Agostino Arrivabene, "La grande opera", 2016, Olio su lino, cm 150x250, Collezione Agostino Arrivabene

Thesauros. Una nube diamantina tra i Diamanti.

Fino al 1 ottobre 2023, è ospitata la mostra antologica “Thesauros” di Agostino Arrivabene, curata da Vittorio Sgarbi, presso Palazzo dei Diamanti, a Ferrara.

All’imbrunire, un lirico e crepuscolare bagliore si schiude nel suo scuro e rosso cardinale, nel lambire carezzevolmente il cuore ferrarese, in cui ingiungono numerosi speroni diamantini come coriacea culla di un badiale tesoro. Si dilatano, nel fulgido aere, le opere del maestro Agostino Arrivabene, come alchemica nube diamantina tra i ferrati Diamanti.

Il diamante – che nasce nelle rocce kimberlitiche – esprime quello sprazzo di virtù invitte (diamante dal greco adamas, invincibile), pure, morali, intellettuali ed esoteriche. Ammette un percorso alchemico di risveglio e di trasmutazione dell’anima per una nuova unione col divino. È indicatore di un lento, fitto e ponderoso stadio di ricerca. Nell’antichità aveva valore apotropaico, permetteva di raggiungere la benevolenza degli dèi e uno stato d’illuminazione.

L’artista si definisce “Pontifex” (dal latino pontis facĕre). Forse è hybris? No, l’affermazione è specchio di una sua naturale inclinazione nell’essere “costruttori di ponti”, in quell’arte che veicola una sensibilità atemporale, nello sguardo del prima che, postosi nell’animo, si fonde con quel respiro tutto contemporaneo, creando risultanze estetiche in grado di trasferire un interno che racchiude, nella sua memoria, dramma e letizia e un esterno che, nella sua corolla, trova un terreno fertile presente.
Un celebre verso in Alla città di Ferrara di Giosuè Carducci, Lampeggia, palazzo spirtal de’ dïamanti, colloca il Palazzo, in tale poetico impulso, all’interno di quell’Addizione Erculea voluta dal duca Ercole I d’Este che rese Ferrara, come definita dallo storico svizzero fra i più importanti dell’Ottocento e autore della Civiltà e Rinascimento in Italia, Jacob Burckhardt prima città moderna d’Europa. Riconoscendo, infatti, il genio di Rossetti, scrisse: «Qui, prima che altrove sorsero per volere dei principi ampie e regolari contrade: qui, col concentramento degli uffici e coll’attirarvi l’industria, si formò una vera capitale».

Palazzo dei Diamanti, sorto tra il 1493 e il 1503, con il Ludo prospectum degli 8.500 blocchi di marmo bianco venato di rosa, per antonomasia rappresenta il raggiungimento sovrano dell’architettura rossettiana di superlativa estetica, di cui gli antenati sono il Palazzo Sanuti Bevilacqua Degli Ariosti di Bologna e il Palazzo Steripinto di Sciacca, per una simile forma di ornamentazione della facciata in bugnato rustico. Il diamante, prezioso simbolo taumaturgico, appartiene anche al noto Anello estense, spesso accompagnato da fiori come la margherita, il narciso, la rosa e il fiore di melograno. Nello stemma dell’impresa araldica, adottata per la prima volta da Ercole I d’Este, figurava già il cristallo di forma piramidale, incastonato nell’anello avvolto in un cartiglio di fogliame con al centro un bocciolo e che richiamava la confraternita di costruttori che aveva sede nel Palazzo di Ferrara.

