Ma io so, cara Lucia, che non è questo che tu ti aspetti da me. Tu stessa eri contraria a qualsiasi solennità. Spesso nei tuoi articoli apparivi, al lettore, piena di pathos. Ma chi ha udito una volta il suono della tua voce – ah che bella voce che avevi (!) – a costui il tuo modo di scrivere appariva il più naturale del mondo, directement nonchalant.
Ma io devo pur spiegare al lettore com’eri. Di te si dice soltanto che sei stata la fondatrice, insieme a Umberto Sala, della rivista Segno e durante la pratica giornalistica te ne andavi fiera per le Rassegne d’Arte Contemporanea! Allora una mediatrice, una che passa il suo tempo tra le opportunità di uno stand e l’altro! Ebbene no, tu non lo eri; tu eri la più parsimoniosa direttrice fra i direttori! Ogni mattina, prima di metterti a redigere Segno, contavi la tua formazione classica, la cura delle versioni delle tue amiche e nipoti, che traducevi con grande facilità! Potevi rendere conto di ogni sintesi. Ogni parola risparmiata la portavi alla Banca del Lessico D’arte. E allorché qualche volta – eri nella fluidità dell’impressione – venivi a sapere di qualsiasi refuso e inevitabile barocchismo, per registrare l’ordinaria telegraficità. Allora una economista del testo! No, per Dio che ti accoglie, non lo eri di certo. Sempre mantenevi qualcosa da dare a tutti i redattori, critici, storici dell’arte, curatori e curatrici e, soprattutto, donne della “trasparenza e della fiducia” come te! Eri una voce costante nelle biografie degli emergenti, un pensiero ideale nelle storie dei dimenticati e di quelli di successo, pronta a difendere l’appoggio delle nuove proposte.
Si chieda alle redattrici di Segno, ai redattori più abbottonati e ai poeti più timidi. No, nessuna discrezione lasciava mance come quelle di Lucia! E quando si tratta di comunicare a qualcuno il più presto possibile uno slancio di cuore, veniva chiamato il vocabolario nel pieno del suo lessico, perché consegnasse alla pagina centrale un telegramma di gratitudine, per il quale se ne andavano tutte le parole che occorrevano. Contenuto: tanta ammirazione! Ma in lingua classica! Allora, dunque, una estimatrice dell’arte italiana della neo-avanguardia e di tutti i risultati successivi! No, non eri solo questo. Non si è mai vista nel nostro territorio una scrittrice d’arte più delicata e sensibile di te! Tra centinaia di artisti sapevi scegliere con sicurezza assoluta quelli più diretti, ma non con le mani, no, soltanto con gli occhi. Con gli occhi riconoscevi l’espressione squisita, il pezzo da novanta! Di qualsiasi autore trattavi soltanto la parte più leggera: espressione a contatto! Eri dunque avida di piaceri. Poiché ti si trovava di preferenza in quei luoghi dell’esposizione in cui si esibivano le tracce del contemporaneo, lì dove si beveva l’acqua potabile della comprensione e le ragazze – come te – ballavano.
Eri quindi una pasionaria mia cara. Ma sì, nessuno amava la danza dell’arte più profondamente di te! Così come i bambini detestano l’amara medicina, tu aborrivi il vino dell’arte che ubriacava e non esponeva. Detestavi le incomprensioni e le ingiustizie. Soltanto quando suonavano una melodia poetica o espressiva, allora prestavi attenzione, ascoltavi rapita e la accompagnavi con una frase ironica, un commento cordiale, una satira leggera. La tua voce aveva il timbro della tua scrittura. Capitava talvolta che si girava insieme per stand fieristici. Ma non volevi soffermarti solo per frugare qualche informazione, l’obiettivo era ben oltre: ogni icona che veniva pronunciata ti procurava una sensazione.
Eri quindi l’indagatrice del “Segno nel Segno”? Sì! I tuoi lettori sostenevano di aver capito attraverso i tuoi articoli che eri la persistenza delle scrittrici d’arte. Come restavano gratificati quando ti leggevano, quando ti sentivan parlare. Perché tu la conoscevi l’arte italiana dal ’70 agli anni ‘2000; tu, che nel tuo corpo di interprete nascondevi il pudore dell’estetica artistica moderna!
Credo di averti conosciuta da sempre. Posso ricordare qualcosa di te con brevi flash, quelle memorie che non si cancellano. Fiera di Bologna: adesso un supermarket, una volta una Rassegna d’arte.
“Credo che Lucia avesse a che fare con la scelta delle cover di Segno, sempre raffinate, rarissime, di quelle che allora, e forse anche oggi, non trovavi altrove. Alla pubblicazione seguiva una discussione sull’opera di copertina, e di questa discussione Lucia era sempre protagonista garbata e competente. Pensavo che sarebbe stata una saggista d’arte di spessore”, invece hai scelto altra strada, hai deciso di fare e l’hai fatto con discrezione, come era nel tuo costume. Niente a che vedere con certi colleghi, che si credono principi del foro e vanno in giro con borse pesanti di nulla, tanto per darsi un contegno. “Lucia era una partigiana dell’arte colta, quasi in punta di piedi. Faceva sempre tutto con una sottile ironia, ma seriamente”.
