L’esposizione, a cura di Raffaele Quattrone, si compone di opere eterogenee, scientemente distribuite nelle sale della galleria presso il cinquecentesco Palazzo Ghiselli, in silenzioso dialogo con le caratteristiche stesse dello spazio che le ospita.
I tredici artisti esposti in Legami Fragili hanno saputo avviare, mediante assonanze e dissonanze, una coinvolgente conversazione sul tema attuale del progressivo sfaldarsi dei rapporti sociali e della conseguente perdita di coordinate stabili entro cui potersi, con certezza, collocare.
L’allentamento dei legami umani, surclassati da un antagonismo feroce tra singolarità prorompenti, è, appunto, un fenomeno che occupa una buona parte del dibattito collettivo; tra molte altre cose, infatti, la diffusione trasversale di dispositivi elettronici personali, infarciti di applicazioni per ogni possibile evenienza, e la ricerca nell’intelligenza artificiale di una risposta al bisogno umano di creare un dialogo con l’altro hanno fatto sì che si corroborasse l’idea di una poderosa svolta individualista nella società. E pensare, poi, che si può dire che il primo passo verso il rafforzarsi dell’”Io” sia avvenuto con l’introduzione del libro tascabile, a soppiantare i costosi, grandi volumi che si potevano leggere in collettività, principalmente in chiesa. Chi avrebbe mai potuto immaginare che l’avvento di un libro in formato ridotto e il consecutivo espandersi della cultura nell’intimità dello spazio domestico avrebbero potuto creare questo grande pasticcio!
In una società in continuo cambiamento, le cui regole si modificano in tempi sempre più brevi, si può davvero ancora pensare a relazioni stabili che, come solidi cartesiani, attraversano le mutevolezze continue dell’oggi? E se è vero che “Amore non è Amore se muta quando scopre un mutamento”, è davvero la rigida saldezza a essere il valore di un legame o forse, piuttosto, la sua capacità di essere arrendevole ai cambiamenti, adattandosi così ai diversi casi dell’esistenza?
Vale forse la pena sospendere il giudizio e iniziare il percorso della mostra dalla prima sala soppalcata, in cui sono ancora visibili brani di affreschi a grottesche in diretto dialogo con le opere su carta di Sabrina Muzi, che raffigurano forme indefinite – pensate dalla stessa artista come monadi – che, al pari di creature misteriose e archetipiche, racchiudono in sé ciò che è passato e il potenziale futuro: l’unicità del particolare che perde i propri connotati per contenere l’altro. L’unità stessa dell’individuo viene, poi, messa in questione al contemporaneo bestiario The animal in me, 2021, di Rosalía Banet, che decostruisce la propria identità, scomponendola in elementi umani e animali e creando, così, un’installazione visivamente frammentata e disordinata, a tratti contradditoria. È già a partire dal confronto con il proprio “Io”, infatti, che si deve prendere atto che – come insegna Pirandello – non vi si può instaurare un rapporto stabile e lineare, proprio perché non si può definire il proprio essere come un’entità unica o compiuta, bensì un agglomerato di diverse parzialità che si compenetrano e scontrano.
E se nelle opere di Pierpaolo Curti e Roberta Cavallari la relazione con l’individuo e il luogo a cui appartiene è affermata mediante la sua assenza, in tele che propongono silenziosi scenari metafisici o scorci di arredamenti di design da riviste patinate, Zeno Bertozzi introduce il legame tra il suo strumento e la materia attraverso tempo, alludendo ad un lavoro lento, di fino, che mediante progressivi interventi scava affascinanti geometrie.
Il tema caldo del nostro rapporto impattante sull’ambiente è poi affrontato da Enrica Borghi, le cui sculture, realizzate con oggetti di scarto, sono pensate come moduli decorativi da comporre per creare strutture di bellezza, così come dal lavoro di Alessandro Moreschini, caratterizzato da una pratica lenta e meticolosa, quasi ascetica, con cui ottiene risultati di grande preziosità per ricordare l’intrinseca e viscerale reciprocità con il nostro pianeta, come nel dittico “Terra”, 2023.
Relazione è anche quella con il femminile, guardato con lo sguardo maschile feticizzante nelle opere di Antonio Riello, le cui armi imbellettate con strass e perline mantengono nomi di donna, come puro gioco da uomini. Sempre di femminile si parla, poi, nelle opere di Armida Gandini, in cui, sopra a riproduzioni di volti di celebri dive, l’artista appone i propri occhi. Le donne, accumunate dal non aver avuto esperienza della maternità, trovano in questo fatto personale un punto di incontro con l’artista, che le demitizza rendendole partecipi della propria sofferenza.
L’arbitrarietà dei rapporti di potere è, invece, evidenziata dai grandi disegni a carboncino di Kepa Garraza, raffiguranti celebri monumenti di dittatori di diverse epoche – da Kim II Sung a Luigi XIV – che, abbassati ad altezza umana, sfasano il classico punto di vista di queste sculture, demistificandone quindi il personaggio; inoltre, le caratteristiche stesse del carboncino, delicato e imperituro, contribuiscono a sottolineare la mancanza di una possibile eterna garanzia di potere. Sempre di punto di vista, poi, si parla anche nelle opere di Alberto Di Fabio che fanno implodere ogni aspettativa di corretta percezione del mondo, portando l’incredibilmente piccolo e lo straordinariamente grande a collimare.
Se le relazioni sono, dunque, potenzialmente infinite e le diverse prospettive negano l’utopia di un’univoca interpretazione – come avviene nei vasi di Davide Bramante non già utili a contenere qualcosa, ma divenuti pura opera d’arte che, come afferma Fernando Pessoa, porta piacere per proprio per il fatto di non avere uno scopo – Alberto Gianfreda con le sue sculture eternamente rotte, tenute insieme da catene in metallo, sembra suggerire che, in un’epoca di profondi e veloci cambiamenti, una possibilità per non perdersi sia essere effettivamente disposti a rompersi e a ricomporsi con giunture mobili, capaci di riconfigurarsi.
L’impossibilità di mantenere una forma definita nel flusso della vita non è forse, dunque, qualcosa per cui essere necessariamente turbati: sono infatti i momenti di crisi, di perdita dello status quo e cambiamento, che permettono all’umanità di non continuare a muoversi come in un cerchio infinito, compiendo i medesimi errori, ma di evolversi e crescere seguendo la forma di una spirale.
È forse, quindi, vero che nella società contemporanea i legami appaiono fragili, ma non si può non ammettere che è proprio la loro capacità di rompersi con più facilità a renderli in grado di ricomporsi e, forse, resistere.