Al piano terra, si colloca lo spazio espositivo aperto a importanti mostre che abbracciano un vasto corridoio temporale che si snoda dall’arte antica fino alla nostra contemporaneità. La Fondazione Ferrara Arte, ricca di un alto profilo scientifico e di un approccio divulgativo per le mostre ideate, in collaborazione con il Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, e forte di fertili collaborazioni con noti musei stranieri, ha rivolto la sua attenzione alla mostra antologica dell’artista Agostino Arrivabene curata, con scientifica maestria, da Vittorio Sgarbi per inaugurare la nuova ala dell’edificio.
Nel sito rinascimentale, è stata ideata una passerella in legno, arricchita di ampie vetrate verticali, il cui tracciato appare già nelle stampe settecentesche di Andrea Bolzoni (1782) e la cui prospettiva centrale che ricorda i diamanti nei blocchi di pietra della facciata è descritta nel progetto di riqualificazione, presentato dal Sindaco di Ferrara Alan Fabbri, come un manufatto capace di sparire sullo sfondo del Palazzo e di mimetizzarsi tra gli alberi dell’incantevole giardino. L’Ala Rossetti, progettata nel 1492 da Biagio Rossetti, si sposa con l’Ala Tisi, in questo mirifico evento inaugurale.

È nell’ode della celebrazione della bellezza, attraverso il valore sublimante della poesia foscoliana e il valore eternante del mito con rimembranze alla classicità e preziosismi del verbo che, se il notturno zeffiro/ blando su i flutti spira,/ suonano i liti un lamentar di lira. L’eufonico ritmo delle arcate del loggiato interno e delle vetrate della passerella abita lo schieramento delle opere di Agostino Arrivabene che invade, con il nerbo di un soffio di Zèfiro, quell’eccitazione del rubro che si cosparge nei fastosi interni rinnovati.
Come in una nube si addensano infinitesimali lacrime e cristallini di ghiaccio, così le immagini visionarie e diamantine del nostro si annodano in un’echeggiante visione e percuotono il firmamento interiore di chi ne spia la trama, scandagliandone ogni minuzioso dettaglio. Il maestro incarna, in maniera aderente, un estratto dal testo Storia dell’arte e Anacronismo delle immagini di Georges Didi-Huberman: Così, il mio accesso a quei testi … porta il segno di un’autentica, “inquietante estraneità della lingua”: sentirsi «a casa» in una lingua del tutto estranea, che si accosta a tentoni, che forse si enfatizza un po’, che incute un po’ di timore quando si pensa alla sua storia al tempo stesso così prestigiosa e così tragica. Non solo, dunque, per una partitura geografica ma anche temporale. E Didi-Huberman prosegue, annotando che è una Rilettura nondimeno necessaria. Essa corrisponde, per concludere, a un triplice auspicio, a una triplice scommessa: archeologica, anacronistica e prospettica. “Archeologica”, per scavare attraverso gli strati di oblio che la disciplina non ha smesso di accumulare riguardo ai propri stessi fondamenti. “Anacronistica”, per risalire dal disagio attuale sino a coloro di cui i nostri «padri» diretti non si sono sentiti più figli. “Prospettica”, per reinventare, se possibile, un valore d’uso a concetti segnati dalla storia – l’«origine» secondo Benjamin, la «sopravvivenza», secondo Warburg, la «modernità» secondo Einstein -, ma che possono rivestire oggi una qualche attualità nel dibattito sulle immagini e sul tempo.

Nel suo slancio verso la sublimazione e il divino, il titolo dell’esposizione antologica, Thesauros, trova un terreno adepto per il suo situarsi meticolosamente in una coltre enciclopedica che è dono votivo nella sua assimilazione ai θησαυρός (thesauros), preziosi ricettacoli all’interno dei santuari panellenici, come il Tempio di Apollo a Delfi, in cui i cittadini depositavano offerte sfarzose e opulente.

Installation view Thesauros
Agostino Arrivabene, Erotomachia infera, 2023, Olio su lino, cm 250×200, Collezione Agostino Arrivabene, Ala Tisi di Palazzo dei Diamanti
TargaAi Diamanti/ Franco Farina/ portò l’arte contemporanea/ 1963-1993“, Ala Tisi di Palazzo dei Diamanti

Il ciglio entra in visibilio, non appena traghettato il vestibolo introdotto da due targhe dedicate. L’una, come ricorda il sindaco Alan Fabbri, omaggia l’insigne storico e critico d’arte Roberto Longhi (Qui nacque/ l’”Officina Ferrarese”/ di Roberto Longhi 1933-1934); l’altra, il direttore di Palazzo dei Diamanti dal 1963 al 1993, Franco Farina (Ai Diamanti/ Franco Farina/ portò l’arte contemporanea/ 1963-1993).

