Gabriele Perretta, La-strada che porta alla Chiesa, Lisbona 2019

… tra timo-cromie

Chi non prende in mano, non può neanche afferrare.
Chi non entra con i piedi, non può neanche comprendere.

La calda estate scorreva lenta come lenti erano i pensieri di tutti. Intorno la campagna bruciava e diventava polvere. Angelo, Elias, Aura, Luciana e Anna passavano giorni di sole e di mare senza fare nulla di grande e di costruttivo, se non fissare e fotografare la facciata  e i soffitti di quella chiesa e di quella casa o di quelle case. 

Si accendevano i rancori mistici, le sospettose file di attenzioni cubiste, gli sguardi logici, si sviluppavano le forme di osservazione e le ottiche,niente veniva visto per come era,ogni taglio architettonico era ammesso, ogni soffitto era liberato dallo sguardo. Dalla fotografia di paesaggio a quella di monumenti il passo era breve, e ogni dilettante era tentato, nei suoi viaggi o nelle sue gite, di cimentarsi anche in questo genere, che però presentava qualche difficoltà quando si voleva riprendere le architetture con una certa esattezza cartesiana. Non sempre, infatti, è possibile far entrare nella lastra l’intero monumento o l’intero mondo, così come non è possibile far entrare la macchina nel mondo.Quando non è possibile allontanarsi sufficientemente dal soggetto, e non si possedeva un obiettivo grand’angolare che permetteva di abbracciarlo tutto, conveniva ricorrere alla cortesia di chi possiede una finestra alta a sufficienza per centrare il soggetto. Utilissimo sarà un apparecchio a lastre (o pellicole piane) che possieda lo spostamento dell’obiettivo, almeno in senso verticale. Non appena sorgono le immagini, l’obiettivo viene inserito con lastre e cioè in modo che sia possibile percorrerlo. Il sentiero in cui si entra con lo sguardo conduce prima di tutto  vicino  al centro e gira intorno ad esso più volte. Poi conduce sempre oltre, verso l’esterno. Oscilla avanti e indietro con una certa regolarità. Quasi sempre il sentiero dello sguardo descrive alternativamente a se stesso il cammino degli occhi. Solo quando si è giunti nella parte più esterna il sentiero si volge di nuovo all’interno, verso il centro. Poiché la Leica o le Rolleiflex non avevano lo spostamento dell’obiettivo, era nata la possibilità di prendere, delle architetture,scorci di sotto in su: scorci che, se in alcuni casi possono riuscire,non potevano certo avere la pretesa di dare una visione documentaria di quella facciata.  E’ vero però che l’occhio del dilettante difficilmente ambisce ad avere una visione documentaria di quella facciata, e che può, in tal caso procurarsi una bella cartolina illustrata. Occorreva, in ogni caso, studiare bene l’illuminazione del soggetto, e scegliere l’ora in cui la facciata poteva essere trascritta sulla carta, così come se fosse una trascrizione timica. 

L’uso di pellicole ortocromatiche o pancromatiche o ancora timo-cromatiche, adatte alla timo-cromia, e di uno schermo permetteva di rendere esattamente il colore di quell’edificio, la sua levigatezza, la sua grammatura, il suo taglio poetico, o di far risaltare la bianchezza dei gessi sullo sfondo del cielo. Questi sentieri di meditazione sulla facciata, però, vengono utilizzati all’epoca di quell’attimo di sguardo anche per qualcosa di molto diverso: come già in altro sguardo, diventano nuovamente “piste di vista” o sviste di pista, piste pestate di immagini, post appostati di sguardi, punti soffusi nell’ombra di un mistero. Immagini senza bordo. 

Pochi di loro potrebbero negare, oggi, che i bordi bianchi tutt’intorno alla fotografia, in realtà, altro non fanno se non distrarre l’attenzione di quella facciata a stampa o di quella stampa a facciata: e per la verità non sembrano avere altra funzione, “perciò tagliateli tranquillamente”: la facciata della foto parlerà da sé. La cosa migliore è usare una taglierina. Sé ben usata la lama da risultati anche migliori rispetto alla trancia di realtà. Se poi consideriamo l’economia di spazio, di sguardo, di una discreta trancia, di medie dimensioni, la scelta diventa quasi obbligata. Evidentemente dovrete disporre di una base, su cui poggiare lo spazio architettonico fotografato da tagliare: solo così eviterete di fare un salto nella realtà o di un altro spazio sul quale state agendo. Vi servirà anche una squadra per tagliare tutta la vista e compresi gli angoli. In alternativa, potete stampare le foto direttamente senza bordi e senza facciate. 

La mattina seguente, dopo la colazione, la tensione sale. Ci spostiamo verso Nord, superando Parigi e raggiungiamo, dopo tre ore di viaggio, Blanville. Raggiungiamo il centro della facciata, una pietra ottogonale bianca. Otto è il numero del nuovo inizio. Inizia la liturgia dell’osservazione. Mi giro per ripercorrere all’indietro lo stesso sguardo. Tutto ricomincia da capo, dietro la fine di ogni vista ne ricomincia un’altra. 

