Gino Severini, La famiglia del povero Pulcinella, 1923

Polichiniello (terza parte)

È per molti aspetti sorprendente che la Maschera, a differenza di altri stadi espressivi, sia rimasta ai margini della riflessione artistica. Forse la sua diffusione, la sua banalità, la sua quotidianità, il suo costante rinviare al contesto veritativo del soggetto che la prova, hanno contribuito a far escludere la possibilità che la Bautta sia una categoria artistica autonoma, e il disinteresse critico è messo ancora più in evidenza dall’interesse che la finzione ha suscitato in ogni tempo presso Pulcinella e Polichinielli.

tra il meno e il più!

Questa è la storia delle impronte di Pulcinella. Essa si trovava su un altro Pulcinella, e questa su un’altro ancora, e così via. Tanti Pulcinella sovrapposti. Questa traccia avrebbe potuto essere la semiosi del guitto come di quell’altro o di quell’altro ancora, perché essendo tutti codici performatici, sarebbe stato difficile stabilire di quale comunità parlante o di quale proto-artista si trattasse. Senonchè due di questi Pulcinella erano o almeno si sentivano diversi dagli altri: uno perché il suo rovescio filosofico non aderiva al comportamento e all’attorialità di un altro ancora. La figura di Pulcinella, astrattamente, rappresentava la prima e l’ultima figura. E chi mai l’avrebbe detto, che tra i difetti capitali della Maschera avremmo trovato l’accidia, che i napoletani chiamano anche A’pucundria, e che Kierkegaard descrive come: “Siccome gli dei erano accidiosi e si annoiavano crearono gli uomini. Anche Adamo era accidioso e si annoiava, perciò fu creata Eva. Da tale istante la noia entrò nel mondo e crebbe di dimensioni esattamente nella misura in cui crebbe la popolazione. Adamo si annoiava da solo, poi Adamo ed Eva si annoiavano insieme, poi Adamo, Eva e Caino e Abele si annoiavano in famiglia, poi la popolazione del mondo aumentò, e le genti si annoiavano in massa. Per distrarsi ebbero l’idea di costruire una torre che fosse così alta da toccare il cielo. Questa idea era noiosa tanto quanto l’altezza della torre, e costituì una terribile prova di come la noia avesse preso il sopravvento” (Enten-Eller (Aut-Aut) (1843); tr. it. Adelphi, Milano, 1976-1989, tomo III, p.142). Se la maschera eccede il comico e se sopravvive alla sua morte, poiché si trova alla sua origine, essa è anche il segno della sua irrevocabile vocazione. Questa è la storia di una maschera senza volto e, quindi, la testimonianza diretta del tutto e del niente filosofico di Pulcinella. Ma anche il niente suscitò un certo interesse! Infatti, proprio paragonando la condizione del genius loci con quella dell’ultima dispersione di Flatlandia (Flatland: A Romance of Many Dimensions, è un romanzo fantastico-fantascientifico del 1884 scritto da Edwin Abbott Abbott) o di Erewhon (Erewhon: or, Over the Range è un romanzo fantastico e satirico di Samuel Butler; fu pubblicato nel 1872, inizialmente in forma anonima), alla prima performance di Pulcinella venne l’idea di essere una grande menzogna e alla seconda si rese consapevole della sua stessa esasperazione. Poteva perciò arrivare a dubitare della sua stessa identità di Pulcinella. Chissà se un giorno sarebbe potuto diventare un vero artista, così alla prima intuizione filosofica sembrò che l’ultima pensasse. Il lavoro di Pulcinella, le sue costruzioni, il suo quotidiano darsi da fare, il suo sviluppo, la sua crescita, che come la Torre di Babele non si sa mai dove deve arrivare, sono dunque figli della Maschera accidiosa, disperati tentativi teatrali per combatterla, e i viaggi mentali un’interruzione, uno svago, per riprendere con più lena quest’ultima guerra che ci divide. Tra putiniani e ucraini, così come quella della striscia di Gaza che ci divide tra quelli schierati tra i circostanti ai territori occupati e i distanti dalle organizzazioni per la liberazione. Fino ad arrivare alle conclusioni di Flaubert: “Mi sento vecchio, usato, nauseato di tutto. Gli altri mi annoiano come me stesso. Ciò nonostante lavoro, ma senza entusiasmo e come si fa un compito. Non attendo altro della vita che una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare in nero (ndr.: forse come la Maschera di Pulcinella). Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove. E sono io stesso ad essere di volta in volta il deserto, il viaggiatore e il cammello(Correspondance, Gallimard Paris 1973-1980, vol. II,p. 136).