Nell’estasi di un febbrile agitarsi di corpi nell’infausto vortice luciferino di Erotomachia infera (2023), in cui si eleva una vezzosa e carezzevole stretta degli amanti che, tenace, fa fiorir tutt’intorno un riverbero celestiale (Canto V dell’Inferno dantesco), si vive l’iniziamento di Thesauros. In una prospettiva ricercata e speculare per collocazione, è esposta l’opera Lucifero (1997). In un autoritratto dell’artista, l’infernale e l’angelico e la Nigredo e l’Albedo si compenetrano, tramite un’unione degli opposti, in un’incantevole sintesi dell’arte di Leonardo Da Vinci, di Lorenzo di Credi, di Jan van Eyck e di Raffaello. Si ode una sensibile vanitas, in cui il ricordo della madre non precipita nella selva oscura dantesca, ma è tutelato dalla superfice della pietra. 

Nella Pinacoteca Nazionale, in cui si può mirar il salone d’onore e l’appartamento cinquecentesco di Virginia de’ Medici, tra le opere dal Due al Settecento, l’opera di Ercole de’ Roberti è saldo punto cardinale per l’artista che omaggia la sua figura in due dipinti: Il sogno di Asclepio (2015) e La Grande Opera (2016). Lo stesso Ercole da Ferrara, con Francesco del Cossa e altri pittori della Scuola ferrarese del primo Rinascimento, ha lavorato al Salone dei Mesi, in uno dei cicli d’affreschi più rilevanti del XV secolo in Italia, all’interno di Palazzo Schifanoia, sede dell’omonimo Museo, ove è rappresentata la figura di Leonello d’Este, il principe che portò l’Umanesimo nella città, durante il Quattrocento.
Nella Sala di Leonello del Museo Schifanoia, nella fascia decorativa e tra inserti vegetali, se ne riconosce l’immagine fanciullesca a tre volti, suo emblema che è ricalcato su alcune medaglie bronzee eseguite da Pisanello ed esposte in un’altra sala del Palazzo (attuale Sala 4). Iconologicamente si vuole iscrivere tale raffigurazione, per i tre archi temporali (passato, presente e futuro), nell’allegoria della Prudenza. Il volto tricefalo ha antiche origini nel ritratto dei pagani del sole, per incarnare l’idea del tempo.

Agostino Arrivabene, Scultura gioiello, 2023, Marmo di Carrara, rame, argento, perle, cristallo di quarzo ialino, olio, cm 20x15x6, Collezione Agostino Arrivabene
Antonio di Puccio Pisano detto il Pisanello, Medaglia con busto di Lionello d’Este (dritto), triplice volto (rovescio), 1441/44, Bronzo, Museo Schifanoia, Ferrara, inv. NU51185

