Paul Verlaine and Arthur Rimbaud in le coin de table by Henri Fantin Latour, 1872

Polichiniello: un filosofico in meno! (II parte)

Il teatro si può conoscere soltanto oltre il teatro. La ricerca del teatro e delle teatralità è in un certo senso la ricerca del proprio disegno artistico che Pulcinella chiama “una certa disposizione all’orgasmo del Sé”. Tanatiello dirà: “Non si ha che l’altro”. Ecco la maschera comune che prosegue. Sembra senza mèta a chi lo osserva muoversi tra la gente, povero bagaglio di risate e di pianti sulla pubblica via. È sempre in cammino verso quella domenica della vita che rischiara le piccole cose di tutti i giorni.

“Turris eburnea sita al meridione, eco
rotante delle superne miniere e sottoterra, casta diva
che inargenti, la Susanna tra i commendatori
dell’ultima legislazione dentro l’alto speco”

(Emilio Villa, Thèophorie phonophante, in Traitée de pédérastie céleste, Napoli, 1969).

Sto scrivendo quella che può sembrare opera di fantasia, e non è. Chissà perché in questa città, comincia tutto da quella che io definirei la sensazione della fine.

Tutto è successo venendo da Parigi. Alla stazione centrale prendo un taxi al volo; chiedo al tassista di accendere un vaporizzatore per consumo di cannabis perché dico ho preso un caffè e la richiesta viene cortesemente accolta. Si parla del traffico, del caos, della derattizzazione e della deblattizzazione. E’ notte. Agli angoli e lungo il percorso intravedo ombre che se ne stanno morbidamente appoggiate ai pali dell’Enel. Prostitute, travestiti o Arlecchini? “Macché, dice il tassista, sono tutti Polichinielli-Travestiti, ci deve stare una grande richiesta”. Cominciamo a discutere sull’argomento, mentre l’auto si lascia indietro quelle morbide ombre. “Pensate dotto’, dice il tassista, che l’altra sera ho accompagnato al Vomero una famiglia composta da padre, madre e due figli. Persone molto distinte. Arrivati a destinazione, il signore mi ha pregato di aspettarlo perché doveva uscire un’altra volta. Ho aspettato quasi dieci minuti, poi ho sentito bussare al finestrino e ho visto una signora bionda molto bella che chiedeva di entrare. Ho detto, signo’ sono già affittato. E quella mi ha risposto che ero affittato a lei. Non ci potevo credere, quel signore così distinto e perbene si era travestito da bionda Polichinella … e che Polichiniello a più facce! E andava a fare il mestiere!”. Andava a recitare un pezzo di storia, una narrazione, a detta di Emilio Villa, più importante di Rrose Selavy: “Ora è chiaro che Rrose è Marcel almeno quanto non lo è, così come lits et ratures sono e non sono littérature, o anche un mot de reine, des maux de reins. E del resto Marcel non si è fatto fotografare più volte en travésti? Forse che la claunesca dolcezza della sua espressione in tali foto non è da Pierrot Lunaire? Eppure gli eventi della sua vita si caratterizzano davvero dalle leggi di una insostenibile leggerezza dell’essere, o meglio, dell’esserci” (Stelio Maria Martini, Marcel o della Buffoneria trascendentale, in Dove comincia il senso, edizioni Morra, Napoli, 2005, pp. 131-32).

“Ho ingranato la marcia – continuò il tassista – e sono partito per il Corso Vittorio Emanuele. Ma io so’ curiuso e non ce l’ho fatta più, gli ho dovuto chiedere: Signo’ ma pecchè … E lui o lei, con molta gentilezza, dicette: “perché non trovavo lavoro e allora, per non andare a rubare, vendo il mio corpo. In fondo non faccio male a nessuno, se non a me stesso e alla mia maschera sociale. Ho una famiglia e ci vogliono molti soldi… e questa è una attività come tante altre”. Non credevo alle mie orecchie. Sono tornato a casa, mi sono messo a letto e non riuscivo a piglià suonno. Mi giravo e mi rigiravo. Con la fantasia riuscivo a vedere parenti ed amici travestirsi e scendere in strada, a fare il mestiere…”. Queste potrebbero sembrare scritture sceniche per uno spettacolo sociale, ma non lo sono.