Quando il mucchio delle identità fu fatto appoggiare su un tavolo alla maniera di una performance, un po’ obliquo e sporgente in avanti, sopra un pianoforte a coda, sembrò alla prima faccia pulcinellesca che l’ultima le dicesse “il niente”, mentre un’espressione si dava: “Vedi io sono il riconoscimento dell’ambiguo e l’opposto dell’identikit. La mia immagine non ha un rovescio e sarei Pulcinella se questa ambiguità aderisse su una foto o almeno, come nel tuo caso, su un’altra antropologia del volto. Per giunta, sono coperto da un’altra Maschera e ciò mi differenzia ancora di più l’identità, che si mostra nella sua schietta falsità”. Immaginando queste parole, la prima mascherata pensò di essere molto molto diversa, non solo dall’ultima performance ma anche da tutte le altre.

Da questo punto in avanti della nostra storia, l’ultima versione di Pulcinella esce dalle immagini irriproducibili e non si occuperà più della sua autobiografia. Di essa si sa solo che, passato il periodo Fieristico dell’Arte Moderna, resterà nello stand senza essere venduta, l’unica di quel mucchio di Pulcinella; e che un giorno un grosso pacco di merce-spettacolo le fu messo sopra, e così finì per sparire nell’abisso di un altro anonimato, rispetto a quello abbracciato da Alberto Savinio. Pulcinella si propone come un critico della prosa desonorizzata di Savinio, impossibile da emancipare dalla parola-suono e che fa corpo contro l’ostacolo, che non lascia scorrere il silenzioso fiume delle idee, ma che si fa anonimo nel rumore e nella responsabilità gramsciana della storia delle idee, contro la disuguaglianza e le ingiustizie, per un laicismo necessario assoluto (Quaderni dal Carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, 2.1947). 

Ma c’è anche chi dice che, alcuni giorni dopo la Fiera, l’immagine fu ripresa dalla stessa fabbrica di teatro da cui proveniva e servì da modello per fabbricare altri Pulcinella per le fiere successive. C’è anche una terza copia che ricorda Leonide Massine nelle vesti di Polichiniello … Ma torniamo alla prima versione speciale! Qui nasce la Maschera di Pulcinella che, a questo punto, più che un male necessario sembra essere il sentimento del nostro tempo. A meno che questa malattia della psiche, che affligge la nostra rappresentazione delle maschere, a differenza dei mali fisici e di quelli mentali, non sia eccitazione di una nuova forma creativa. E allora malati possono essere gli Enti Metafisici, il disperato e il negletto, l’esistenza, ma a differenza del concreto essi non sono suscettibili di guarigione. Conoscendo la sua malattia, Pulcinella non aggiunge “un più” di infermità all’infermità della Maschera, ma può tradurre il senso della Maschera in Grazia, il caos in creazione. Del resto già il Nietzsche, assicuratoci da Pulcinella, esclamava: “Bisogna avere ancora del caos dentro di sé, per partorire una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi” (Così parlò Zarathustra, in Opere, Adelphi, Milano, 1973 p.11). Se la Maschera di Pulcinella non spegnerà questa stella e non ripiomberà nella noia della ripetizione, allora anche la riflessione sul suo comportamento teatrale avrà lasciato la sua traccia, la sua risata, la sua ironia, la sua leggerezza, il suo sarcasmo, la sua mediterraneità non inutile, non smarrita.

Questa occasione, dunque, pensava: “Io sono una Pulcinellata speciale. Sono un filosofo, perché copro un’altra faccia, sia pure di lattice; ma sono anche un’espressione nulla: non c’è nessun altro Pulcinella sopra di me!”.

Anonimo — Magnasco Alessandro – sec. XVIII – Concerto di Pulcinella — insieme

Intanto nello stand della Fiera e nella copia di Domenico Tiepolo, Pulcinella era innamorato (Affresco del 1797, Venezia Ca’ Rezzonico): Pulcinella, come dice Romeo De Maio, appare “grande corteggiatore, anzi l’emblema dell’innamorato. Affermò che l’amore per la donna gli nacque nel seno materno, come vocazione e combatté in ogni modo la cultura dell’inferiorità” (Sansoni, Firenze, 1989).