L’iconografia domina l’opera in mostra Scultura gioiello (2023) in marmo di Carrara, rame, argento, perle, cristallo di quarzo ialino e oro. Su un levigato e marmoreo origliere popolato da una folla di petali di foglie, si avvalla il rifratto volto nel quarzo ialino giallo rosato. In una culminante trasmutazione della materia, l’Uno si fa Trino in Tallo, Auso e Carpo. Nel rigoglio di un lume rilucente, è dal perno di un epicentro che fluttua la fioritura mentre acini di perle rivestono, con colmi grappoli perlacei, la fecondità del Tempo. Arti che proteggono la custodia della dimora dell’Olimpo. Costellazioni del corteo della Fecondità e di Dioniso-Cristo, accompagnate dal candore di Chione, sillabano l’avvicendarsi del divenire.
L’Età vittoriana si ispirò a capolavori del gioiello come il claddagh ring, in cui il cuore con la corona centrale e le mani che li cingono ricordano quelli delle sorelle delle Moire. La corona è il Padre, la mano sinistra il Figlio e la mano destra lo Spirito Santo; la Trinità concentrata nell’umano cuore pulsante. Non solo Giano e Saturno ma anche il Sole, il Tempo e il Cristo sono congiunti alla Trinità che trova nesso nella Creazione del Mondo, icona espressa tramite un volto trifronte, da cui fuoriescono lateralmente i tralci con il significato del tempo che dà forma alla Natura. La Maschera divoratrice e generatrice dei tralci del Creato è forza fecondatrice che fa rinascere la vegetazione. Tra le diverse figure diffuse sulla Trinità, si citano il Volto trifronte di Nicolao da Seregno presso la chiesa di San Nicolao a Giornico (Canton Ticino), e la Trinità (Cristo tricefalo) presso le Collezioni Comunali d’Arte, a Bologna. Un secondo rimando è quello all’anello dell’impresa d’Este, in cui il cartiglio vegetale e il boccio al centro parlano della rinascita e della floridezza. Il dipinto su rame è stato inserito, nell’alveo della Scultura gioiello, dal gioielliere Mirco Baroso.

Proseguendo verso Il Sogno di Asclepio (2015), quel nocciolo, da cui il sangue cruore si districa nelle sue radici e nelle sue protesi vegetali, ascende risorgente perpendicolarmente con le nubi aeree, convolando in simbiosi con le architetture rocciose che, come guglie, si fondono col cielo. Nell’Asklepieion di Pergamo, sincronicamente, in una posa di eccitazione estatica, il corpo androgino dormiente è trasportato nel “sogno incubatorio”, in dialogo con Asclepio. L’uomo nel suo inconscio, pauroso della morte, interroga il dio che scioglie il nodo dell’ombra. Nel florido farsi nuova natura, come nell’organo nelle cui propaggini vegetali si affaccia sempiterno il memento mori, le dita feconde della mano destra, ove compare l’anello di Asclepio, affondano per riaffiorare nella materia celeste in lontananza, permettendo di ricongiungersi con l’integerrima sostanza basale. L’opera nasce dai Discorsi Sacri dello scrittore e retore greco antico del II secolo d.C., Publio Elio Aristide che, in preda alla sua malattia, descrive di essersi affidato al fenomeno dell’incubazione nel mondo greco, pur disobbedendo alla terapia prescritta in sogno dal dio, quella di tagliarsi un dito come dono. Inoltre, il dio lo incita a valicare il fiume e a portare monete agli antichi dèi. L’azione del rifiuto tende, forse, a riconoscere una ricerca della propria identità nell’esperienza tra il sonno e la veglia, nella trascrizione di ciò che accade all’interno di un diario onirico. In una posa contrapposta a Il Rizoma di A.W.N. Pugin (2016), si cristallizza il riciclo della vita e del finito nell’eterno. Su sottili asticelle fiamminghe e verdeggianti, piccoli simboli alchemici ci appaiono immaginariamente nel loro furor creativo, riposto nelle colonne erculee della coscienza. La realtà imperfetta subisce una raffinazione, in un migrar verso la quintessenza, in cui il prima si sublima in Oro. Pietre filosofali, piccole pupille del poliedro di Dürer, svelano il corso dalla Nigredo alla Rubedo. La natura, dipinta nell’opera, guarda alla veduta di Ravenna dopo la bufera, paesaggio che, in tutto il suo sentire Sublime, è contenuto nell’impalcatura di sette pilastrini che regge il trono della Vergine nella Pala di Santa Maria in Porto (1479-1481), più conosciuta come Pala Portuense, olio su tela di Ercole de’ Roberti, conservato nella Pinacoteca di Brera e contemplata dall’artista negli anni dei suoi studi.