Dentro le maschere. La mia innata curiosità (qualcuno saprà che faccio Pulcinella) prevale e comincio con un giro di telefonate a vari conoscenti di un certo entourage per saperne di più. Riesco così ad arrivare a Carmela, un travestito che opera nella zona ferroviaria, una di quelle che non porta mai la maschera, pur somigliando a Rrose Selavy. Lo avvicino e gli dico:

«“Grazie di avermi ricevuto”. Siamo in un piccolo appartamento arredato con gusto e profumato pesantemente. Sradicato e allontanato dal centro della sua stabilità, dalla convinzione, ferma e rassicurante, di essere uno con se stesso, erro, smarrito, nell’universo dell’alterità, al di fuori di me, al di fuori della mia individualità, a contatto con la presenza inquietante dell’Altro che abita il Sé. Presenza ossessiva, presenza ingombrante. La categoria di Pulicinella-filosofo, incarnata e sognata da Tanatiello, e non da lui solo, categoria dapprima ipotetica e forse utopica (esistono ai nostri giorni tali sincerità comiche? Non è necessario che ce ne siano un giorno?), non si inserisce nel contesto di una filosofia assimilabile e strettamente ripetibile, capace cioè di creare una maschera ben definita. Eppure dalla Grecia proviene questa storia-racconto di alcune metamorfosi e varie creazioni.

Il mio libro, i miei viaggi? La ricerca dei Pulcinella parve scolorirsi e disparire sotto la nebbia del consueto quotidiano: 

Il 13 maggio 1871, Arthur Rimbaud scrive una lettera a Georges Izambard, suo professore al collège di Charleville: la poesia è rivoluzionata, la figura del poeta sconvolta, toccata nel profondo da un’idea destinata a cambiare il concetto stesso di soggettività, e, come interpreterà la psicoanalisi, di soggettività in senso lato.

Mantenendo però viva l’intenzione di capire, leggendo libri e scrivendo qua e là, a gente che avrebbe potuto darmi notizie, gente dall’esistenza spesso incerta e dall’indirizzo approssimativo.

Di solito le lettere tornavano con laconiche indicazioni postali: partito, sconosciuto, anomico.

Una risposta tuttavia arrivò.

In quel tempo leggevo esclusivamente libri sulla poesia e sull’anima della Maschera, la vecchia questione. V’è chi crede solo nel corpo

Vi è nell’affermazione rimbaudiana “Je est un autre” qualcosa di sconcertante, un caos linguistico che testimonia di un trambusto ontologico di fondo: se, infatti, Rimbaud si fosse limitato a un semplice e forse più comprensibile “je suis un autre”, “io sono un altro”, si sarebbe trattato – molto velocemente – di un’immedesimazione del soggetto in un altro al di fuori di lui, senza per questo dissolversi in quanto soggetto. Per dirlo in un’altra maniera, l’azione di unificarsi in un’alterità (oggetto o persona che sia), al di fuori del proprio io artistico, non cambia né mette in questione lo statuto di questo stesso io: io sono sempre io, e le azioni che compio provengono dall’individualità unitaria, unica, che io sono.

Ma quando Tanatiello riafferma che “Io è un Altro”, “Io è” e non già “io sono”, è la soggettività in quanto tale ad essere messa in questione, se non addirittura negata; perché, in fondo, dire “Io è un Altro” significa accettare che l’Io “non è padrone in casa propria” – per dirla con Freud – che ogni individualità è, in realtà, abitata da un’alterità, da un Altro che la perturba e la frammenta, da un abisso insondabile che assedia e tormenta. È da quest’idea, da questo decentramento e smarrimento di un soggetto che ha perso la sua identità, che Tanatiello elabora la propria concezione di poesia, opponendosi a quella che egli stesso definisce “poesia soggettiva”, che si esprime attraverso la voce dell’Io, di un’individualità definita e unita. Al contrario, la voce della canzone di Tanatiello è la voce dell’Altro, dell’abisso sconosciuto che abita l’Io, e che si raggiunge «par le dérèglement de tous les sens, attraverso uno sregolamento sensoriale “lungo” e “immenso”, che porta con sé toutes les formes d’amour, de souffrance, de folie, come Rimbaud scrive a Paul Demeny (il 15 maggio 1871).