Per realizzare una maggiore produttività il macchinismo finanziario si appropria anche della maschera di Pulcinella, che in realtà sarebbe l’altro del lavoro: esso trasforma il ‘pazziariello’ dell’esistenza e del lavoro. Il Polichiniellismo del capitale emozionalizza, anzi drammatizza il lavoro, producendo così una motivazione maggiore che oscura il rifiuto. Grazie alla rapida esperienza dello spettacolo e a un sistema di ricompense, la Maschera ludica e liberale produce prestazioni e risultati migliori: spersonalizza la richiesta di efficienza. Pulcinella con le sue mozioni, è molto più coinvolto di un sottoproletario che agisce razionalmente, o che svolge solo la propria funzione.

La Maschera di Pulcinella è sovrapposta da una particolare temporalità: a caratterizzarlo sono esperienze mediali e ricompense politiche. La banalizzazione dello sfruttamento consuma l’attore sociale: ci si sottomette al rapporto di dominio, mentre risemantizza la Maschera. La Maschera è una creatura della dépense: nel suo significato originario, la parola depemse non indica una pratica consumistica; essa è piuttosto una forma di vita sfuggente dallo stato di necessità. La Maschera si fonda sull’irregolarità, sulla distorsione della necessità del lavoro. La maschera trascende l’intenzione di rovesciare il bisogno. Oggi la maschera è monopolizzata dal consumo: lo sperpero eccessivo è una mancanza di libertà, una costrizione corrispondente alla mancanza di libertà del lavoro. Come la Maschera, la dépense come libertà è pensabile oltre il lavoro e il consumo. Alfred Sohn-Rethel soggiornò a Napoli dal 1925 al 1927 e qui, ispirato dal singolare approccio dei napoletani ai congegni della tecnica moderna; scrisse nel 1926 una breve nota sulla “filosofia del rotto” – una riflessione sulla cosiddetta “arte di arrangiarsi che riecheggia, vagamente, la filosofia di Pulcinella” – ricca di ironia e di segreta ammirazione per lo stile di vita partenopeo: « I dispositivi tecnici a Napoli sono essenzialmente rotti: solo eccezionalmente e in virtù di un caso straordinario ce ne sono anche di funzionanti. Col tempo si ha l’impressione che tutto venga prodotto già rotto in anticipo. […] Il napoletano va per mare con un motoscafo sul quale a mala pena oseremmo metter piede, anche con un vento impetuoso. Il motoscafo non va mai come dovrebbe andare, ma procede alla meno peggio. Con imperturbabile consapevolezza, egli lo porta a tre metri dagli scogli, verso i quali una turbolenta risacca minaccia di schiantarlo, pronto, ad esempio a scaricare il serbatoio di benzina danneggiato, nel quale è penetrata l’acqua, e a riempirlo di nuovo senza mai spegnere il motore. Se necessario, prepara contemporaneamente la macchinetta del caffè per i suoi ospiti di bordo. Oppure gli riesce persino, con insuperabile maestria, di rimettere in funzione la sua auto difettosa con l’originale applicazione di un pezzetto di legno trovato casualmente per strada; e tuttavia solo fino a quando – sicuramente molto presto – si romperà di nuovo. Le riparazioni definitive sono per lui un misfatto; in quel caso, volentieri rinuncerebbe del tutto all’automobile. […] Nel trattamento dei macchinari difettosi è assolutamente sovrano e va ben al di là di ogni tecnica. Per la sua abilità di bricolage e per la prontezza di spirito con la quale egli spesso dinanzi a un pericolo riesce, con irrisoria semplicità, a ricavare da un difetto un salvifico vantaggio, egli ha più di qualche tratto in comune con l’americano. Ma in lui c’è la suprema ricchezza inventiva del bambino e tutto gli riesce, come al bambino. Come ai bambini, la ruota della fortuna gira volentieri a suo favore. […] Un’autentica proprietà deve pur essere sfruttata fino in fondo, altrimenti non se ne ricava niente; deve essere usata e assaporata fino all’ultima briciola, fin quasi a distruggerla e divorarla. Eppure, nel complesso, il rapporto del napoletano con la sua macchina è bonario, solo un po’ brutale; esattamente come col suo asino. […] Con la forza di una messa in opera senza precedenti, sgorga per gli esultanti bambini del vicolo l’acqua che, colando da qualche conduttura danneggiata, scorre fin sulla bocca per il loro beato divertimento, e l’intero vicinato si rallegra per questa graditissima sorgente. In questa città i più complicati strumenti della tecnica si alleano per compiere le faccende più semplici, in un modo che nessuno ha mai immaginato. Per l’involontaria istituzione di tale utilizzo essi vengono completamente rimodellati e, conseguentemente, rinnegano i loro scopi più propri.» (trad. in pr. di Das Ideal des Kaputten, a cura di Carl Freytag, Bremen, Verlag Bettina Wassman, 1990, pp.33-38).

