Idem Studio, Air, veduta dall'alto

Pittura Ambiente I – I nomi della pittura

Il Castello di Rivara diviene lo sfondo di Pittura Ambiente I. La mostra, a cura di Fabio Vito Lacertosa, esplora le derive della pittura contemporanea e gli ambienti entro i quali essa si muove. Spazi mnemonici, strutturali, psicologici, domestici, monumentali nei quali 15 artisti raccontano la pittura come dialettica tra punto, frammento e corpus.

Percorrendo il parco del Castello Nuovo di Rivara, l’installazione realizzata da IDEM Studio ci accoglie da lontano, invitandoci a scoprire cosa siano quelle grandi forme geometriche che sembrano cadere da una delle finestre della facciata neobarocca.

“AIR” – questo il titolo del lavoro realizzato da Ruggero Baragliu, Samuele Pigliapochi e Angelo Spatola – si presenta come un’opera ambientale, che racchiude al suo interno tutta la cifra stilistica del trio: intervento festoso e magniloquente, architettonico e profano, si fa tutt’uno con il castello, richiamando alla mente altre installazioni che hanno animato Rivara nel corso della sua storia. Sembra quasi tracciare un fil rouge temporale con precedenti illustri che, a loro volta, hanno giocato con gli ambienti e la monumentalità del Castello, pur conservando una leggerezza poetica e giocosa: l’HAHA di “The Delicious Eye”, il Maurizio Cattelan di “Fuga da Rivara”, il Felix Gonzales-Torres di “Untitled (March 5th) #1”, fino ad arrivare all’Aldo Spoldi di “La scalata al Castello di Rivara”. Anche i colori – comunque caratteristici di IDEM Studio – si inseriscono in un’ipotetica palette “locale”, ricordando in alcuni casi il Christoph Andres di “Skulptur I”, il Charles Ray di “Revolution Counter Revolution” e, ancora una volta, Spoldi.

L’opera è, come dicevamo, intervento ambientale (in dialogo con ciò che gli sta intorno), pittura espansa (non costretta dentro a perimetri), esperienza di accumulo (non risolta nella sola superficie del “coriandolo”) e riproduzione decentrata (debitrice delle “ripetizioni” pop anni ‘60). L’azione è gioiosa, fortemente monumentale e relativamente indipendente, poiché, grazie alle sue forti linee cinetiche di caduta dall’alto verso il basso, supera il proprio supporto, pur nascendo concretamente all’interno dello stesso. 

Non si può parlare di“AIR”, però, come se si trattasse di un lavoro isolato. Al contrario, l’opera si inserisce all’interno della rassegna Pittura Ambiente I, a cura di Fabio Vito Lacertosa.

In questa collettiva, il termine pittura ci parla di una tecnica artistica sempre diversa, che esplode verso l’esterno in tante modalità differenti e crea ambienti in cui far convivere emozioni, colori e segni, soprattutto quelli che non sono contenuti all’interno del supporto. Già, il supporto. Da questo punto di vista, la mostra ci offre un modo inconsueto di approcciare la pittura e fa riflettere sull’idea di un’opera racchiusa/rinchiusa all’interno di una tela, delimitata da cornici e iscritta in perimetri. Paradossalmente, questo pensiero è un costrutto relativamente “recente” e tende a farci dimenticare le mille sfaccettature di cosa voglia dire generare pittura e, per estensione, arte. 

Permettiamoci, allora, un piccolo détour storico, pensando all’arte cavernicola del Paleolitico; agli affreschi guatemaltechi; ai sudari egiziani; ai mosaici delle ville romane; alle decorazioni su oggetti comuni tipiche della cultura sudamericana e asiatica (piatti, vasi, tuniche, statuette); alle pale d’altare del Duecento; ai lenzuoli funebri peruviani; agli arazzi e ai paraventi cinesi. Si pensi, ancora, a come la pittura fosse intrinsecamente legata alle altri arti, mai isolata e, al contrario, pronta a dialogare con architettura e scultura per creare narrazioni complete. In questi casi, anche se il gesto pittorico veniva inscritto in una “cornice”, la sua genesi avveniva come pensata – e poi continuata – all’esterno di questi perimetri e, perciò, in relazione con ciò che stava intorno. La Cappella Cornaro è uno degli esempi più riusciti di questa commistione, così come, in epoca precedente, l’interno paleobizantino dell’Oratorio di Santa Maria in Valle.

Ma ritorniamo, nuovamente, al titolo della nostra mostra; abbiamo appena ragionato su una pittura non più confinata all’interno di quadrati e rettangoli, ma libera di muoversi con agilità. Allo stesso modo – astraendo il ragionamento – potremmo, ora, avviare una serie di riflessioni sul termine ambiente.

