Ciao 2020
Frame dalla sigla dello spettacolo di capodanno di Ivan Urgant alla televisione Russa

La corsa dei cavalli

È arrivato gennaio, il 2020 s’e concluso, nulla (o tutto) è cambiato. Intanto le maggiori riviste hanno pubblicato le top ten dei più influenti del mondo dell’arte. Tra queste classifiche c’è qualcuno che conoscete e seguite, una mostra che avete visitato?

E se anche gl’intellettuali 
inarcheranno le sopracciglia, 
noialtri, il grande pubblico, 
amiamo tutti, nel fondo dei nostri cuori […]

William Somerset Maugham

«Ce la faremo!», urlava un tizio dal balcone durante il lockdown lo scorso anno, un simpatico tizio che ho visto sul web. Il video è diventato talmente popolare da generare per autogonia (conosco poco i meccanismi dell’internet) una quantità innumerevole di meme. La continua condivisione di questa performance canora mononota, e l’esposizione a essa, ha permesso a tanti italiani di avere speranza nel futuro. È importante la speranza. È una delle tre virtù teologali dell’economia. Giustappunto, l’economia!  

Il 2020 è stato l’anno in cui qualsiasi cittadino ha potuto accrescere le sue conoscenze (anzi, competenze; pardon!) assistendo a un master diffuso, inarrestabile, in solenne stile facebookiano, sul management. Sì, qualsiasi cittadino: da quello che ha studiato coi talk show pomeridiani a quello che ostenta i suoi titoli a mo’ di epigrafe come se fosse una lapide cimiteriale vivente. Tutti i discorsi sviluppati nel 2020, dai vari media, sono stati unicamente delle teorie umanistiche su come amministrare bene e male un’azienda che troppo romanticamente qualcuno (me compreso) chiama ancora “globo terrestre”. Numeri, grafici, statistiche ovunque; cultura, logica e lungimiranza zero. 

Sinceramente, e lo dico al di là del Covid e ab imo pectore, non so se «ce la faremo». Ma al 2021, intanto, ci siamo arrivati. Forse con troppe aspettative addosso, forse costruendo, giorno dopo giorno, qualcosa di più grave del virus. Mi chiedo se ce la meritiamo questa grazia, questo miracolo. Mi chiedo se ha senso trovarsi nel 2021 con quegli errati paradigmi che ci hanno rovinato la vita, se ha senso trovarsi in un anno numericamente e convenzionalmente diverso, col marciume concettuale di non aver imparato nulla dal dolore che tiene sotto pressione l’umanità da marzo scorso, dal giorno in cui fu dichiarato lo stato di pandemia. Il mio dubbio è forte: lo chiederò, in privato, a Paolo Fox o a qualche virologo vip.

Non tutto è da buttare, però. A onor del vero c’è stato qualcosa che mi ha dato conforto: il rispetto delle tradizioni. Due tradizioni in particolare, senza le quali, a mio avviso, non può concludersi un anno vecchio e non può iniziarne uno nuovo. Mi riferisco al cinepanettone e alle classifiche sui personaggi più influenti del mondo dell’arte delle più svariate riviste internazionali. Vado con ordine. 

Il cinepanettone di quest’anno è stato assolutamente innovativo; cioè, tutta un’altra cosa rispetto agli anni passati. Innanzitutto perché, causa Covid, lo hanno “proiettato” in streaming sulle piattaforme digitali, e non sul freddo schermo di un cinema (una domanda: non sarebbe stato più corretto chiamarlo “telepanettone”? Boh?). Eppoi, innovazione delle innovazioni, il film è stato girato non a Miami, non a Cortina d’Ampezzo, non a Canicattì, bensì su Marte. Su Marte! Ho promesso a me stesso che lo vedrò entro il 2030, anno in cui il soggetto è stato ambientato. 

In merito alle classifiche sui personaggi più influenti dell’artworld, invece, ammetto di avere una dipendenza. Posso spingermi addirittura ad affermare che la mia vita dipenda da esse. Non riesco a cominciare l’anno senza leggere quelle piccine motivazioni su chi è stato il più importate, il più cool, il più questo e il più quello del mondo dell’arte. Non è tanto capire chi arriva primo o chi arriva ultimo, che mi piace. No. Ciò che mi interessa è la struttura con cui l’umanità preferisce aver consapevolezza di sé, facendo delle distinzioni insindacabili tra chi andrà in paradiso e chi no, tra gli eroi e la polvere, tra chi è dotato di aura e chi deve accontentarsi al massimo di un neon. Questa è tradizione pura, ai limiti del religioso. Ma è anche arte, l’arte che desidera raggiungere il suo sogno: trasformarsi in un amalgama confuso, a metà tra una vicenda di gossip e il fantacalcio, tra il pettegolezzo dal parrucchiere e una gara gastronomica. 

Non nascondo che anch’io avevo i miei favoriti, i miei “cavalli” da corsa. Su essi ho scommesso tutto quello che possiedo: le mie piante, uno spazzolino da denti, il Labello alla fragola e sei paia di boxer. Tuttavia, non vedendoli in cima alla classifica e nemmeno agli ultimi posti, per consolazione ho inviato loro un messaggio WhatsApp: un meme col tizio simpatico al balcone, su cui compare a caratteri cubitali la scritta «Ce la farete!». Dalle risposte che ho ricevuto, irriproducibili sulla pagina di una rivista, pare che si siano offesi. Ecco, questo è un altro problema degli abitanti del pianeta arte: prendersi troppo sul serio, talmente sul serio da risultare tristi, grigi, amari. Credevo fosse chiaro: il mio era uno scherzo. Tutto quello che scrivo lo è. Anche quello che hai letto qui sopra. Non è necessario andare su Marte o arrivare primi per capirlo. Si scherza per affrontare diversamente i fatti, per osservarli da un altro punto di vista. 

Prendi la parodia del capodanno italiano trasmessa il 30 dicembre sul primo canale della tv russa, intitolato “Ciao, 2020”. È o no un affresco fedele, quasi ontologico, su ciò che è l’Italia da quarant’anni e di cui nessuno ha mai sospettato? In Italia, quei personaggi inventati dai comici russi, li mettiamo o no nei musei, gli facciamo o no guidare campagne di comunicazione, li rendiamo o no simboli pedagogici? Piuttosto che “Velvet Buzzsaw”, il quale sarà sicuramente un capolavoro (vedrò anche questo entro il 2030, lo prometto), l’arte contemporanea ha estremo bisogno di parodie simili a quella degli amici russi. Semplicemente geniali! Fedeli alla realtà, senza prendersi troppo sul serio, senza esagerare, senza scadere nel trash, ma analitici e per questo perfetti! Perché non trarne un insegnamento? Se l’arte contemporanea ci tiene alla sua credibilità, dovrebbe approfittare del periodo di chiusura delle strutture espositive impiegando il tempo morto — tempo di morte — produttivamente, magari riflettendo su come presentarsi ai suoi cari fruitori quando terminerà il lockdown. In fondo è una decisione imprescindibile, le sono rimaste poche chance. Deve scegliere se intende darsi all’ippica, a un’ippica chic (che evidentemente preferisce), restaurare un modello fallito e riprenderlo in mano, o concentrarsi su una concreta parodia di se stessa e destrutturare le sue certezze. 

Dal canto mio, voto per l’ultima scelta. Di arte buona da burlare ce n’è abbastanza, talmente tanta che, probabilmente, di arte nuova potemmo farne anche a meno. Inoltre la parodia, disse uno, un clown mi sembra, ha profonda utilità: è quando la verità diventa divertente e ridi malgrado ti stiano bastonando la faccia. 

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.