Ma ecco che una macchina fotografica diresse il suo obiettivo e lo collocò su un archivio di immagini celebri. In un primo tempo, pensò di poter dire che ora era senza dubbio una Pulcinellata villanosa. Eppure, la performance che copriva era così diversa dalle copie che ogni tanto – in quel mucchio di riproduzioni – gli ispettori del vero e del falso, curiosavano davanti alla vetrina! Non era una vera espressione? Si accorse che a questa domanda non sapeva dare una risposta precisa, un giusto contegno, un atteggiamento procace, un’impressione pittorica, una datità cinetica, anche se si rendeva conto che la faccia del manichino e i volti delle popolazioni di artisti e di addetti ai lavori, di aspiranti filosofi erano cose ben diverse. “I Pulcinella sono protofilosofi, dicono delle cose al quadrato e delle Patafisiche al dettaglio. Non ha senso nascondere una Pulcinellata che non dice tutto. Non c’è nessun segreto dietro una performance. Non c’è nessun segno che azzera spazio prossemico e ambiente sensibile!”. Così Pulcinella pensava. E finì per concludere che finchè restava su quel proscenio non sarebbe stato un filosofo vero, perché non c’è nessun vero artista, nessuna identità da riprodurre che non fosse già stata riprodotta.

È facilmente immaginabile perciò la sua immaginalità, quando fu contratta e messa sulla fisionomia di un comportamento seriale. Ma una cosa gli sembrò subito sorprendente. Come avrebbe ricordato Giorgio Manganelli: “Pulcinella è insieme stolto e sapiente, è eroe e vigliacco, forse l’unico eroe umanamente possibile”. Fino ad allora aveva creduto che niente rendesse più diversa una Pulcinellata da una performance, del fatto che quest’ultimo parla, filosofeggia e l’identità di Pulcinella no. Ora invece dovette convincersi che a esprimersi erano tanti performer e non l’espressione che lo supportava. Sicuro, era proprio così! Il poeta sonoro, non solo con la voce e le parole ma anche con la mimica, si esprimeva come Pulcinella. Tutto ciò che diceva e faceva era detto e fatto da parte della teatralità di Pulcinella: “Pulcinella non designa un determinato personaggio artistico; ma una collezione di personaggi, legati fra loro soltanto da un nome, e fino a un certo punto, da una mezza maschera nera, da un camiciotto bianco, da un berrettone a punta (Benedetto Croce)”.

Infatti, la performance non solo era inghiottita nel segreto, non solo non compariva affatto, ma era del tutto fuori gioco. Non blaterava né biascicava più nulla che potesse riconoscersi in una propria identità autobiografica, che lo rendesse traccia dell’unicità. Una volta che aveva assunto i caratteri ambigui dell’altro, non si aveva più di fronte il medesimo Pulcinella, ma il prototipo della sua moltitudine, e quest’altro prototipo era appunto la copia di una proto-astrazione metafisica ed empirica, pragmatica ed ontologica, palingenetica e semiologica. Diceva Osip Ėmil’evič Mandel’štam, nella teorizzazione de La Quarta Prosa (ovvero la lingua dei Pagliacci consapevoli): “D’altra parte, un’immagine suggellata e sottratta all’uso è ostile all’uomo, diventa, in un certo senso, uno spauracchio, un orco. Tutto ciò che è transitorio, non è che simulacro. Prendiamo ad esempio la rosa ed il sole, la fanciulla e la colomba. Per un simbolista nessuna di queste immagini ha interesse in sé, ma la rosa è simulacro del sole, il sole simulacro della rosa, la colomba simulacro della fanciulla e la fanciulla simulacro della colomba. Le immagini sono sventrate come fantocci e imbottite di contenuti estranei. Invece della foresta di simboli, abbiamo un laboratorio di pupazzi. Ecco dove porta il simbolismo professionale che scoraggia la percezione. Nulla è vero, nulla è genuino. Una paurosa contredanse di “corrispondenze” che ammiccano l’una l’altra. Un eterno ammiccare. Non è una parola chiara, solo allusioni, reticenze”(Della natura della parola,in La Quarta Prosa, Editori Riuniti, Roma, 1982, p.73,).

