L’estate, le mostre e la solita tiritera

Aria di aperture, aria estiva. Le prime mostre, la voglia di visitarle, il pubblico irrequieto. Dimenticheremo tutto velocemente?

Conosciuto il nome del curatore del padiglione Italia, si fa un gran pettegolezzo, da giorni, di ciò che gli ansiosi spettatori dell’arte contemporanea troveranno alla tanto attesa Biennale di Venezia. Che gli spettatori dell’arte abbiano dei sentimenti, mi è nuova. Però vabbè, oh: tutto è possibile. 

I motivi di quest’ansia sono facili da rintracciare. Il fermo biologico da covid di quindici mesi (quanto la stagionatura di un formaggio) ha dato al cosiddetto pubblico una nuova spinta. Una spinta irrefrenabile. E ci mancherebbe! 

La nostra cara italietta worthless-pop è un paese tutto casa e aperitivo, tutto serie-tv e influencer. È un paese — l’ho scoperto da poco — retto in piedi da gruppi WhatsApp oscuri, ai limiti delle società segrete medievali, e incline a una nazi-moralità da social. Il bello è che culturalmente siamo alla frutta e in fase di dissoluzione, credo privi di speranza, però sorridenti. 

Prendi l’improvvisa voglia di viaggiare all’interno dei confini nazionali: è una voglia quasi ossessiva, del tipo criceto che corre dentro la ruota. Prendi tutta la fabbrica di mostre sbocciata al primo accenno di apertura: appare chiaro che gli ormoni stanno rosolando verso la riappropriazione di quella frivola “serenità” con cui la satira straniera ci descrive – a ragione – da sempre. 

Insomma il revival del mondo perduto, che in molti stentano a credere defunto, è cominciato. È cominciato coi tunztunz che picchiano dalle casse dei chioschi marinari profumati di vodka e menta. È cominciato senza attendere un reloaded, una riflessione, uno spazio pubblicitario o un misero dietrofront. Non sono un meteorologo, né un veggente, ma credo che l’estate che arriverà sarà tra le più spensierate e prive di senso degli ultimi trent’anni. Anzi, facciamo quaranta. 

Ovviamente mi ritengo l’ultimo della lista. E in quanto ultimo, non posso permettermi di imbrattare un articolo con un paio di enunciati en passant: non ho lo spessore del burocrate o del legislatore dell’arte, con le statistiche in una mano e le profonde analisi adornate da sacri grafici e frizzanti percentuali nell’altra. Eppure ritengo (se in un’era maliziosa come la nostra è ancora lecito “ritenere liberamente”, sia chiaro!) che tutte le attività artistiche estive saranno quantomeno manchevoli di profonde riflessioni. E questa non è una critica negativa. No, non lo è. Evitiamo di pensare agli artisti come infermieri. Evitiamo di pensare l’arte come se fosse il primario che ci salverà la vita. Non pensiamo a niente. Oppure rivolgiamoci all’arte, una volta per tutte, per accorgerci delle coercizioni che ci incatenano (compito arduo?). 

La pandemia ha inflitto al sistema della cultura, che soltanto per una sparuta elite era “vivo e vegeto”, un colpo letale. Il lecito timore del contagio ha chiuso il pensiero nei limiti della protezione (o dell’ossessione). L’arte tornerà esattamente com’era prima: un puro, grande, leggero e passeggero divertimento. In autunno, guardandoci allo specchio o passeggiando sui viali coperti di foglie ingiallite, diremo a noi stessi che avremmo potuto fare di meglio, ma non ne avevamo voglia. Ecco, la voglia è quella che manca: la voglia dell’arte, non l’arte. L’arte c’è. Però non è lei. Chissà cos’è. 

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.

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