Un anno dopo la dichiarazione di stato di pandemia, il Sistema dell’arte comincia riflettere su se stesso. L’aveva fatto anche lo scorso anno, in realtà. Ma ciò che fu scritto nei mesi a ridosso del primo dpcm, e in quelli di mezzo del 2020, è — ritengo — tutto da valutare.
Secondo voci di corridoio, ma nessuna delle quali è degna di essere interpretata come veritiera, gli assi del Sistema hanno assorbito il contraccolpo inflitto dal lockdown e, dopo un anno di smarrimento, di disorientamento, adesso i primi frutti, non esattamente “eduli”, fanno capolino dai rami secchi e svettano sotto il «cielo […] del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto»1.
Nessuno ha ancora spiegato le motivazioni di tale “impaccio”. Il Sistema era un castello con alte torri, difeso da burocrati dotati di penna e calamaio, che manco la cavalleria meglio armata avrebbe potuto espugnare. Sì, certo: era un castello sui generis, allegramente scarcassato, diciamo dinamico, in cui chi ci capiva gorgianamente meno era più fortunato. (Ho sempre immaginato che il progetto di questo castello fosse stato messo a punto da Gaudì e Lapadula; non so perché.)
Ma poiché tutta l’arte si trovava inclusa — o reclusa — in una bolla smithiana2, modello di pensiero che non riusciremo a toglierci mai di dosso (è quello che dippiù sta in accordo alla nostra “essenza”), non ci voleva affatto la sfera di cristallo per immaginare cosa sarebbe accaduto3, a prescindere da un virus apocalittico, da un’invasione di alieni zombie, da una pioggia di meteoriti.
Ciò che credo di poter rilevare, dagli inferi geografici e culturali nei quali annaspo, è che a nulla è stata buona l’arte, al di fuori del suo circolo “economico”, se non ad affrescare una parentesi di beltà temporale, per una manciata di eletti; beltà che, oggi, è finita chissà dove.
L’arte non ha inciso nelle coscienze (lo ha fatto? beh, non me ne sono accorto), non ha ampliato l’orizzonte visivo (eppure avrebbe potuto…), e addirittura, per fortuna solo in alcune circostanze, ha prodotto il contrario di ciò che chiunque sano di intelletto riterrebbe “proficuo”: coscienze chiuse e visioni oscure.
Insomma, non dico che l’arte avrebbe dovuto insegnarci a vivere e pensare (o forse sì?), ma nemmeno permettere che ce ne dimenticassimo. Mi spiego con una “metafora”, legandomi alla recente vicenda sul sequestro di un noto vaccino, perché proprio in quel settore è accaduto qualcosa di cui pochissimi si sono accorti, e che con l’arte di vivere e pensare, soprattutto di pensare eticamente, c’entra eccome.
(Il sottoscritto desidera precisare che il vaccino lo farà, e di essersi prenotato tramite apposita piattaforma online. Aggiunge, inoltre, che in merito alla funzionalità della scienza non ha mai avuto dubbi, ed è a essa che si appella ogni volta che cade tra i vortici enigmatici dell’esistenza o, per esempio, ha un semplice mal di testa.)
Quando la scienza si chiamava filosofia della natura, ogni essere vivente e non, sempre sul piano filosofico, possedeva un valore intrinseco4 (compresi gli esseri umani). Ciò significa che, di fronte a qualsiasi enunciato, veniva anteposta la sacralità della loro realizzazione, e non una quantificazione in termini statistici.
Dicendola altrimenti: un gatto e un topo, il vento e il mare, un eritreo o un canadese, una patatina fritta e il ketchup in cui essa verrà inzuppata, e tantissimo, tantissimo altro, hanno un valore, un valore che noi non abbiamo alcun diritto di scalfire, un valore che è legato ad altro valore, e che implica un impegno profondo ogni volta che ci sforziamo di comprendere che tipo di valore abbiano, ricostruendo collegamenti scevri da pregiudizi rispetto a molti altri aspetti: antropologici, religiosi, storici, economici ecc.
Le masse, nei social, sono state quantomeno volgari diffondendo giudizi che avrebbero dovuto, a mio avviso, addirittura evitare di sfiorare con l’immaginazione. Frasi del tipo «un morto ogni tot c’era da aspettarselo», che sia tale morto purtroppo “preventivato”, collegato a un “difetto” interno del soggetto o alla casualità, dimostra che l’arte di pensare eticamente è entrata nella scena del Terzo Millenio nelle vesti di una grande “non pervenuta”, come una lacuna profonda quanto un buco nero, come una foglia appassita.
Aver perduto il tremore dubbioso della filosofia della natura ha eliminato qualsiasi sentimento di umanità dalla nostra specie, ma chiarifica soprattutto che il nostro cervello, in una fase di crisi come quella pandemica, sta ragionando col triste gioco del «si salvi chi può», o del «costi quel che costi», malgrado evitiamo di ammetterlo esplicitamente. Appellarsi con questo spirito alla scienza è molto, molto ingiurioso: perché ‘ste cose, la scienza, le ha sempre odiate e rigettate.
A sostegno di ciò, mi viene in mente un libro famosissimo, letto tempo fa, di Jacques Monod, intitolato “Il caso e la necessità”. In particolare mi viene in mente il primo capitolo del libro, “Oggetti strani”, che è, in sé, un saggio lucidissimo, perfetto, sulla “convinzione” paradossale con cui noi umani ci approcciamo in merito a certe proprietà dell’esistenza. Monod sarebbe da rileggere, oggi, nelle università e nelle accademie:
«La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell’oggettività della Natura, vale a dire il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza “vera” mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di “progetto”»5.
Sempre dalle masse mi piacerebbe capire se per «fidiamoci della scienza» intendiamo soltanto un ritorno in quel mondo pre-covid dominato dai mercati global fuori di senno, tanto per recuperare i nostri piaceri e i nostri interessi; se nel nome della fiducia cieca (tipologia di fiducia che la scienza stessa non approva) stiamo timidamente eliminando quegli scrupoli che darebbero corretta considerazione a ogni singolo essere vivente e al destino della società; oppure se desideriamo associarci alla scienza come la scienza — che io amo — invece pretende: e cioè in modo esatto, verificando tutto, anche i nostri più intimi sentimenti. Perché una cosa è eliminare il virus alla svelta, un’altra è arrivare ancora umani nel mondo nuovo. Ça va sans dire: con quegli umani, chi sopravvive, dovrà convivere.
E chissà che arte!, a ‘sto punto.
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1W. Gibson, Neuromante.
2Adam Smith, 1723-1790, economista. Potrei riassumere il pensiero di Smith con questa frase, che però non è sua: l’interesse personale è il top. Ovviamente il sottoscritto non lo condivide; e inoltre questa opinione personale non ha alcuna importanza, ma andava scritta.
3Non per vanto, ma di tale “collasso” ne scrissi io — che per l’appunto non sono nessuno — nel 2017. Ed erano sicuramente «tempi non sospetti».
4La più grande “sintesi” di filosofia della natura c’è stata donata da uno dei più grandi filosofi contemporanei, Arne Næss. Il concetto a cui faccio riferimento, cioè quello sul valore intrinseco degli esseri viventi, è tratto dal saggio intitolato «I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda». Næss ha un grande merito: ha “ordinato” la filosofia della natura rilevando minuziosamente tutti i problemi della realtà quotidiana.
5J. Monod, Il caso e la necessità.