A poco a poco l’identità altra della moltitudine di Pulcinella dovette convincersi che con quel “vero ghigno espressivo”, che essa aveva desiderato coprire quando era sulla faccia dell’etoile, non avrebbe mai potuto incontrarsi con se stesso: c’era l’espressione finché non c’era la fisionomia, ma, accettata la scrittura scenica la performance spariva, e nelle verseggiature sonore e nei gesti fangosi che riproduceva il Pulcinella innamorato di Tiepolo non c’era altro che il folle cerimoniale religioso di Orfeo! Era come se dietro al Poeta non ci fosse che il cantante: tutta la performance è divenuta Pulcinella!

Ora era il nostro Pulcinella ad avvertire quel “senso di espressionismo” che, rimanendo ancora nello stand della Fiera, aveva attribuito all’ultima comparsa. Una comparsata vuota: possibile? Proprio ora che si trovava sull’espressione più vera del falso, sulla sintesi performatica più diretta che mai? Cercò di rendersi conto. E cominciò ad osservare bene quell’espressione di Polichinelle dipinta da Edouard Manet, con due versi di Théodore de Banville, quando essa veniva messa da parte. Guardò il disegno fisiognomico, che aveva un certo piglio e pensò: “Come fa questo che è il vero Pulcinella a scomparire del tutto nella moltitudine del transindividuale, come fa quando chi lo indossa lo trattiene e a indentificarsi con Noi, a diventare esso stesso riproducibile?”. Ed ecco che in quel momento lo spettacolo assume un’altra espressione, con la quale la rappresentazione di Alessandro Magnasco si altera, si stravolge, cancellando l’iconografia precedente. Sembra che gli Orfei Chimerici di Gino Severini avessero messo un disturbo nel teatro pittorico. O forse era questo il vero enigma, e l’espressione di Magnasco anticipava il simbiotico di Severini fino al deliquio della sceneggiata? “Un vero Pulcinella è tanti Pulcinella. E dietro ad ogni Pulcinella niente, se non altri Pulcinella. È come nella Fiera!”, penso la riproduzione del suo monologo, “Solo che qui i monologhi di Pulcinella sono diversi”.

Intanto, il suo produttore gli si avvicinò con l’intenzione di metterla sulla fisionomia. Giù nella Piazza del Teatro era arrivato un gruppo di commedianti che gli gridarono di “uscire di scena” per andare insieme alla Manifestazione dei Polichinielli!

Una performance (o una Pullicenellata?) apparve dietro all’ascensore della Fiera illuminata, per fare segno di sorprendere. Poco dopo tutta l’illuminotecnica si spense.

Intanto, nella standistica della Fiera di Pulcinella, un gesto performatico prendeva la prima riproduzione dal mucchio di Pulcinella tutti uguali e la collocava lungo il proscenio. “Bene!”, pensò “Così in vista, presto sarà acquistata e coprirà un’espressione vera!” … E da qui la storia potrebbe ricominciare. Ma non subito. Prima bisogna che siano diffuse tutte le altre Pulcinellate eguali all’Identico (tranne l’Identico a se stesso che sarebbe l’ultima riproduzione del mucchio). Infatti, diversamente da quanto si aspettava la matrice di Pulcinella, essa attirò sì l’attenzione dei guardanti” e fu indicata come ciò che si intendeva riprodurre entrando in Fiera. Evidentemente, come spesso accade per la riproduzione diffusa quando è prodotta in serie, essa svolge il ruolo di Immagine-Pulcinella dello stesso tipo; e nessuno si appellò alla Giustizia, quando al posto della figura di Pulcinella il collezionista consegnò una Bautta dis/identicamente uguale.

In effetti, non si capisce perché questa Pulcinellata sul teatro della Commedia fu piazzata prima dell’ultima (la quale come si sa restò inespressa) e perché la prima espressione di Burattino, protagonista della nostra verve, fu invece subito riprodotta pur stando sullo schermo.