Jeff Koons ©Fondazione Prada, Milano

L’antigrazioso

Una diretta Facebook di Luca Rossi Lab col direttore di “Artribune” Massimiliano Tonelli ispira una riflessione “di pancia” sul rapporto tra la critica e l’arte contemporanea.

L’orizzonte degli eventi
Facciamo un po’ di storia. Vi sono due opere di Boccioni intitolate Antigrazioso. La prima è un busto femminile, palesemente legato a una scultura andata perduta, Testa+casa+luce, che dovrebbe rappresentare la madre dell’artista. La seconda è un ritratto pittorico di Margherita Sarfatti. Entrambe si caratterizzano per una modulazione postucubista delle forme, smontate e ricomposte sino alla (quasi) negazione della identità dell’effigiata. 

Lo stile è indubbiamente il principale elemento di contatto. Ma anche la maternità non scherza. Mentre la madre biologica ha dato origine all’esistenza di Boccioni, la Sarfatti ha contribuito a “partorirlo” in quanto artista. Il carattere della scultura si riversa nel dipinto, all’insegna di una decisa opposizione agli attributi della tradizione. Affabilità, dolcezza e grazia sono qui soppiantate da un insolito rigore. La vita non è affare da donnicciole, ma da matrone spigolose. E ciò è tanto più importante se ci interroghiamo sul significato di queste immagini per l’autore. In quanto critico militante, la Sarfatti ha nei confronti di Boccioni la stessa responsabilità di un comandante per le truppe sul fronte, da condurre all’assalto. Una mossa sbagliata, e la vita dei soldati è a repentaglio. 

Ieri l’altro non riuscivo a togliermi dalla testa questi concetti mentre osservavo una diretta Facebook vertente intorno al ruolo della critica nel sistema dell’arte contemporaneo. Uno dei relatori faceva notare un profondo e generalizzato disinteresse: “in fondo”, asseriva, “la critica non conviene a nessuno”. L’altro, fingendo di non capire, parlava di critica nel senso letterale della parola, quasi ci si riferisse ad attacchi più o meno gratuiti, e non a una valutazione articolata, a un giudizio. Del resto, i lettori di una rivista d’informazione – e il secondo relatore era appunto il direttore di una testata del genere – non sono incuriositi da astratte trattazioni. Volendo proprio elaborare un pensiero su un artista, meglio scrivere un saggio. E soprattutto, meglio dedicarsi ad artisti internazionali. Nel caravanserraglio odierno, gli artisti italiani sono vasi di coccio tra vasi di ferro: meritano solo pietà. 

Chissà che ne sarebbe stato di Boccioni, pensavo tra me, o di Sironi, qualora la Sarfatti avesse inteso il suo lavoro come una semplice cronaca, e non come l’orizzonte degli eventi, il luogo in cui tutto comincia e si conclude. 

La jihad con le zanzare
Sto esagerando? Può darsi. Sappiate solo che anch’io, al pari degli amici musulmani, comincio la mia jihad con le zanzare, vale a dire con le virgole e i corsivi. La scrittura, per chi non la intenda come un atto meccanico, è una continua sfida. Ricordo ancora quando, a Milano, il direttore del primo mensile con cui ebbi a collaborare, mi affidò una recensione di sette libri sette, da svolgersi in un unico articolo. Non avrei dovuto, evidentemente, spoilerarne il contenuto, ma trarre da ciascuno di essi ciò che mi sembrasse più sensato. Un’operazione arbitraria, ma essenziale: si trattava, né più né meno, di ricondurre frammenti slegati a un discorso comune, di trasformare l’episodio in narrazione. E quale altra mai potrebbe essere la funzione della critica in un’epoca in cui i testimoni da ascoltare sono tanti? Facile sostenere che la quantità di artisti renda impossibile una disamina appropriata: è come dire – è stato fatto! – che i pazzi, o gli ammalati di Covid, sono troppi, e quindi non esistono. Come suggeriscono in America, “se vuoi eliminare le zanzare, prosciuga la palude”. Per farlo il primo passo è prendere coscienza di sé, del proprio ruolo. E delle relative obbligazioni.