Un riferimento non mancante anche all’interno di La grande opera (2016) che, per il silenzio del vuoto, rimembra una condizione di isolamento come stadio di coscienza e di beatitudine, assimilabile come autoritratto dell’artista stesso. Da plumbee fessure rocciose, si giunge a una deflagrazione epifanica dell’Alkahest, acme spirituale che, nella liberazione da ogni spuria, eleva l’alchimista nella Magnum opus. La prua rocciosa si erge verso la pietra filosofale. Nella discrepanza, tra la tempra sconfinata della natura e l’esilità dell’uomo, appare la maestosità dell’Impresa. In un serto di nugoli, di impervie cime e di rupi leonardesche si distende la città immaginaria dell’architetto francese Étienne-Luis Boullés, in cui edifici simbolici e imponenti nei loro volumi elementari, e che trattengono luci e ombre in un susseguirsi di velature pittoriche, enfatizzano il pathos che feconda l’intera veduta.

In Le mosche d’oro (2014) tornano, entro un’esplosione fiorita, i piccoli steli con insorgenze alchemiche e alternati a tre rose e fiori di diversa natura, in una contemporanea trascrizione del mondo floreale di Jan van kessel il Vecchio, di Ambrosius Bosschaert e degli altri maestri fiamminghi. Sono corona di un volto, su cui si posano tridimensionali, nella profondità dell’opera, le mosche imbalsamate e rivestite di oro zecchino in polvere, una provocazione e un omaggio dell’artista alla Musca depicta, soggetto di un’antica prova di abilità degli artisti, di cui alcuni esempi sono la Madonna e il Bambino di Carlo Crivelli e Rosenkranzfest di Albrecht Dürer. Quest’ultimo riferimento non è casuale, dato l’elemento del rosario e l’incoronazione della Vergine che reca in braccio il Bambino, già nell’atto di assolvere il suo sacro ruolo. Si annuncia, infatti, nel numero delle tre rose, l’allusione alla Triade e ai tre tempi del passato, del presente e del futuro, e ancora alle Ore che alloggiano in prossimità, nel fluire del percorso espositivo.

Sempre limitrofa è la Vergine fossile (2020). Nel grembo, come nella psiche, della Vergine madre figlia del tuo figlio (Dante, Divina Commedia, Canto XXXIII del Paradiso) cresce un feto che è Uovo Cosmico della creazione. La posa del volto è memoria della Vergine delle Rocce, in cui il gesto protettivo della madre verso il figlio anticipa quel trino dipoi. Altra opera che compone una contemporanea Wunderkammer, insieme alla Scultura gioiello, è il Reliquario per un memorabilia (2017). Un trionfo del corallino sangue di Cristo dialoga oppostamente con l’opulenza delle esposizioni dei ricchi signori. In una piccola nicchia dorata ovale – che dimora all’interno di un cofanetto e la cui porta è ornata da cristallo di rocca – si svela un bronzeo ditale, lascito di una madre verso il proprio figlio. I memorabilia sono oggetti connessi a un fatto noto e a persone importanti per la nostra vita come, il ricordo di una madre che si rigenera nella persistenza vitale del figlio.

Installation view Thesauros, Ala Tisi di Palazzo dei Diamanti, Ferrara
Installation view Thesauros, Agostino Arrivabene, Reliquario per un memorabilia, 2017, Alluminio anodizzato, scagliola, oro, cristallo di rocca, ditale in bronzo, cm 41x17x18, Collezione Gisella e Fabrizio Novati, Ala Tisi di Palazzo dei Diamanti, Ferrara

Così quella tal rimembranza, solida nella scagliola, affonda le proprie radici nel suono del respiro, come battito nel ventre sacro. Il cristallo, come sentinella posta a presidio del ditale, risveglia lo spirito e attua il viaggio alla ricerca del sé, essendo sia contenitore dell’elemento maschile “Fuoco” che rende inclini alla purificazione, sia dell’elemento femminile “Acqua” – come anche testimonia la derivazione greca krystallos (ghiaccio chiaro) – che guida verso la guarigione. Come in Il sogno di Asclepio, l’Uovo filosofico del Mondo innalza i suoi rami sanguigni nel loro rigoglio. Adiacente è l’opera Angelo del versamento III (2016). Nella Scrittura, l’angelo ha tre funzioni: è teofanico, è rappresentante di Dio nella sua adorazione, ed è interprete che annuncia la sua azione. È figura presente nei racconti della passione e della resurrezione.