I pensieri non sono corporei, i miei pensieri spesso aggrovigliati, talora limpidi, talora inesprimibili, non sono solo del cervello: li sento più in alto. Come non sono viscerali i sentimenti della recitazione:Così, dunque, la fonte prima dell’ispirazione poetica non è più l’Io in quanto entità stabile e solida, ma un io che è Altro, che si getta in un tumulto informe e magmatico, monade in preda a un dionisismo senza misura, esagerato, che scandaglia i burroni più reconditi di un soggetto fugato e disordinato. Ma per scorgere questi precipizi, in fondo, il «faut être voyant, se faire voyant»; il travestito canzonatore, il Neutro di Barthes, deve essere e farsi veggente, “grande malato, grande criminale, grande maledetto”, disposto a sopportare e trasformare le “sofferenze enormi” che derivano dal decentramento alienato della sua identità. Così, dunque, se la voce dell’Io è il mezzo di espressione della poésie subjective, allora la voce dell’Altro è l’espressione della poésie objective, di cui Pulcinella si fa capostipite. Per poésie objective – modo di dire che potremmo decifrare con “poesia oggettuale” – si intende non già una poesia che canta l’unità armonica del soggetto, di un io padrone a casa propria, che predica alla prima persona i propri stati e le proprie azioni – je suis, je pense – bensì una poesia che rappresenta l’accostamento fatale con l’Altro, l’incontro e l’impatto con un altrove sconosciuto, che porta, con sé, uno sconvolgimento linguistico: “è falso dire: Io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa”, on me pense, come suona in francese. Il linguaggio, dunque, si adatta e riflette la spersonalizzazione dell’Io, che cessa di essere soggetto grammaticale ed ontologico del pensiero e delle azioni, per diventarne l’oggetto, l’oggetto di un pensiero non coincidente con la coscienza. Capiamo, dunque, in che termini Tanatiello può affermare e giustificare l’espressione Je est un autre: il pensiero non è più un’identità cosciente, il soggetto non è più uno con se stesso, ma, scisso e frammentato, si ritrova al di fuori di sé, nell’Altro che lo spossessa e lo spodesta. Nella poliedricità tortuosa del suo pensiero, è Pulcinella ad accogliere l’affermazione proto-rimbaudiana in tutta la sua carica sovversiva, declinando in termini psicanalitici il decentramento del soggetto di cui parlava il poète maudit nelle sue lettere (a Georges Izambard e Paul Demeny).

