Un altro inutile articolo sulla fine dell’arte

…quando l’ultimo supermercato sarà vuoto,
e la tecnologia ci servirà per fare un fuoco, e la musica, la musica sarà un ricordo…

The Zen Circus, Canzone contro la natura

1. Il problema senza nome
Le condizioni sono talmente favorevoli che non è più necessario pensare, per scrivere un articolo. Prima di pensare, infatti, giungono violentemente così tante suggestioni che le parole affiorano sulla pagina bianca da sé, come nuvolette nerastre, simili a quelle che vagano nella stanza in cui conto i giorni del mio “isolamento”. 
Basta aprire i social o i quotidiani, leggere malinconiche idee virtuali che godono della grazia dei rifiuti in discarica, che scorrono su uno schermo sfiorato appena col dito, per raggiungere il samādhi. Basta dire ciò che tanti desiderano ascoltare, ma per infastidirli. Basta questo, senza aggiunte, per ammettere a se stessi simili parole: quello che sto vivendo è esattamente il mondo che immaginavo da bambino, un mondo privo di speranza e alla fine dei suoi giorni, malgrado i miei giorni siano (o desidererei che fossero) ancora all’inizio (e diversi). 
Nessuna avventura da sognare, nessun sentimento da consegnare alla storia, nessuna nuova alba morbida che affiori priva di rosee ansie sparpagliate su un paesaggio che ogni mattina appare più finto, più morto, più lontano dal futuro; soltanto la ripetizione forzata di un compito da svolgere dentro una condanna (in un certo modo) dovuta. Nessuna vera libertà d’espressione, in fondo, no? Chi oggi prova a essere libero, beh, rischia: rischia chi afferma che l’unica l’alternativa è rassegnarsi artisticamente (e dunque creare nuovi piani). Non rischia chi si attiene ai dati, seppure essi provengano dall’analisi di un problema senza nome, e da risposte superficiali come le domande. C’è qualcosa che sfugge, nella predicazione. Non c’è rischio. 

2. Quale corrispondenza sussiste tra l’arte e la nostra vita?
A chi non piace predicare? Piace, eccome. Chi predica avverte un piacere preciso, quello di chi sta su un altura e crede di catturare sotto i suoi piedi ciò che osserva con lo sguardo. Predicare — frase un po’ scema — è il predicato teorico del potere: la sua azione segnica fondante. Un’azione che spesso sfocia in un abuso, abuso di cui nessuno ha turbamento. E quando nessuno ha turbamento, l’abuso purtroppo diventa moralità. 
Ogni mattina, per esempio, mentre annaffio i miei peperoncini predico loro (inconsapevolmente) come dovrebbero crescere. Il mio predicare, insomma, non mira a rappresentare verso quale forma “fuori senso estetico” la foglia o il ramo stanno dirigendosi, ma agisce sulla foglia o il ramo affinché vengano “piegati” al mio interesse: la razionalità contro la spontaneità. 
Quando qualcuno intende predicare che l’arte oggi è in agonia, e si basa su un’oggettivazione specifica (l’arte nell’era pandemica), il suo predicare non è affatto rappresentativo; è, piuttosto, il tentativo di agire su ciò che crede sia mancante. Prima di predicare che l’arte non è più presente nelle nostre vite, sarebbe bene tentare di capire cosa renderebbe l’arte presente, magari inventando empiricamente un nuovo riferimento spontaneo ed extra-morale (laddove il turbamento svela): però nella corrispondenza tra vita e arte, non nella predica. Ovvero in quel qualcosa che sfugge. Con rischio. 