Nella sua candida veste epidermica e in procinto di congiungere le mani, l’angelo dà forma a ramificazioni coralline che sono il sangue e il corpo di Cristo e che, dopo aver raggiunto la croce della passione, si propagano dal cuore sanguinante verso la risurrezione e l’ascensione, mutando nell’Oro della corona di spine del Sacro Sangue (2016).
Ctesia Panax (2012). In un’illibatezza d’animo, si rivela il liocorno con le sue sovrannatural virtù che contiene l’infinito scorrer del tempo sulla fronte nella spirale dell’allungato corno. Vergini fanciulle si spingono alla cattura e divengono fedeli compagne, nella loro fecondità, con lo Spirito Santo. In un amor cortese estremo, la doppia natura dell’unicorno provoca l’interiore agitarsi tra verginità e fecondità. La fanciulla assume la posa raffaellesca della Dama col liocorno e, ancor prima, quella leonardesca del ritratto di Dama con l’ermellino in cui, come in Ritratto di Ginevra Benci, virtutem forma decorat (la bellezza decora la virtù). Le sembianze non sono più esteriore figurazione ma enigmatico moto dell’animo. Maria Unicornis (Maria dell’Unicorno) è l’immagine che fonde la natura del doppio nell’uno, secondo il Misticismo mariano tedesco.

Sul manto della Passione e della Rubedo, la giovane ospita l’animale fantastico tra le due mani. L’una è esposta e richiama, nel gesto, la piccola zampa sollevata; l’altra è sottostante e nascosta dalla stoffa, quasi a voler ricordare unitamente l’amor sacro e l’amor profano, il passato e il presente, la verginità e la fecondità. Mutazione rinasce nell’elevarsi della coda serpentina, sino al volto nello sfavillar del bianco, del rosso cinabro e del nero, in un roteante agitarsi dell’Opera. Nell’akeia (cura) alchemica, l’uno – che nel suo intero tutto (pan) racchiude – sfiora l’occhio dell’eternità.
Lo storico greco e medico Ctesia di Cnido riferì, al suo ritorno dalla corte persiana di Artaserse II (415-399 circa a.C.), all’interno dei suoi Indikà (V secolo a.C.), d’aver visto una strana specie selvatica ed esotica della regione della Valle dell’Indo, chiamata “asino indiano”. Nel suo riassunto del testo frammentario di Ctesia, il Fozio parla della grandezza dell’asino indiano pari a quella del cavallo, col corpo bianco, il capo porpora, gli occhi blu scuro, il corno sulla fronte e l’astragalo del colore del cinabro. Già Erodoto, nel IV libro delle Storie, accenna ad asini cornuti della Libia. La strana creatura fu, in seguito, chiamata monokeros (unicorno) dai Settanta traduttori dell’Antico Testamento. Nome che troviamo anche nella Historia animalium di Aristotele, nel De Gallico di Giulio Cesare e nella Historia Naturalis di Plino il Vecchio. Si narra che fu anche il primo nome attribuito da Adamo ed Eva quando Dio comandò loro di nominare gli animali della Terra, dando la sua benedizione alla creatura. La fama di questo “animale” è legata, inoltre, a quella del filosofo cinese Confucio, secondo la testimonianza che vede gli unicorni manifestarsi prima della nascita di grandi personaggi umani e sovrumani. L’iconografia del pannello in basalto del IX secolo a.C., nel sito archeologico di Tel Halaf, proverebbe la presenza di un tale motivo immaginifico già ai tempi del Neolitico. La forma e l’orientamento del corno del disegno del pannello sono stati ripresi, in egual misura, nel tipo riprodotto nella porta di Ishtar, a Babilonia, una delle capitali del regno della Persia, ove probabilmente soggiornò Ctesia. Gli unicorni invaderanno l’immaginario Occidentale solo attraverso il Physiologus, i Bestiari e le iconografie nel Medioevo.