Qualcuno m’aveva detto che a Parigi v’è un gruppo che si dedica ad esperienze di musica metafisica. Non sapevo altro. Extra Artistico: cosa vuol dire? Forse è lunatismo soggettivo? Quando Lacan descrive lo stadio dello specchio come “formatore della funzione dell’Io”, come tappa fondamentale nello sviluppo psichico del soggetto, possiamo effettivamente vedere una rappresentazione dell’alienazione costitutiva di Polichiniello. Il piccolo Tanatiello, insomma, nel momento in cui si vede, per la prima volta, riflesso nello specchio e riconosce quell’immagine come propria, capisce in un certo modo che Je est un autre, che il suo Io è fuori di sé, che il suo Io è l’Altro, quell’immagine che lo spossessa e lo aliena. Nel momento stesso in cui si forma, l’Io  di Tanatiello è lacerato e separato da se stesso, la soggettività nasce da una scissione, da una non-coincidenza con se stessa:  il piccolo Tano vede di fronte a sé un’immagine che riconduce al proprio Io, ma che, allo stesso tempo, gli è esterna, è fuori, è fissa, è altrove, è Altro nella stessa «astrazione di genere». Leggere con Tanatiello l’affermazione “Io è un altro” significa ammettere che l’origine del soggetto non è l’interiorità, bensì l’esteriorità, il contatto costante che l’Io ha con l’Altro, l’incontro con l’esterno, con la città o con le città del mondo, o meglio, gli appuntamenti che, uno dopo l’altro, si sovrappongono e formano l’identità stessa della Maschera. In altre parole, l’Io non è un nucleo definito, ma il frutto di una stratificazione successiva. Da qui l’efficace similitudine che Tanatiello propone nel Seminario I dell’Istituto Italiano di Studi Filosofici: «L’Io è un oggetto fatto come una cipolla, così come afferma la maschera di Sherk: lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno riconosciuto». Ora, queste “identificazioni successive” di cui il soggetto è costituito sono, appunto, le immagini in cui l’Io si proietta, l’Altro che l’Io cerca per identificarvisi e riconoscervisi, la decantazione continua e stratificata di ideali, immagini, incontri. L’Io, insomma, non è una sostanza né un nucleo compatto, che dice di sé “io sono” e “io penso”, ma è un continuo abbondare, un essere-fuori-di sé, un sostenersi e inseguire un alcunché di estraneo, l’Io è un’apertura, che si fa e si genera a partire dell’incontro con l’Altro. Incontro inevitabile, contatto scioccante: l’Io diventa Altro, l’Io è un altro».

Nato da riflessioni riguardanti più Alfred Jarry che Stirner e Croce, l’attore-filosofo, malgrado alcuni aspetti esteriori, sembra partecipe di un anticomicismo che fu quello di Vico e dei suoi predecessori, fino a toccare delle punte più armoniche della dissidenza. Il connubio di filosofia e teatro, la contaminazione stilistica del travestito che sopravanza all’enigma di Rrose Selavy, non sono elementi sufficienti per definire filosofi-teatranti Marcel Duchamp e i suoi seguaci. Il pensiero idealista resta infatti (anche quando fa ricorso a personaggi, favole, teatri, finzioni e miti) subordinato al modello di una verità pensata come superiore e trascendente le sue diverse espressioni. Sottoposta ad una idea messa, anch’essa, al servizio dell’Affermazione Linguistica, il teatro è allora considerato, nel migliore dei casi, come la manifestazione elementare di quella stessa narrazione. Di qui, malgrado l’ambivalenza di Raymond Roussel verso i poeti, l’uso teatrale del personaggio, della favola di Pulcinella e soprattutto del mito. Ora, se Roussel s’interessa ai miti, Klossowski afferma che coloro che si occupano di miti, non meritano che ci si occupi di loro. Evoluzione teatrale verso una comicità sempre più pura che, di ripetizioni tetiche in ripetizioni dogmatiche, dà vita ad un sapere da Pulcinella, contrario con il teatro borghese e il sapere populista. Lo stadio ultimo di questa evoluzione, la sua ripetizione, i suoi conflitti, il suo teatro di guerra, la sua esaltazione e mortificazione, la sua risata e il suo sberleffo, in generale, si riflette nelle Lezioni di Jarry rilette da Romeo De Maio e collegate all’illustratore George Cruikshank e allo straordinario falsario shakespeareiano John Payne Collier: “prodigiosamente salvandovi le esperienze di Racine e di Alfred Jarry” (Pulcinella, Sansoni editore, 1989, p. 14). Per i teatranti-filosofi, vorremmo ricordare a Pierre Bourdieu e ai suoi discendenti: la performance non è al servizio di una verità suprema. Esistono tali maschere? Il loro campo teatrale dovrebbe perdere in profondità ciò che esso guadagnerebbe in estensione: poiché essi non guardano all’ultraterreno ma al terreno. I loro punti di riferimento saranno sempre i linguaggi … Impegnati nella ricerca di nuovi mezzi di comprensione e quindi di trasformazione, questi Pulcinella – senza riferirsi né riverirsi – non praticheranno la teatralizzazione della filosofia come «pura aletheia», ma come arte della concretezza comica: arte dell’alterazione e non dello svelamento, arte poetica, curativa, provata, ribelle … 