Il pubblico dell’arte
Accennavo a responsabilità professionali, ma non ho specificato nei confronti di chi. Il pubblico dell’arte è molto diversificato: va dai semplici curiosi ai professionisti del settore, primi fra tutti i collezionisti, i destinatari delle opere. Sempre nella solita diretta, uno dei relatori riferiva l’opinione di un dealer americano: “la critica d’arte non è cool”. Al collezionista la critica non solo non interessa, ma, sovrapponendosi alla dittatura del gusto, dà anche un po’ fastidio. D’altra parte, incalzava il secondo, in Italia gli artisti non saranno un gran che, ma i collezionisti sono coltissimi. È una questione storica. Mentre in altre nazioni, come la Francia, la corte parigina era l’arbitro assoluto, da noi ogni paese aveva la sua reggia, e i suoi costumi. Quanto a ciò, nulla da replicare. Ma di qui ad affermare che l’autonomia di scelta del singolo non implichi una dose intollerabile di autoreferenzialità! Stavo precipitandomi sulla tastiera a rispondere quando la poltroncina su cui, dopo pranzo, sono solito schiacciare un pisolino, ha pericolosamente scricchiolato. Con i negozi di mobili chiusi, non mi restava che improvvisarmi falegname. Recuperata una asticella di metallo, l’ho imbullonata alla gamba allentata. Il risultato non sarà bello a vedersi, ma il rumore (e il tremore) se n’è andato. Ho persino l’impressione che la sedia sia più comoda di prima: di certo non la cambierò mai più. E se i collezionisti facessero lo stesso con gli artisti che hanno scelto, anche accorgendosi, dall’alto del loro sapere, di cadute colossali?

Un dono per la vita
Sporcarsi le mani paga. Ne sa qualcosa l’inventore dell’Ikea, che ha convertito i suoi clienti in operai. In modo analogo, Internet conferisce la patente di opinionista a tribù di analfabeti. Perciò non mi sono sorpreso di apprendere, dal famigerato colloquio, che il futuro della critica sono non dico i podcast – un lontano parente della radio – o i video, quanto le dirette interattive: vere e proprie arene in cui i creativi condividono i loro progetti secondo dinamiche sovrapponibili a quelle che si producono nei talent. In una comparsata su Twitch, è facile che il relatore, messo in difficoltà dal pubblico, sia costretto a reagire. Gli articoli, o i libri, non prevedono al contrario un feedback immediato, ma hanno dalla loro parte il tempo. Un tempo, o meglio una disposizione allo studio, alla verifica puntuale, che questa forma di comunicazione estemporanea non può dare. C’è poco da fare, sono antico. Con una battuta a effetto puoi sfuggire da una trappola o strappare una risata, una pagina di Argan – ne sanno qualcosa i miei poveri alunni, ancora intenti a decifrarla – è un dono (o una condanna) per la vita.

Artisti camaleonti
Ma il bello deve ancora arrivare. C’è stato, a quanto pare, un passaggio di testimone dall’arte alla cucina. Se vai al ristorante ti soddisfi, se visiti una mostra trovi solo “debolezza”: pochi stimoli, tanta conservazione, tanta paura di rischiare. Una volta o due puoi accettarlo, poi ti stanchi, e cerchi altrove. Oggi come oggi, l’arte visiva non regge il confronto con il cinema, con la musica, persino con la letteratura (!); l’unica strada che le resta da percorrere è l’hakeraggio delle altre discipline. Questo il pensiero del secondo relatore che, non a caso, alla direzione di una rivista d’arte accompagna quella di una rassegna gastronomica. E non mi trova del tutto in disaccordo. Da sempre le arti crescono contaminandosi a vicenda. Persino Bernini alternava alla scultura la preparazione dei dolcetti. Cos’altro è, la sua Fontana dei Fiumi, se non una montagna di melassa gocciolata? Il tema però merita una chiosa. Per Bernini – che mi ostino a citare perché più innovatore di tanti contemporanei – l’arte non risponde in esclusiva a un’edonistica esigenza di stupore. È in primo luogo, come la scienza o il culto del divino, una visione totalizzante, da prendere o lasciare. Riusciranno, i nostri artisti camaleonti, ad imporla al loro seguito, confusi come sono con l’ambiente circostante? 

Simultaneisti e cangianti
Dalla volitiva forte energica donna futurista all’influencer che discute coi follower la sua ultima ricetta, ne è passata, di acqua sotto i ponti. Ma, un momento, questa storia degli artisti cuochi non l’avevano tirata fuori dal cilindro proprio i futuristi? Non erano loro ad auspicare la creazione di bocconi “simultaneisti e cangianti”? Sì, è così. Ma a patto di abolire – Dio non voglia! – la pastasciutta, e di non usare mai più il coltello o la forchetta. Oggi, invece, se sapete cucinare o gonfiare palloncini e volete entrare in una lista qualsiasi degli artisti più famosi, non perdete il vostro tempo ad assicurarvi il favore di una critica che non esiste o, se esiste, non conta una cicca. Iscrivetevi piuttosto, per la modica somma di duecento bigliettoni, alla Masterclass di Koons. 