Tutti volevano aver ragione, ma la ragione ottica non era di nessuno perché la mente era stanca e non voleva affrontare altri problemi, altri tagli, altre visioni. C’era una volontà geometrica che aveva invaso gli animi, volontà che serviva a guardare in un solo modo, determinazione che sottostava alla macchina fotografica e orientava lo sguardo – come un taglio sottile – tra l’architettura spontanea e  la facciata di un neoclassico domestico. 

“Mi lascio il  soffitto alle spalle ed entro in un altro soffitto, in una casa che gioca con la luce come Bach con i tasti dell’organo. Eccoli di nuovo i segni del soffitto, il miracolo delle volte, il sorriso dell’angelo.”

Parlare di ognuno dei tagli seguiti, del proprio scatto come del proprio io è ineffabile; tanti occhi che ruotano intorno ad una sola facciata, ad un solo piccolo volume architettonico, senza accorgersi di un altro mondo che gira; rimirare una cappella paesana vista solo dall’esterno e che non sopporta neppure la disattenzione di altre presenze, perché più forte delle altre, è l’ineffabile! 

In un mondo fatto di una sola inquadratura o al massimo di una doppia inquadratura, tutto è normale. Cercare delle liriche è inutile, fare delle analisi è azzardato, meglio passare“osservatori inosservati”, coprirsi sul taglio architettonico e continuare il proprio punto di osservazione è esigenza di correzione. 

“Abbiamo incontrato una famiglia di sguardi e ci andiamo. Li troviamo nascosti vicino a un luogo di un non-luogo, cinti da una filiera di disegni immaginari. Stanno lì, privi di una relazione irriconoscibile con l’ambiente circostante, e il primo commento del Gruppo di famiglia è: 

“Cosa, tutto qui?”

“Si erano fatti,probabilmente in base alle mie descrizioni entusiastiche, un’altra idea dei labirinti. Stiamo tutti un po’ indecisi intorno allo steccato bianco, quando il  soffitto inizia a manifestare la sua forza. I tre bambini sono corsi dentro. I più grandi davanti, Hannah, la più piccola, dietro. In alcuni punti i sentieri sono logori e il loro tracciato non è sempre chiaramente riconoscibile. Quando Hannah perde la strada Aura perde il soffitto, gli altri tornano indietro e la aiutano. La stessa cosa succede di nuovo, ma alla fine sono tutti e tre felicemente al centro e si abbracciano forte. Poi i bambini tornano indietro e subito ricominciano daccapo. E poi tutto ancora una volta, e un’altra ancora. Smetto di contarle e ad un certo punto mia figlia, esausta, mi si aggrappa alla  cintura della macchina fotografica”.  

“Adesso vado anch’io”, dico.

“Anche Hannah”, risponde lei. 

La sera, al pub, i nostri amici affermano: 

“All’inizio eravamo delusi. Ma il soffitto è davvero qualcosa di speciale. Chi ha talento artistico o, più precisamente, talento  fotografico incontrandosi con un oggetto della realtà esterna, un soffitto, una plafoniera, un lampadario a muro, si sente toccato dalla particolare caratteristica delle sue linee, colori e movimenti che lo fanno non solo essere, bensì dire qualcosa, a rivelare attraverso la facoltà della forma l’essenza. Il suo intimo allora entra in un movimento peculiare. Diventa aperto e ricettivo, ma insieme anche vigile, teso e pronto all’azione del fotografare. Magari, fotografare la continuità. Tale stato può assumere diversi gradi di intensità, dalla fugace vibrazione all’appassionato senso di ammirato stupore e sopraffazione: sempre vi è insita nello stesso tempo la duplice caratteristica della recettività e dell’attività. È ciò che intende dire Goethe quando esorta l’artista «a fare di sé un organo», un organo per l’essenzialità delle cose e degli eventi quali si esprimono nelle loro forme. In questo stato il fotografo si protende verso ciò che si trova al di fuori di lui, diviene soffitto, non per metterlo al servizio di uno scopo pratico, come farebbe un tecnico, bensì per ricrearlo di nuovo”.   

Ma un giorno avvenne qualche cosa di grosso, di non previsto, che scosse i vedenti e dette adito a racconti cubisti che almeno erano differenti dagli altri. La facciata della Cappella si stava mettendo a fuoco, la causa non si seppe né si saprà mai, inutile indagare su un mare di ipotesi. La sovrapposizione cubica,il taglio bioculare invase tutto e l’assenza di altre visioni fece tanto panico che qualcuno buttò l’occhio dalle finestre rompendo i tratti della visione ordinaria e facendosi una propria sintesi di sguardo, cercando di salvare prima la vista, poi il tatto e poi se stesso.

Gli sguardi sonnacchiosi, le parole strillate, furono gettate come cose preziose, ed una volta salvata l’immagine – i soffitti, le loro forme –  si sentirono padroni della propria vista. 

I fotografi strillavano, ma poi fu tutto divertente, l’attenzione dei poeti, le lunghe scale che portavano al luogo retrostante all’architettura erano libere. 

Per fortuna niente punti di osservazione altra e pochi i danni: incendiati completamente i cavalletti dei pittori che diventarono un ammasso e di conseguenza niente buio e niente altra inquadratura. 

Niente sfocature e ferme le macchine fotografiche, nel piccolo cortile equidistante la chiesa dove non spirava neppure un alito di vento soltanto la Camera Chiara aveva ripreso forza.