Diacronica

Omar Galliani. Diacronica Il tempo sospeso

Milano è un luogo destinato all’arte. I suoi musei, le chiese, le piazze e i suoi navigli sono intrisi di storia e di bellezza. È difficile scegliere che cosa visitare; nell’afa estiva e tra la folla, l’attenzione è attratta e distratta dalle insegne che sui fianchi dei tram e nei viali invitano alle mostre. Ma una, tra queste, si impone per colore e per linguaggio; non riproduce la foto di performance, oppure installazioni care all’arte contemporanea, ma un disegno, scelto come simbolo della mostra “Diacronica Il tempo sospeso” di Omar Galliani, visitabile a Palazzo reale fino al 24 settembre 2023.

L’immagine, che nell’opera originale è a matita su tavola, è stata eseguita dall’artista nel 2020; è il volto di un’adolescente: schiva, lo sguardo basso. Incuriosisce per la presenza di un albero minuscolo su uno sfondo invaso da colibrì, i piccoli uccelli che resistono immobili a mezz’aria, capaci di volare anche all’indietro. E suggerisce l’idea che tutto può accadere, e non solo per il significato veicolato dalle figure, ma anche per quello trasmesso dal titolo del disegno, “De rerum natura”, mutuato dal poema del I secolo a.C. di Lucrezio, il cui incipit celebrava Epicuro come precettore per un vivere felici. 

Sicché salendo lo scalone d’onore che dal pianterreno porta al piano nobile di Palazzo reale, la sensazione dei visitatori è di potersi consegnare agli straordinari capolavori di Omar Galliani, Maestro indiscusso del disegno, per gustarne una bellezza che fine a se stessa è anche funzionale.

Il percorso espositivo comprende oltre cento opere, eseguite dagli anni Settanta a oggi, collocate non in ordine cronologico e pubblicate da “Corsiero editore” insieme ai testi critici dei due curatori, Flavio Caroli e Vera Agosti, oltre a quelli di Italo Tomassoni, Alessandra Tiddia, Giovanni Gazzaneo ed Eleonora Frattarolo. 

Tranne una scultura e alcuni dipinti a olio, sono esposti disegni a carboncino, grafite e pastello su carta o su tavole di pioppo, o tela, con interventi a inchiostro.

Galliani ama usare la grafite, per lui “diamante giovane”, per riflettere la luce; il carboncino quando il nero vuol essere profondo; e il pioppo per le sue venature e superfici chiare che permettono un affondo preciso e sfumato della grafite.  

Nel titolo della mostra, Diacronica Il tempo sospeso, è stata evitata la parola “retrospettiva” perché “in Galliani il tempo è interpretato come categoria – scrive Tomassoni – in grado di retrocedere”: tra tradizione e modernità, l’artista attinge i suoi soggetti da Caravaggio, Bronzino, Botticelli; da rotocalchi e da internet. 

“Che cos’è un disegno?! È un rapporto diretto con qualcosa a cui stiamo pensando”, dice sottovoce. 

Classe 1954, già docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, la sua prima personale è all’età di ventitré anni a Bologna alla “Galleria G7 Studio” di Ginevra Grigolo. Il primo disegno alle scuole elementari: un coloratissimo e grande gallo; poi, ancora molto giovane, ritrae una ballerina sulla parete di una casa condivisa a Firenze con un gruppo di studenti: “Era a due passi dall’Accademia e da piazza San Marco. Ricordo ancora quel disegno in b/n che realizzai sul muro della mia stanza da letto. Non ne ho avuto più notizia”.  