Con ambiente, in questo caso specifico, non si andrà a parlare nel concreto di una costruzione paesaggistica o architettonica, bensì di una serie di luoghi più vaghi; stanze intangibili che offrono all’arte spazi infiniti per espandersi e distendersi, per creare mondi o per richiamare alla memoria sensazioni lontane. Ambienti come movimenti che compongono le suite musicali. Ambienti mnemonici, strutturali, psicologici, domestici, personali, monumentali. Ambienti ben definiti o solo accennati che dialogano con il Castello di Rivara, con la sua storia, le sue tensioni, i suoi colori e le sue architetture. Ambienti che generano relazioni che si sviluppano all’interno (e all’esterno) delle sale di mostra.

Ecco, allora, che abbiamo eviscerato il titolo Pittura Ambiente I. Per i più scrupolosi – oltre a confermare che quell’I indica che in futuro ci saranno altri capitoli – possiamo riflettere ancora su un aspetto: i limiti stessi della tecnica pittorica e di come questi limiti possano essere sfondati, superati e poi ricondotti all’interno di una mostra come quella curata da Lacertosa. Sì, perché non di solo colore vive la pittura o, perlomeno, non di solo colore steso su supporto, ma anche di incisione, di linea, di punto e di superficie.

E per ragionare su questo concetto torniamo, ancora una volta, all’arte preistorica. Agli albori della nostra storia, il compito del colore era principalmente quello di veicolare il segno ed è proprio quest’ultimo la parte essenziale dell’arte rupestre. Prendiamo come esempio l’opera le “Giraffe di Dabous”, del 4000 a.C., scoperta in Niger: notiamo come qui il colore non sia presente. Queste espressioni artistico-documentative sono formalmente incisioni, ma è innegabile che conservino la stessa urgenza di espressione e di mero gesto fisico presente nelle pitture coeve. Inoltre, è ipotesi quantomeno plausibile tra gli storici che, molte di queste incisioni rupestri, potessero (e dovessero) essere ricoperte, successivamente, di sostanze coloranti o del sangue sacrificale di qualche animale, quasi ad amplificare, così, la potenza ritualistica del segno che si fa, così, gesto proto-pittorico.

In questo senso, “Ripped” di Domenico Falcone, serie che apre il percorso interno di Pittura Ambiente I, ci catapulta subito nel cuore del discorso, con delle tele che uniscono segno, sostanza e colore, impilandoli in maniera quasi tridimensionale. Questa carrellata di gesti – pittorici e materici – molto carnali, delineano un ambiente vagamente sensuale, dove la morbosità si fa finezza e ci accompagna nella seconda stanza. Qui, Paolo Assenza cattura la nostra attenzione con tutta la forza delicata dei suoi moderni “paesaggi ottocenteschi”, generati per sottrazione, che sembrano colare dai confini della tela. Fa da contraltare un’altra forma di effimero visivo, creato con certosina pazienza segnica: Elvio Chiricozzi utilizza una tecnica “altra” (in questo caso la matita) per esprimere il suo ambiente pittorico, fatto di una voglia di libertà (le nuvole) conquistata attraverso il duro lavoro (la maniacalità del gesto). Entrambi dialogano per antitesi, nella sala successiva, con l’ironia di Salvatore Astore, che elegge a paesaggio ideale quello che, per antonomasia, è il luogo più personale e domestico di tutti (il bagno), in una fuga scatologica dai dettami della pittura colta. A fare da sfondo ad Astore e a un secondo lavoro del laborioso Chiricozzi ci pensa il Castello stesso, con l’opera anonima di un artista dell’800 che ha affrescato la scalinata del palazzo: forse l’ambiente – nel senso panoramico del termine – più esplicito che incontreremo in mostra.

Siamo, ora, al piano superiore del Castello; a chiudere la prima parte della mostra, troviamo l’opera di Monica Taverniti: il suo “feticcio contemporaneo”, appoggiato su un tavolo specchiante che ne raddoppia l’immagine, ricorda quasi una statuetta peruviana della serie dei “Dignitari in Piedi” (700 d.C.). Come per la statua appena descritta, anche qui la pittura viene intesa come le campiture di colore che ornano l’opera e dialogano con la sua superficie compatta, invitando il visitatore a girare attorno a questo curioso “robottino”.

Monica Taverniti, Solo-flight

Sono proprio i “feticci” di Taverniti che tornano a darci il benvenuto all’inizio della seconda parte della collettiva; i colori di questi due nuovi inserti – il cui segno pittorico è ancora più materico rispetto a quello precedente – si inseriscono perfettamente nell’atmosfera della biblioteca del Castello, che ospita, contemporaneamente, la mostra del Centro di Documentazione Cartaceo sulla Galerie Bruno Bischofberger, a cura di Federica Arra (un altro insieme – questa volta fotografico-pubblicistico – che genera ambienti territoriali e riflessioni sistemiche sul mondo dell’arte contemporanea).