Io non ho mai goduto di molte simpatie tra i miei colleghi, non so se per invidia o per disprezzo. “Lucia, per quello che ricordo, mi stimava come io stimavo lei: si è sempre battuta per difendermi. Non tanto e non solo come professionista, quanto come intellettuale capace di essere fuori e dentro il sistema dell’arte. Per tutta la vita aveva creduto nell’importanza delle regole. Certo, ci aveva creduto assolutamente, con disinvoltura e senza “marchingegnare troppo”, così come credeva in Dio e nella democrazia. E poi, era da intendersi, esistevano regole per loro natura malleabili e altre più ferree, a cui per una questione di etica e reputazione non avrebbe mai trasgredito, per nessuna ragione al mondo”.
Sai, carissima Lucia, appena ho letto la notizia ho fatto uno squillo al telefono di Roberto, il che non è stato molto facile, ma non ho potuto farne a meno. Mi ha risposto Roberto piangendo, con una voce commossa che non riesco a descrivere. Ed ero commosso anche io, e sono commosso anche adesso mentre scrivo queste frasi che non servono a nulla.
“In una bella poesia di J.L. Borges, intitolata alla “scomparsa”, il poeta parla delle “cose”, quali figurano nel nostro mondo dell’esistenza, gli oggetti cosiddetti inanimati che ci attorniano come le opere d’arte, ma che dopo averci accompagnato per lunghissimi tratti di vita, continueranno ad esserci quando noi non saremo più. Durevoli o poco mortali, queste “cose” di Borges: esistenzialmente importanti perché ci sopravvivono. Lucia Spadano, invece, che di Borges è stata una appassionata lettrice, ha sentito o sentiva le “cose d’arte” come trasparenti, al punto che a questa persuasione si intitola l’ultimo mio ricordo approdato tra i suoi piccoli scritti, «cose trasparenti»”.
Sai, Lucia, mi è capitato spesso di scrivere necrologi, come in quella nostra rubrica su Segno che spesso abbiamo collazionato insieme e che tu penso sostenessi come del resto Umberto: “Addii”. Ma questa volta scrivo con la leggerezza che tu avresti voluto leggere, e penso che è sempre troppo poco il tempo che abbiamo trascorso insieme per confrontarci, per ascoltarci e per correggere qualche tiro di troppo. E lo penso con rimpianto. Siamo stati amici senza smettere mai di lavorare, di redigere, di sottoscrivere, di dialettizzare, come succede tra alleati veri.
“Il destino non è una catena di maglia predeterminata; ogni sequenza di causa ed effetto è sempre una faccenda fortuita; anche la nostra persuasione che la realtà dell’arte è un sogno potrebbe essere sogno essa stessa; e la «donna veggente» potrebbe addirittura scoprire la propria sopravvivenza dopo la morte, senza con ciò risolvere l’enigma dell’esistenza. Costruita tutta di esistenza vissuta, zeppa di belle esperienze e programmata per essere “vissuto spontaneo”, la Storia di Lucia e di Segno, non solo è una bella esperienza, ma è anche una «Storia» di «buona annata». È dentro una serie di esperienze, delle quali l’autrice ci propone una dimostrazione narrativa. Ma le tesi e i vissuti intelligenti, ad oltranza, sono genuine e appassionate visioni, fino all’impalpabile, mentre la Storia non è facile che di rado, quando le accadeva di sfiorare l’ironia della sorte. L’ironica saggezza di Lucia Spadano ha una segreta voglia di dirci che cosa la vita le ha insegnato, ma la trattiene la sua tentazione di sempre: “credere che la vita non ha altro senso che di gioco”. Chi per uno dei mille casi della vita, sia stato posto nella necessità o nella possibilità di vivere di un suo innato talento giornalistico, deve vedere come gli convenga definire il proprio rapporto con la sua problematica ‘professione”, che in realtà, nel caso di Lucia Spadano, non è mai stata solo una professione! L’attività di una cosiddetta libera giornalista d’arte è considerata oggi giorno – contrariamente a quanto è avvenuto finora nella storia – un lavoro, probabilmente perché esercitato come un mestiere qualsiasi da molti, che non hanno per essa alcuna vocazione”.
Ed ora vorrei concludere con un richiamo ad Elias Canetti, a proposito della morte di una persona a lui carissima: “La morte è falsa, e mi duole non poterlo dire a te, e se scriverò la mia vita tu,[…], vi occuperai un posto importante”. Sai, Lucia, tu sei tra le poche che ora mi danno il flashback del silenzio.
A presto, con dolcezza, Lucia. A presto ritrovarci.