Installation view Thesauros, Ala Tisi di Palazzo dei Diamanti, Ferrara
Installation view Thesauros, Agostino Arrivabene, La custode dei destini,1985, Olio, tempera, collage, foglia d’oro su tavola, cm 93,5×88,5×5, Collezione Agostino Arrivabene, Ala Tisi di Palazzo dei Diamanti, Ferrara

Durante la visita alla mostra, Agostino Arrivabene ci racconta La custode dei destini (1985) come un’opera tra le sue più care. È un trittico, una sacra conversazione tra l’artista (a destra), il fratello (a sinistra) e la cugina che li ha educati, sita in trono (al centro). Il lavoro è un dono offertole, per il pregio di aver ricevuto il suo insegnamento, ora grande patrimonio letterario del maestro che reca in mano lo scrigno, in cui è posto il terzo occhio, al quale può accedere solamente tramite la chiave sul torace. Dietro alla sua figura, l’immagine di una doppia maschera si può narrare, riportando un passo del prologo di Zarathustra di Friedrich Nietzsche: “… L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso … La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. …”

L’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara, Marco Gulinelli, denota sulla mostra Thesauros: «Palazzo dei Diamanti, completamente rinnovato, riapre al pubblico, dopo decenni, in piena estate, con due mostre che dimostrano ancora una volta una capacità, una ricchezza, una flessibilità espositiva dal respiro internazionale per offrire a tutti uno sguardo di speranza e di fiducia che passa dalla cultura. … Arrivabene ci propone la forte carica visionaria di un artista raffinato dotato di fantasia inesauribile che sfrutta le potenzialità dell’allegoria scandagliando le profondità del mistero della natura e della vita».
Afferma Vittorio Sgarbi nel testo critico L’Attesa della meraviglia, all’interno del Catalogo della mostra, sul maestro: «…Lontanissimo dalla realtà, è certamente il più onirico dei nostri pittori e le sue immagini sono lacerate e tormentate. Il disegno e la pittura sono per Arrivabene strumenti di conoscenza che richiedono concentrazione e applicazione continua, studio e confronti. …». E Pietro Di Natale, Direttore della Fondazione Ferrara Arte, nella sua presentazione del volume: «…Arrivabene rinnova temi mitologici, sacri e letterati, sfrutta le potenzialità dell’allegoria, scandaglia il mistero della natura, della vita terrena e di quella oltre la morte, eccede i limiti della conoscenza sensibile per conseguire un altrove, una realtà nuova, potente, mutevole, che esiste prima di concretizzarsi. La sua arte è incanto, liberazione, rivelazione».

Chiudo questo seducente viaggio con il rilucente barlume della vita dell’artista. Non perché qui si spegne Thesauros, ma per lasciare al visitatore il piacere di toccare con mano gli altri tra i quaranta capolavori esposti e che tracciano i trent’anni di storia produttiva del maestro, dal 1985 sino a oggi, nella città natìa di uno dei suoi principali artisti di riferimento per la sua prima formazione, Ercole de’ Roberti.

Si ringrazia per il materiale fotografico e didascalico Palazzo dei Diamanti – Fondazione Ferrara Arte, la Dottoressa Anja Rossi e il Museo Schifanoia.

AGOSTINO ARRIVABENE | THESAUROS
curata da Vittorio Sgarbi
16 luglio – 1 ottobre 2023
Palazzo dei Diamanti, Corso Ercole I d’Este, 21 – Ferrara
Aperto tutti i giorni dalle 11 alle 20
Tel: + 39 0532244949
e-mail: diamanti@comune.fe.it
www.palazzodiamanti.it