La questione dell’identità si è così chiarita nello spazio del teatro, del viaggio, di Rimbaud, di Jarry, di Lacan etc …. Sembrava assai oscura. Dicevo: tanti buttano la maschera e non capisco dove la prendono. Ora capisco. Per ricevere in continuità maschere, bisogna indossarle senza paura. Ciò che dài agli altri, lo dài a te stesso. Se non ascolti gli impulsi a dare, ti restringi, riduci l’immanenza della maschera. Se rallenti il deflusso del respiro, rallenti anche l’afflusso della tua abbondanza. Essere Pulcinella è quasi una legge idraulica: 

Odori acri, esotici, non a caso penso a Tangeri. Mi risponde gentile, mi offre un caffè. 

È imbarazzato «quando io sono io» (Je est un autre, Rimbaud). Abbiamo tanto chiacchierato. È venuta fuori tanta tristezza, solitudine, carenza di affetti. Da piccolo si era accorto di essere diverso, subito nel suo ambiente fu emarginato. Tutto l’affetto che i suoi familiari dovevano dividere tra i suoi fratelli e lui fu invece dato solo agli altri. Lui no, lui era un diverso. Da allora rifiutò l’Università, i comuni amici perché lo deridevano. Andò invece alla ricerca dei suoi simili e li trovò in luoghi dove la diversità era di casa.

Fu subito accettato; cominciò così per lui un altro calvario. Il marciapiede, poi la sopravvivenza, lo sfruttamento da parte degli strozzini che prediligono queste persone in quanto fonti inesauribili di guadagni. I lenoni. Poi i primi risparmi, la casa, quella vera con la porta da chiudere, una doccia e un po’ di musica. Ma lo stesso con tanta solitudine. “Alla fine per noi tutti, egli dice, c’è l’unico posto dove ci sentiamo liberi ed è quello che ci siamo scelti e che ho scelto: l’angolo del marciapiede od il portone scuro di un palazzo, insomma il posto dove facciamo il mestiere, o dove possiamo raggiungere Addis Abeba. Adesso hanno messo in giro pure la voce che noi portiamo tutte le malattie virali post-aids”, che ci accoppiamo come scimmie. Ma Tanatiello e Polichiniello sono l’altro oggetto di ricerca di Charles Darwin?

Come, chiedo io? E lui-lei: “Ma come non ha capito, stanno mettendo in giro la voce che noi siamo infetti per distruggere la nostra vita, la nostra esistenza. Siamo disperati. Secondo te, che dobbiamo fare?”.

Alla domanda non so rispondere, ci salutiamo con un gesto di intesa che vuole essere comprensione da parte mia. Mi allontano materialmente ma sono sempre lì con lui o lei e con quel problema: l’Altro. A questo punto voglio saperne di più e non dai giornali. Riesco ad avere l’indirizzo di un medico che si interessa di questi problemi. Prendo appuntamento e due giorni dopo sono nel suo studio.

E’ il dottore Aniello Stranamore che dirige il “Villino Rosso Pompeiano” sito in Via Vittorio Veneto, 20 (frazione Miano-Piscinola). Il Dottor Stranamore è medico chirurgo specializzato in medicina del lavoro con abilitazione in diagnosi chimico-tossico-logiche, ma è “Altruii” per gli amici, ossia i suoi pazienti. 

Dottor Stranamore qual è l’origine dell’abusività dell’Altro nell’Altro? Si dice che venga dalla creazione o dalla ri-creazione stessa di Pulcinella?

La più grave colpa che possa commettere un Pulcinella, o un Tanatiello, o ancora un Femminiello, è – a giudizio unanime – il parlare di un’identità artistica che non ha riconosciuto o di un’opera musicale senza averla ascoltata. Nella nota Encyclopédie della Musica Napoletana del 1958, alla voce Polichiniello/artista, questa colpa è considerata addirittura un reato: Tanatiello «commetrait une grave faute professionnelle en rendant compte d’un spectacle qu’il n’aurait pas vu».