3. Il sistema dell’arte 
Rischiamo. Non so se hai letto “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono. È un gran bel libro. Racconta una storia interessante: come distruggere certe convinzioni su certe altre convinzioni. La convinzione più comune, lo sappiamo, è quella secondo cui dietro la spaventosa violenza della vita non ci sia che la violenza della vita. Cito un brano, che capirai soltanto se stai seguendo il filo del mio disarticolato discorso: «Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzéard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire*». 
Sì, certo, il libro racconta anche altro; e la mia sintesi, come molte sintesi, è riduttiva. Ma nasce da una banale domanda, che formulai quando terminai la lettura: se il protagonista del libro non avesse piantato alberi, Giono avrebbe scritto ugualmente il libro? Ci penso da giorni. E la risposta è più banale della domanda. 
Il protagonista del libro è simile a me, e a tanti me, nel 2021; un me che nota intorno una terra arida, e ha un’idea, una sola idea in mente: quella di curare il suo peperoncino. Il motivo lo capirò, non soltanto io, quando da quei peperoncini fioriranno metafore. E, bravo come Giono, sarò in grado di raccoglierle. Ops, di scriverle. 

4. Non dovrebbe essere così e basta
Tuttavia la realtà è diversa. L’umanità non ha voglia di rischiare, piantare alberi, annaffiare peperoncini. Ha voglia di violenza. E ce l’ha, la voglia, perché è stanca; e intende rispondere alla violenza che la vita, col suo nulla, le ha fatto. In questo periodo storico, che è il periodo in cui ognuno è la prova di se stesso, l’umanità ha scoperto il suo riposo (paradossalmente) nella moralità, puntando il dito consunto in ciò che è effettivamente violenza, ma sottolineando e arricchendo di contenuti ciò che non ha sostanza ed è ripugnante. 
Il male trova piena realizzazione nella sua inconsistenza, nel suo essere imprendibile e, addirittura – mi dispiace molto affermarlo – nel suo essere ingiudicabile: il male, individuato tale, non risarcisce mai (altrimenti per quale motivo mettiamo su carta le leggi e poi le applichiamo?). Il male ride. 
Ora, mentre quella violenza che l’umanità subiva dalla vita era, direi con cattiveria, una violenza della nostra natura per la nostra natura (sebbene schifosa!), la risposta alla violenza subita è inscritta nel castigo: l’umanità ha voglia, ecco, di farla pagare a tutti i costi, con rabbia, eccitandosi del dolore altrui (ma a chi vuole farla pagare, non s’è capito; forse alla vita, anche se non la nomina, anche se la nomina con altri nomi). Sì, la voglia di violenza non è voglia di riscatto attraverso l’educazione: è altra violenza, peggiore di quella spontanea e alla quale, spesso, siamo esposti perché «è così e basta». Mannaggia. Eppure cosa ci vuole a capirlo, che l’educazione è sempre extra-morale! 

5. Fine
Un altro articolo inutile sulla fine dell’arte è stato scritto senza pensare, come all’inizio preannunciato. Per fornire una fine alla fine, non possiamo accontentarci del cartello “The end” manco fossimo dinanzi uno scadente film: siamo (ancora) nel mondo. Diamo una scena, un’altra scena, come se la fine non ci fosse, come se la fine volessimo evitarla; o come se fosse la fine a non volerci, una fine che preferisce lasciarci da soli, a ucciderci a poco a poco. 
La scena. Questo periodo storico somiglia a un jukebox in uno stabilimento balneare, mangiucchiato dalla salsedine, che negli anni novanta se ne stava tra il biliardino e un tavolino in cui due ragazzini avevano consumato un gelato, una gassosa e il primo bacio. Somiglia a un jukebox grazie al quale, inserendo cento lire, è possibile ascoltare un tema. Uno qualsiasi, di cui non abbiamo nemmeno interesse. E non un tema musicale. Un tema del male. Per intrattenerci, spegnere il silenzio, allontanare l’imbarazzo di essere umani. E poi trarre una conclusione: la più carnale. 

*J. Giono, L’uomo che piantava gli alberi, Salani editore, p. 30. 

L’illustrazione, liberamente ispirata al racconto “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono, è di Flavia Dalila Gaia Cocca (in arte Voosa), docente di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Agrigento

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.