La mostra di Milano è la storia di anni di lavoro. È allestita in dieci sale. La prima fa da prologo, con tre opere tra cui Baci rubati-Covid 19 composta da sessanta disegni, ognuno dei quali di 50 x 50 cm, realizzati nei giorni del lockdown: “Sono i baci che ci sono mancati nel periodo della chiusura forzata in casa e del distanziamento sociale” scrive Vera Agosti nel saggio del catalogo, “passionali e sensuali, come quelli cinematografici; si tratta di immagini prese dal web, rese delicate e oniriche dalla morbidezza del carboncino e dalla grafite”. Del 1977 è invece Dalla bocca e dal collo del foglio, che si ispira al Sacrificio di Isacco del Caravaggio dal quale è estrapolato solo il gesto dell’angelo che ferma la mano di Abramo; un pezzo di vetro a forma di lama fuoriesce dall’angolo diametralmente opposto, dai margini strappati della carta. Da quella prima sala, piena di luce, il percorso espositivo prosegue in un’atmosfera che muta completamente: buia, obbliga i passi e lo sguardo a rallentare; fanno da guida solo piccole luci in cui le opere appaiono sospese; è un allestimento progettato da Paola Tagliavini e dallo Studio Apiudieci; fa pensare alle liriche sulla notte di Alda Merini e di Cesare Pavese: “quando cadono gli ultimi spaventi e l’anima si getta all’avventura” e “le stelle passano stanche”. 

Al centro della seconda sala domina una scultura, tecnica non consueta per l’artista: è Traiettorie dell’essere del 1983, sei teste con archi, in acciaio, dedicate alla nascita del pensiero; volgono lo sguardo in direzione di tre quadri dalle grandi dimensioni eseguiti nel 2014 a matita su tavola, i cui titoli, Cassiopea, Prometeo e Orione, sono presi in prestito dalla nomenclatura astronomica, ma ritraggono rispettivamente le ossa del bacino, una vertebra e una dentatura disegnati come se fossero forme astrali in uno spazio siderale. 

Nel 2020 Omar Galliani perde il figlio Massimiliano. Da quel momento i suoi sonni sono scanditi da un sogno ricorrente con un numero: il 7419. Cerca di interpretarlo e scopre che quel numero corrisponde a un ammasso di stelle a forma di matita. Anche Massimiliano era un artista, che come il padre amava disegnare. È così che nasce la notte infinita di NGC 7419 che esegue, a matita su tavola, nel 2021.

Proseguendo, il De rerum natura, che appare nel manifesto-guida della mostra, è esposto nella terza sala, dove dettagli anatomici tornano in opere monumentali come il Respiro dell’universo che si fonde con il respiro umano: una gabbia toracica disegnata a grafite in un buio cielo stellato. “L’ho fatto nel 2008, molto prima del covid” dice. E poi Vanitas e Nuovi santi: teschi, e immagini tratte da riviste di moda, con aureole e rosari.

Le opere della sala successiva, Il doppio, con figure che si specchiano come Omar/Roma/Amor del 2012 o Rosso Cadmio per Caravaggio del 2017, trovano origine in un periodo in cui è ancora molto giovane, quando un bel giorno scopre che l’umidità del pavimento aveva creato una copia speculare di un suo disegno che aveva appoggiato a terra e che era rimasto lì per qualche tempo sotto alcuni cataloghi molto pesanti. In un’intervista del 2019 Galliani racconta così quell’esperienza: “Il mio primo disegno siamese è nato da una casualità fisica ma non concettuale se consideriamo la mia trattazione della storia dell’arte quale corpo rimosso. Quel disegno siamese è poi riemerso nel tempo come riemergono in noi i segni o i sogni, neuroni specchio, tra scienza e trascendenza”.

C’è anche una sala dedicata ai dipinti ad olio, tecnica esercitata negli anni Ottanta, e che oggi usa “una volta all’anno quando nevica”.  

E poi le tavole che ricordano i suoi viaggi in Oriente, ad esempio La Principessa Lyu Ji nel suo quindicesimo anno di età del 2008: si basa su un’antica leggenda di cui Galliani è venuto a conoscenza a Xi’an; così ne scrive Vera Agosti: “Della fanciulla restano rose e forbici, scarpette e coltelli, una sineddoche visiva della femminilità e della narrazione, di nuovo una fusione di concettuale e poesia che ci permette di intuire la tragica vicenda della ragazza”. 

E poi Il sacro, e Gli anni Ottanta sono le sale successive; e Le Biennali, con le opere esposte alle Biennali di Venezia, Parigi, San Paolo del Brasile, Praga e Tokyo.

Infine le sue parole: “Dedico questa mostra a mio padre che è venuto a mancare durante l’allestimento”.