Buoni consigli
Non lo avete saputo? In tredici lezioni di Art and Creativity il patron dei cagnolini vi insegnerà “a trovare ispirazione nelle esperienze quotidiane” e “a utilizzare gli strumenti dell’arte per creare opere che abbiano un significato”. Lungi da me il proibire a un vecchio artista di elargire consigli sebbene, come diceva De André, “si sa che la gente dà buoni consigli / quando non può più dare il cattivo esempio”. E poi, che tipo di consigli? Non certo su come diventare immortale: “Lasciate che vi mostri come potete usare la vostra voce nell’arte”, ha scritto sulla propria pagina di Instagram, “perché non c’è nessuno più qualificato o più dotato di voi per guidare il potere dell’arte nel mondo”. Va almeno dato atto a Koons di non usare circonlocuzioni. Qualora il diavolo lo avesse condotto sul monte per tentarlo, non avrebbe avuto dubbi: a lui interessa il potere. Restituisco, per ulteriore commento, la parola a De André: “Gli artisti, maledizione…! Un intellettuale integrato io lo capisco, un intellettuale – poverino – è uno che legge dentro le righe… legge dentro le righe e capisce quello che succede molto di più degli altri, capisco che se non è artista, se non riesce a trasformare quello che capisce in qualcosa d’altro, che arriva ancora meglio, deve integrarsi perché altrimenti muore di fame; ma l’artista non ha bisogno d’integrarsi […]! L’artista non deve integrarsi! L’artista è un anticorpo che la società si crea contro il potere!”.

L’impero delle illusioni
E come dargli torto! Nell’impero delle illusioni, quale ormai è diventato il sistema dell’arte contemporanea, e non nel senso della fantasia o dell’invenzione, le convenienze contano più dei nudi fatti. La triste verità è che i “critici” (leggi: gli intellettuali di De André) sanno qual è la quotazione di mercato di un lavoro, se il tale collezionista lo apprezza o se è il caso di esporlo in un contesto specifico per istigare isteriche reazioni, ma della reale natura di quel lavoro, della storia del suo artefice, persino della tecnica con cui è stato realizzato, sono del tutto ignari. Non si curano neppure di darsi un contegno, usando le medesime formule per introdurre come i peggiori passacarte comunicati stampa tirati al ciclostile. L’unica disciplina in cui sono specialisti – tralasciando per un istante le sempreverdi questioni ideologiche, dalla politica del premio alla censura del quadro osceno alla scomunica del direttore di turno – è la ricerca della pubblicità. 

La bussola smarrita
Mi avvio alla conclusione. Pochi giorni prima della diretta da cui si è originata questa lunghissima tirata, un focus sulla critica “senza criteri” di oggi è apparso su “Domani” del 27 dicembre 2020, a firma di Walter Bortolossi: “la crisi di credibilità dei criteri di giudizio si è fatta progressivamente palese, tanto che a dominare è l’indistinzione della comunicazione generalizzata, dove si assiste a un proliferare di opere d’arte dominate da una logica semplicistica: c’è chi mira al clamore mediatico imitando i pubblicitari e c’è chi fa accademia sotto l’ala protettiva dei linguaggi usurati delle varie diramazioni della post avanguardia. Altri ancora, per inventarsi un contesto che non c’è più, seguono temi preconfezionati facendo dei compitini etici.
Si apre quindi la strada per un tipo di critica non solo meno implicata nelle articolazioni autoreferenziali del sistema dell’arte ma che sappia valorizzare opere non più improntate all’esteriorità di questi schematismi.
Già Mario Perniola, a partire dal suo Enigmi. Il momento egizio nella società e nell’arte del 1990, aveva parlato della necessità di un’arte che tornasse a essere difficile, profonda e sfaccettata, consapevole e ingegnosa e che potesse tenere sul filo l’attenzione. Il filosofo italiano teorizzava un’arte ‘enigmatica’ non perché questa debba detenere un qualche segreto iniziatico, oggi improponibile in un mondo culturale che è policentrico, ma perché alle menti coltivate la banalità disgusta, sia che si manifesti nei temi sia che appaia nei modi”. 
Chapeau a Bortolossi che, oltre a scrivere benissimo, è un ottimo pittore. E se anche i critici, per riuscire nell’impresa, si facessero pittori a loro volta? Non impugnando pennelli e tavolozza, ci manca solo questa, ma rivendicando la libertà di giudizio di cui godevano in passato (si pensi alla Sarfatti, che passa allegramente dal Futurismo a Novecento): la stessa di cui gli artisti, quelli veri, non si sono mai privati.