei è uno dei più travagliati della storia del rock. I Pink Floyd stessi ne hanno sempre parlato con un certo disappunto, probabilmente a causa di royalty mai pagate. E tuttavia esso costituisce una testimonianza imprescindibile del passaggio dalla loro prima maniera all’età più matura: quella, per capirci, di album come The Dark Side of The Moon, uno dei più venduti della storia, la cui lavorazione coincise con la lunga gestazione del film. Non a caso, di Pink Floyd a Pompei esistono due versioni: la prima, del 1972, dove sono presenti solo brani precedenti l’uscita di The Dark Side of The Moon, da leggersi come un addio dei Floyd al loro vecchio repertorio, e la seconda, del 1974, ospitante alcuni spezzoni (On The Run, Eclipse, Us and Them, Brain Demage) dei brani che costituiranno l’ossatura dell’album più amato dai lunatici di tutti i tempi e luoghi. Quest’ultima versione fu rimasterizzata e arricchita di immagini, con la benedizione del gruppo, nel 2003. Ed è appunto a tale film registrato, almeno idealmente, sul lato oscuro della luna che, nel cinquantesimo anniversario di The Dark Side of The Moon, un pugno di artisti invitati da Michele Citro e da Andrea Guastella presso Palazzo Mezzacapo a Maiori,ha reso omaggio: un omaggio che va esteso ai luoghi senza tempo della Campania in cui i Floyd hanno scelto di suonare e, per esplicita richiesta di alcuni di loro, a The Wall, l’ultimo album che vede i Floyd nella formazione post Barret al completo. A The Wall, per chiudere idealmente il cerchio con un muro surreale, sono dedicate due delle opere presenti nella mostra, visitabile dall’8 luglio all’8 ottobre 2023. “Dedicare” non è però, a ripensarci, il verbo più appropriato. Tutti i lavori della rassegna, affermano i curatori, “nascono infatti indipendentemente dalla musica dei Floyd; molti di essi, ma non tutti, sono già stati presentati in occasione di Onyria. Surrealismo di ordinaria contemporaneità, visitabile presso la Reggia di Portici sino al 3 luglio 2023”. L’idea di collegarli, di farli in qualche modo interagire, è nata da un colloquio tra Michele Citro, curatore della prima rassegna, e Andrea Guastella, che hanno pensato di mettere in atto il disegno originale di Adrian Maben, il regista di Pink Floyd a Pompei, il quale nel 1971 aveva provato ad accostare brani dei Floyd ad opere di artisti contemporanei come De Chirico o Magritte. L’idea, a quell’altezza, non era piaciuta ai musicisti: la loro creazione rischiava di sembrare il commento a quei dipinti. Ci sarebbe voluto, per convincerli, l’anfiteatro di Pompei, dove eseguirono dal vivo capolavori come Echoes, One of These Days o Careful with That Axe, Eugene. E quale spazio più adatto di Palazzo Mezzacapo, col suo corredo di giardini e giochi d’acqua, per ripetere l’idillio? Così, anticipando di pochissimo la mostra sui Floyd organizzata dallo studio Hipgnosis del visual designer della band Aubrey Powell, ospitata nelle sale interne della “reggia” di Maiori dal 25 luglio al 27 agosto, le fontane e l’androne della storica dimora si fanno cassa di risonanza e specchio di una narrazione aperta, il cui unico intento è stimolare nel visitatore, allargando i confini del suo orizzonte percettivo, un senso di piacevole e leggero straniamento.
Se vi va, ha dichiarato Andrea Guastella, “provate ad ascoltare i brani di Pink Floyd a Pompei (e i due aggiunti da The Wall) visitando la mostra. L’orecchio di Emanuele Stifano vi ricorderà la copertina “aperta” di Meddle, con un orecchio immerso nell’acqua, ma soprattutto l’armonia imitativa di Echoes, con quel suono martellante dell’incipit che ripete il suo gocciare; la cavalcata di On The Run vi introdurrà alla corsa del tempo di The Dark Side of The Moon, esemplificata dai cicli lunari di Annalisa Apicella e imparentata con le sedie di Alessandro Guerriero, composte da elementi di diversi colori, come se il prisma che campeggia sulla copertina dell’album li avesse divisi; lo stesso prisma raffigurato, nella scultura di Fabio Bini, ora bianco ora nero, ora poggiante sulla punta ora sulla base naturale: The Dark and White Side of The Moon; le maschere di Gianluca Vietri e di Pierpaolo Di Giacomo rammenteranno ai floydiani più incalliti le quattro maschere, con le fattezze dei musicisti del gruppo, indossate dai sessionman che suonavano al posto loro nel concerto di The Wall riprese sulla copertina dell’edizione live dell’album, ma anche la sottile trama di sussulti e grida di Careful with That Axe, Eugene: una sequenza che Kubrik avrebbe potuto scegliere per Eyes Wide Shut; i vocalizzi senza spartito e le atmosfere lisergiche di A Saucerful of Secrets, uno scrigno di segreti da cui trarre cose nuove e cose antiche, si sposeranno alla perfezione con le mele di Marco Manicardi e i funghi di Nicola Pellegrino; l’Ofelia di Alessia Forconi e le sue mani rosseggianti di batteri richiameranno la fine del mondo di Eclipse; i legacci di Ignazio Fresu, privi come sono di mani che li reggano, accompagneranno i fraseggi di Us and Them in un dialogo impossibile con l’altro il cui esito finale è il raggelarsi, la violenza cieca o disperata (non a caso la musica fu composta per una scena di rivolta in un film di Antonioni); l’Angelus Novus di Fulvio Merolli, col suo sembiante vagamente apocalittico, tra il robot e il gargoyle, evocherà la minaccia semiseria di One of These Days – la minaccia, si intende, di finire sminuzzati in tanti piccoli pezzetti; i vagiti blues di Madamoiselle Nobs ricreeranno, come per incanto, il quadretto contadino, con il cane che abbaia alla porta e il bambino che riposa sul divano, di una bianca scultura di Luigi Citarella; la follia di Brain Demage farà a paio con quella dei fiamminghi di Corrado Sassi; le sculture metalliche e i frammenti di muro di Giuseppe Palermo faranno invece pensare a Set the Controls for the Heart of the Sun: all’esito inevitabile, la riduzione in frammenti, di un volo verso il sole; lo schiavo di Filippo Tincolini, col suo fiorire inaspettato, richiamerà ancora Echoes: il presente che si inoltra – riecheggia – dal passato; infine, la donna coloratissima ma col capo chino di Elia Alunni Tullini ricorderà la disperazione non più quieta di Nobody Home, un brano di The Wall, mentre l’anima purgante di Emanuele Scuotto, con le sue mani alzate in cerca di aiuto, restituirà alla mente la (residua) speranza di Hey You.
Vi ritrovate in questa specie di play list? Ne saremmo molto lieti. Ma anche se così non fosse, basta che i vostri sensi rinuncino alla loro separatezza e collaborino tra loro per creare un mondo nuovo: un Eden libero dalla schiavitù della paura (non dalla paura in sé, che a piccole dosi non fa male) e dalla fatica solitamente associata al lavoro. Un paradiso estivo di suoni, di forme e di colori che vi attende in ogni spiaggia e in ogni piazza di questa caldissima stagione. Buone vacanze a tutti!”