La location «The Square» II 

I fotogrammi e gli algoritmi che compongono The Square, e che urtano il buon gusto del sistema dell’arte, sembrano conservare ancora oggi un singolare potere. Sono apparentemente dei montaggi di bravura, di un genere prezioso che sembra discostarsi dal gusto post-moderno dominante e che anche il cultore di The Square può giudicare piuttosto stravagante e in definitiva isolato nello specchio della produzione artistica attuale.

Oggi c’è la tendenza a rifiutare il discorso sul soggetto, oppure a fare semplicemente del soggetto il soggetto della crisi. Da una parte si rifiuta l’arte e dall’altra si difende una qualsiasi delle sue apologie, il suo sapere bislacco, assoluto, come scienza della crisi, di qualsiasi crisi. Il soggetto dell’arte contemporanea è fuori dal suo alveo, non fa problema in quanto non è altro che il soggetto della Nuova Monarchia, soggetto collettivo che, sbarazzandosi della Monarchia in Svezia, mostra come il Palazzo Reale di Stoccolma viene convertito in Museo d’Arte Contemporanea: lo fa comandando il meccanismo di spostamento dei poteri, e allora c’è il cambio nello scioglimento minimalista. L’umorismo delle forme raggiunge l’ironia delle masse, della politica dell’arte al posto di comando, della sovranità borghese mascherata da rivoluzionaria, eludendo la sfida interna alla nuova dimensione artistica, il sistema monarchico e curatoriale dell’arte in gara con loro stessi, per arrivare (non si sa dove) o perire, in un agone del trash mortale. La logica delle classi, nella prospettiva della nuova reggenza, porta in ogni caso a soccombere, vincitori e vinti: il protagonista sarà stato solo più bravo del perdente, ma l’allenamento all’esibizionismo avrà richiesto a entrambi di sputare l’anima. La figura aristocratica dell’élite post-avanguardistica è mostruosa: questa è la prima affermazione liberal. Il soggetto materiale è il soggetto elitario: “così è al quadrato che si deve chiedere una rappresentazione della materia aleatoria”.

Prendere atto di The Square non si può in modo neutrale. Così afferma Christian nel suo contributo alla catastrofe dell’arte mondiale. E davvero il tema è di quelli dinanzi ai quali nessuna oggettività, nessuna neutralità è possibile e, quel che più conta, auspicabile.

Il campo di The Square è di quelli che ognuno è costretto ad attraversare, e non soltanto perché costituisce l’asse centrale dell’attuale dibattito semiotico, ma soprattutto perché, come purtroppo è noto, la tecnicizzazione, la razionalizzazione strumentalistica, la caduta del senso costituiscono i lineamenti marcati della società artistica prodotta dall’Occidente, sempre più orientata verso valenze etero ed auto-distruttive. La tensione di The Square è il nostro stesso mondo, a partire dalle grandi dimensioni della politica e per finire alle dimensioni più vicine a noi, dell’esistenza quotidiana. Ecco perché, in ogni caso, non ci si può occupare di The Square in modo neutrale. Prendere atto del film di Ostlund significa, dunque, prendere atto della crisi generale da cui siamo investiti, significa continuare ad essere nella crisi e tuttavia operare uno sforzo per pensarla.

Se ne era accorto quarant’anni fa Christian Metz, che intervenendo su Langage et Cinema (1971) notava: è lecito chiedersi per quale motivo i registi cinematografici si soffermano sull’arte plastica, che tuttavia non esprimono direttamente nella propria opera in nessuna delle ossessioni tipiche dello schermo, e cioè il tempo e il movimento, la presa diretta delle corrispondenze intermediali. A ragione di ciò ci saremmo aspettati di vederli avvicinarsi ad altri autori e altre complesse narrazioni. Due considerazioni, sulla scorta dell’interrogativo di Metz, possono allora essere proposte. La prima relativa all’oggetto dell’analisi, vale a dire l’esplosione dell’arte plastica post-anni ’80. 

The Square si trova a fare i conti – per sua stessa ammissione – con la retorica delle arti visive, con degli argomenti più complessi e difficilmente penetrabili della modernità espositiva, considerando lo stesso museo come l’atteggiamento modernista basato su una illusione semiotica, quella di una lingua monopolizzata dalla sua funzione scarsamente referenziale, in cui i segni sarebbero gli analoghi esatti delle cose: una griglia ambigua e trasparente che duplica l’illusionismo di un reale storico irriproducibile. Si veda ancora una volta il progetto espositivo “Live in Your Head. When Attitudes Become Form” a cura di Germano Celant in dialogo con Thomas Demand e Rem Koolhaas, più recente riproposizione della mostra, curata da Harald Szeemann (alla Kunsthalle di Berna nel 1969) e passata alla storia per l’approccio del curatore alla pratica espositiva. Il progetto di Celant  riadattava negli spazi settecenteschi di Ca’ Corner della Regina la mostra di Szeemann, mantenendo le originarie relazioni visuali e formali tra le opere. Si sa che tale progetto espositivo (riprodurre mediante segni una realtà non semiologica) è giustificabile soltanto in due o tre campi molto marginali; il non-linguaggio, il semisimbolico tradotto in una successione di oggetti graficizzati, o installati, che non sono in grado di imitare se non basicamente (minimalmente) gli elementi iconificabili della realtà.