Ma v’è un’altra colpa in cui può incorrere Tanatiello, la quale pur non essendo considerata così infamante, è stata a lungo oggetto sia di scherno che di indignazione: è allorchè il travestito viene sorpreso a non rispettare il sacro principio della divisione del lavoro, per cui al performer, e soltanto al performer, spetta di creare, mentre il travestito deve limitarsi a interpretare e giudicare. Per la mentalità tradizionale un trasformer, o un estetologo, che usurpi il privilegio creativo del performer commette un sacrilegio che difficilmente gli viene perdonato. Nella migliore ipotesi la si considera una scorrettezza artistica, come quella di un attore o di una comparsa che si permetta di inserire nel suo programma il pezzo d’un suo parente sino allora sconosciuto.

Eppure, anche in passato, quante volte si è dovuto a una scorrettezza del genere un successo artistico che altrimenti non vi sarebbe stato! Basti un esempio. Finché visse, Alfred Jarry non riuscì mai a far accettare al pubblico la sua prosodia teatrale, che, nonostante oggi venga considerata da taluni il suo capolavoro, sembra condannata all’insuccesso. 

“Dicette Pullecenella: nu maccarone vale ciente vermecielle”.

Fu proprio un interprete, tanto geniale quanto spregiudicato che manipolandolo senza scrupoli e adottandola alle scene, la portò, agli inizi del secolo, al successo, al teatro della sperimentazione e della clandestinità. Ma i ben pensanti (estetici) ne furono inorriditi; e tra essi persino un replicante di Polichiniello, di cui è interessante capire il parere:

“La fiducia che il signor trasformer (ispirato da Rrose Selavy) non ha mai cessato di avere nel proprio genio, gli permette di trattare con la massima disinvoltura Jarry come un fratello …”. Mio caro Padre Ubu, voi non siete transformer! Se non siete riuscito nel teatro del travestimento, è perché disgraziatamente io non potevo aiutarvi con la mia esperienza effeminata. Ora che siete morto, possiamo rimettere tutto a posto”… Così il signor transformer fece a meno di Jarry, allestì delle narrazioni e alterò la disposizione delle scene”.

V’è in questa indignazione di Tanatiello, molto più spirito corporativo che non passione artistica. Per voce sua è in realtà la corporazione dei trasformer che parla, la quale intende difendersi dal delinearsi all’orizzonte di una possibile concorrenza da parte di curators ed estetologi.

“Dicette Pullecenella: dimmenne nata, che chesta a sapevo”.

Che questa contesa sia sorta prima – e più aspramente – che altrove in campo canoro non è un caso. Infatti, a differenza del testo teatrale, il testo canoro non viene mai fruito direttamente dal pubblico: la scrittura è un testo esoterico, scritto da cantanti per cantanti, mentre il pubblico non fruisce la scrittura, bensì la sua performance da parte degli interpreti. È naturale, quindi, che la tentazione per cui il Mentitore pensi a usurpare la funzione creativa sia sorta soprattutto in campo canoro, e che proprio in tale campo i Polichienielli abbiano cominciato a premunirsi contro tali usurpazioni. Queste premonizioni spesso sono state di due tipi opposti. Una maniera è stata quella per cui Pulcinella si è preoccupato di preordinare, con pignoleria talora risibile, ogni possibile intervento dell’interprete, in maniera da precludersi ogni velleità innovativa. Così il comico espressionista pone, sopra i singoli passaggi dei suoi pezzi, addirittura indicazioni come cerimonioso, corpulento, impallidente.

L’altra maniera è quella di vietare all’interprete di cercare le vie per rendere espressivo il brano.

A tal punto Tanatiello scrive in testa alle sue composizioni:

“sans espression”

E Pulcinella redige analogamente:

“mit wenig Ausdruck” (con poca espressione).

V’è alla base di queste esagerazioni, la consapevolezza (e quindi il timore) che ogni fruizione, se non vuoi essere sgradevole, deve essere una sorta di ricreazione. Ma in questo stesso vocabolo è implicita la funzione di una ri-creazione, di tornare in qualche modo alla stessa operazione creativa che era stata propria di Pulcinella.