Camilla Marinoni
Camilla Marinoni, L'inizio di ogni giorno - Canto II. Palazzo Costantino - Palermo

L’inizio di ogni giorno Camilla Marinoni

Ho conosciuto Camilla Marinoni quest’estate. Ci siamo incontrati a Palermo, in occasione di una mostra – ex voto – di cui ero il curatore generale, ma che ospitava al suo interno altri progetti. Quello che coinvolgeva Camilla, Luce, a cura di Valerio Dehò, rifletteva sul simbolismo della luce attraverso dipinti e installazioni. Il lavoro di Camilla, realizzato a partire da materiali reperiti sul luogo, non poteva essere più suggestivo. In una stanza ormai senza pavimento di Palazzo Costantino – le piastrelle, preziose maioliche, erano state sottratte da ladri che, strappandole, non erano andati per il sottile, producendo tanti cocci – Camilla ha disposto, come fosse un sudario, un telo dorato e riflettente, su cui ha pazientemente rimontato, frammento dopo frammento, una porzione di decoro. Il tutto risultava illuminato da un faro che, “bagnando” di luce il pavimento rifatto, lo sollevava idealmente sino al cielo. In sottofondo, si sentivano parole di Hannah Arendt e suoni suggeriti dal luogo. Dopo questa esperienza, l’istallazione – L’inizio di ogni giorno – è stata selezionata da una call nazionale ed è diventata itinerante. Ne abbiamo discusso con l’autrice.

L’inizio di ogni giorno: a cosa si deve il titolo della tua installazione?

L’installazione è nata per la mia mostra personale del 2021 dal titolo Alla muta cenere io canto presso la Fondazione Vittorio Leonesio di Puegnago del Garda.  All’origine di quel progetto, il Carme 101 di Catullo, il cui verso “e parlare invano alla tue ceneri mute” – poi ripreso anche dal Foscolo nel sonetto In morte del fratello Giovanni – ha ispirato il tema di tutta la mostra e di conseguenza anche il titolo. L’esposizione, come si poteva leggere nel comunicato stampa, desiderava essere “un omaggio alla memoria di chi ci ha lasciato, costituendo allo stesso tempo un monito sulla caducità dell’esistenza e un tributo alla sua magnificenza.” Così durante il sopralluogo in fondazione, da cui è possibile vedere il lago di Garda in lontananza, ho voluto lavorare nuovamente con il suono (come avevo fatto nel 2017) desiderando di portare il lago all’interno del giardino e della stanza dedicata a questo lavoro. Il titolo L’inizio di ogni giorno prende ispirazione dalla frase di Hannah Arend, che si può sentire sussurrata, mescolata alle onde del lago. È tratta dal libro Vita Activa – La condizione umana in cui l’autrice ci esorta a riflettere sulla nostra mortale condizione che può essere alleviata dal “fare”: l’iniziare qualcosa di nuovo diviene per l’essere umano la possibilità di interrompere la strada verso la rovina; solo “facendo”, solo iniziando qualcosa di nuovo, ci possiamo sentire vivi. Solo creando e lasciando qualcosa che “rimane”, e che diviene segno della nostra presenza sulla terra ogni giorno, possiamo vincere la morte o affrontarla in modo differente. Vita e morte vengono mescolate insieme, nel tentativo di creare un istante di silenzio, ascolto e riflessione sul senso dell’esistenza. 

Il tuo è un lavoro site specific: come hai intenzione di adattarlo alle diverse situazioni?