Rodrigo Blanco, Diventare altro

Salendo all’ultimo piano del castello, ci ritroviamo davanti al “retro” di “AIR”: siamo al cospetto della parte meno “gioiosa” e magniloquente dell’opera, ma è forse quella che ci fa entrare davvero in contatto con il lavoro del trio. Nella stessa stanza, Rodrigo Blanco e Luca Arboccò completano un trittico fatto di segni, colori, forme e linee cinetiche: il dinamismo cromatico che “brucia” verso l’interno del quadro di Arboccò ben si bilancia con il dislocamento pittorico di Blanco. La sua palette di colori, più delicata, tende a catturare psicologicamente il visitatore, proprio perché offre un “porto franco” fatto di calma e riflessione, dove le campiture raddoppiano gli spazi della sala, sviluppandosi placidamente oltre i confini della tela. Proprio la sua opera, introduce perfettamente i lavori di Olga Sosnovskaya – ospitati nel corridoio antistante le sale della “biblioteca scientifica” – con cui risuona in termini di eleganza, essenzialità e cromie. La tecnica del ricamo, qui utilizzata, ci mette ancora una volta davanti a una serie di lavori che reinterpretano la pittura in quanto segno: in questo caso il gesto si fa punto, «associato alla massima concisione, al massimo riserbo, che però parla. […] l’elemento originario della pittura» per dirla con le parole di Kandinsky. Il suo lavoro è il diretto contraltare del “macro” di IDEM Studio: da un lato la concentrazione di Sosnovskaya (sia di compressione del segno ridotto a punto, sia nell’attenzione e pazienza che la tecnica del punto pieno richiede), che invita il visitatore ad avvicinarsi, così da abbandonarsi all’interno dei suoi mondi ricamati. Dall’altro, il decentramento ambientale del trio di artisti che chiede – almeno in prima battuta – di essere fruito facendo un passo indietro.  

Nella penultima sala del piano troviamo nuovamente Arboccò che, partendo dalla serie delle “Carceri d’Invenzione” di Giovanni Battista Piranesi, si appropria di questi ambienti architettonici frammentandoli e rielaborandoli attraverso un’operazione di grafica essenzialista. L’allestimento pensato per il lavoro, posto a scacchiera sul pavimento, porta avanti il concetto di ripetizione/frammentazione già incontrato in precedenza, creando finestre cromatiche che si affacciano su ambienti personali e fantastici (una resa che mantiene così intatta l’anima e l’obiettivo del lavoro originale di Piranesi). Eccoci, quindi, giunti nell’ultima stanza del piano, quella che ospita Giovanna Preve: qui il gioco dell’ambiente diventa mnemonico, in quanto Preve utilizza come genesi di questa serie pittorica, dai tratti vagamente espressionisti, i ricordi e le emozioni della sua esperienza da protagonista passata alla Cavallerizza Reale di Torino.

A chiudere la mostra troviamo “A/R”, una sezione (anzi, movimento) composta dall’opera a quattro mani di Daniela Perego e Maurizio Taioli che offre echi kounellisiani. Già dal titolo, graficamente vicino ad “AIR”, è chiara la sua posizione all’interno del percorso espositivo: l’intervento, proprio come l’installazione di IDEM Studio, abbraccia le architetture – questa volta interne – del Castello, creando un perfetto bilanciamento che fa ritornare Da Capo.

Con questa amplissima intuizione teorica, Lacertosa impila artisti, stili, espedienti visivi e giochi prospettici in un’esperienza allo stesso tempo strutturata, ma libera di frammentarsi e ricomporsi, fermarsi e ripartire, svelare e celare, in ogni sala del Castello. In questo, Pittura Ambiente I si pone come continuazione ideale di alcune delle più importanti esposizioni ospitate a Rivara; non solo della rassegna Equinozio d’Autunno come viene esplicitamente evidenziato fin dalle prime righe del testo di sala, ma soprattutto delle collettive presenti tra metà anni ’80 e metà anni ’90: Palestra (1988), C’è Cultura Perché C’è Natura, C’è Natura Perché C’è Cultura (1990), Aspetti e Pratiche dell’Arte Europea (1990), Itineraries (1991), Viaggio a Los Angeles (1992), Paesaggi (1994).

All’interno di Pittura Ambiente I c’è la stessa urgenza che possiamo ritrovare nelle mostre appena citate, anche solo sfogliandone il catalogo. In tutta questa serie di esposizioni collettive si poteva osservare una necessità intrinseca di utilizzare la ricerca e le opere degli artisti selezionati per sviluppare un discorso culturale, così da fare il punto sul mondo dell’arte o per veicolare riflessioni teoriche sul sistema del contemporaneo. Si volevano offrire ai visitatori degli ambienti, attraverso il recupero dell’indeterminazione dei significati delle opere d’arte che, questi stessi ambienti, andavano a crearli. Esattamente come oggi fa la mostra curata da Lacertosa.

«La visita di una mostra diventa una penetrazione dello spazio e un atto di ricerca dell’arte, informato dal modo in cui la progressione conduce da un’opera d’arte all’altra: la mostra diventa un campo in cui queste opere d’arte sono elementi con i quali lo spettatore costruisce la sua narrativa». Comunicato stampa della mostra Itineraries, 8 giugno 1991.