Il lavoro vive di due momenti: c’è una prima parte preparatoria di studio in cui analizzo il luogo in cui verrà accolta l’installazione. Leggo quanto più possibile sulla storia della città, la geografia, la storia, il sito in cui avverrà la mostra e definisco quali possono essere i suoni da raccogliere durante il sopralluogo. 
La seconda fase è il mio essere sul posto che diviene il passaggio fondamentale per il compimento dell’installazione, soprattutto per quanto riguarda l’intervento nello spazio ospitante, dato molto da ciò che esso stesso offre o mi suggerisce. È lì che avvengono gli incontri. Io ascolto, osservo, cammino nello spazio e nella città ed è così che nasce il mio lavoro.
Per Palermo, avevo ipotizzato di usare i detriti e avevo immaginato di ricoprirli con la foglia oro, arrivata lì ho capito che l’oro da usare non era quello della foglia oro ma quello della coperta isotermica con quell’accezione che hai ben descritto tu inizialmente.
Alla Fondazione Leonesio l’intervento è stato invece minimo: nella stanza c’era il suono ma era completamente vuota, io ho sottolineato semplicemente l’orizzonte del lago intervenendo sulla grata della finestra; è stato il vuoto a dare compimento all’installazione. 
Orizzonti nuovi, per nuovi sguardi di possibilità, come a Bolzano, in cui le montagne che circondano la tenuta dei monaci, dove ha avuto luogo la mostra, sono state ricamate sul tulle. In ogni città e per ogni canto, so che devo entrare in punta di piedi, mi avvicino ai luoghi lentamente e sempre con il timore di sbagliare, di non cogliere ciò che riesce davvero a far vibrare le persone. Poi vedo le reazioni e capisco di essermi avvicinata al loro sé profondo.

Potremmo leggere la testura segnica che hai ricostruito come una metafora dell’arte contemporanea? Di un’arte, intendo, che rielabora il passato, rileggendolo in una luce nuova?

Il mio è un continuo elaborare il passato, un’osservazione delle ferite per ricucirle, per aprirle, per attraversarle e per cucirle nuovamente come una sutura ma con la consapevolezza che resterà sempre una cicatrice. È un ritorno continuo, circolare. Un’operazione che tenta di essere cura.

Dopo Bolzano Art Weeks, in cui il progetto è stato presentato, quali altre tappe toccherà il tuo tappeto volante?

Sto lavorando insieme a Zerial Art Project per presentare il Canto IV a Bologna. Per ora c’è questo, poi si vedrà.

Il tuo processo creativo, per definizione fluido, si esercita attraverso svariate esperienze, dalla scultura alla performance. Quali sono, a tuo avviso, i suoi tratti salienti?

Credo sia la forza unita all’estrema delicatezza che arriva alle persone in modo potente e inaspettato. Desidero che il mio lavoro abbia la funzione di piegare senza però spezzare; deve commuovere, e magari far piangere, ma alla fine deve lasciare un segno di rinascita, una promessa. Entro piano ma vado in profondità come fosse un pugno nello stomaco ma al rallentatore: fa male, in ogni caso.

C’è un maestro, o collega, cui ti senti legata?

Più che un maestro ho tante artiste e artisti che guardo e che ispirano il mio lavoro, penso a Louise Bourgeois, Gina Pane, Birgit Jürgenssen… e poi ho colleghi e colleghe con cui mi confronto molto e che sono fondamentali per migliorare il mio lavoro.

Quando ti ho conosciuta, mi sembravi un rabdomante, con la macchina fotografica anziché il bastone in mano: sei mai stata colpita oltre misura dall’energia di un luogo?

Assolutamente sì. Ci sono luoghi che hanno un’energia incredibile e che non si può non ascoltare. Le foto e i video che faccio sono necessari per documentare il lavoro ma anche per trattenere in me la memoria di tutte quelle sensazioni che il posto mi ha regalato. Ciò che è fatiscente, in rovina e pericolante ha sempre un grande fascino perché porta con sé i resti del suo passato, della sua storia.

Potresti descrivere il tuo rapporto con il corpo?

Complesso. 
Amore e odio. Ascolto e indifferenza.
È il filtro che traduce la realtà all’interno del mio lavoro.

A quali altri progetti ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?

Al momento sto lavorando a diverse cose: una mostra a fine novembre curata da Livia Savorelli a Savona; una a inizio 2023 curata da Barbara Pavan e che fa parte della X Biennal of Contemporary Textile Art; poi sto progettando il Canto IV di questa installazione e sto chiudendo un libro/guida su Bergamo (il secondo) in cui mi sono occupata dei disegni e che uscirà per l’inizio di dicembre.

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