Ostlund, così come Alberto Sordi, ha scelto di confrontarsi con un mondo e un temperamento della neo-avanguardia diversi dal proprio. Lo stile della neo-avanguardia gli appare infatti opaco, a volte spoglio di significazione accertata, più spesso arido o addirittura sarcasticamente irritante, eppure denso di obliquità e di stemperata indifferenza. È questa elitaria catastrofe dell’incompreso che colpisce ed inquieta Ostlund e, in diverso modo, Celant (inconsapevole e acritico) dopo Alberto Sordi. Tutto ciò ci porta alla seconda delle nostre considerazioni: la problematicità del caso The Square, nel contesto storico attuale e quello di Vacanze Intelligenti; evidentemente, sia l’analisi del sistema artistico degli anni ’70 che di quello attuale non può essere risolto addizionando né cercando una relazione empatica e, infine, né da quell’uso parassitario dell’affermazione teorica che equivale alla messa in gioco delle prospettive e del pensiero altrui.

Ostlund non ha nulla da condividere con la storia sociale degli anni ’70 e niente da sottrargli; così come Vacanze Intelligenti non ha nulla da sopperire o da sormontare. Ostlund e Sordi sono dunque due enigmi che non si lasciano addomesticare, ma che al contrario richiedono lucidità e disciplina analitica. Infine, The Square è fuori da Vacanze Intelligenti solo se Sordi è il contraddittorio culturale italiano degli anni ’70 e The Square quello della catastrofe dell’arte relazionale. The Square non è che lo sfondo di questo percorso, il battistrada di un itinerario che sonda la post-modernità delle pretese moderniste, l’ideologismo liberal dell’arte plastica del Nuovo Millennio, le smentite sulla ripetizione che non producono differenza e che – contemporaneamente – ci fanno pensare alla riflessioni di una storiografia aggrappata agli extramedia azzardati (mi riferisco alla strana considerazione dell’ideologema crispoltiano, contro le stesse opere di cui si fece militante nella Biennale di Venezia 1976: Ambiente, partecipazione, strutture culturali). 

Per una soggettività come quella di Christian, abituata ad alimentarsi delle altrui ragioni (vedi Arte relazionale nel film; riferito a Esthétique relationnelle, Dijon, Les presses du réel, 1998 di Nicolas Bourriaud), si tratterà di raggiungere il limite del paradosso e cioè disporsi a divenire il “mezzo” (o il grimaldello spettacolare e linguistico) attraverso cui The Square potrà essere impiegato dal suo tempo, dal blocco solido e angusto delle interpretazioni tendenziose, dalle tentazioni curative di certa critica d’arte, infine dal progetto di colonizzazione ideologica del modernismo spettacolare, sempre riemergente dentro la figura “catastrofista e belligerante” della retorica curatoriale neo-neo-avanguardistica. Il regista (artista) di The Square ha preferito, dunque, rimanere dietro le quinte, accettando di dialogare col sistema pubblicitario, che è il suo esplicito riferimento, ma anche con tanti illustri predecessori: lasciando infine che la contraddizione del sistema dell’arte emergesse da sola, come un segno affascinante e nefasto, nel calderone post-ideologico, sostanzialmente inafferrabile e impermeabile a ogni stereotipo e a qualsiasi tentativo di annessione e connessione. Né minimalista, né massimalista, né realista, né impressionista e nemmeno modernista, The Square affiora, dalla sceneggiatura e dalla progettazione fotografica di Friedrik Wenzel, come una “apparente rottura”, una inconciliabile frattura creatasi nel momento stesso in cui l’esperienza artistica abbandona valori consunti e convenzioni decadute.

La bruciante nudità di The Square non può e non vuole assimilarsi alle altre voci del coro mainstream, ovvero né a quelle rappresentate dalla 59 Biennale di Venezia, né alla liberatoria e collettivistica 15a Documenta Kassel. Voce eterogenea e appunto ob-scena (fuori coro), la Piazza dell’Accoglienza finisce col deviare dalla retta via del progetto moderno (scartando anche certi sentieri dell’avanguardia). Qui appunto si interrompe bruscamente il contributo di Ostlund. Il resto del contenitore cinematografico rimane in parziale accordo con la lettura oggettiva e, sotto certi aspetti, semiotica delle arti visive della fine del XX sec. e dell’inizio del XXI sec. (la caduta dell’arte d’avanguardia e para-relazionale). E tuttavia il regista aveva gettato un sasso – neanche troppo leggero – nell’impenetrabilità dell’effetto Duchamp. Tra le immagini della ratio difficilis dedicate al crollo dell’illusionismo duchampiano, oltre a quella sorta di auto-spettacolarizzazione – già sottolineata -, accompagnata dalla solita frequentazione dei metodi della ricognizione proto e vetero dada e performatica, si leggeva però qualcos’altro: la consapevolezza che la surmodernità dell’arte presente sfuggiva comunque al sistema del moderno, così come la pateticità dell’avanguardia e l’estetica trasformistica lo andavano ricostruendo, in una retrospezione archeologica spesso di parte (strumentale), guidata, volentieri dall’imperativo della maschera astrattiva e in genere della distruzione della forma. Dopo The Square l’arte contemporanea non potrà più essere ricondotta né al fronte della tradizione – essendo il più efficace conflitto – ma nemmeno a quello della proto/avanguardia.

La sovversione impersonale dell’arte relazionale e la sua ricerca apparentemente analitica, aprono allora lo spazio di un’altra catastrofe, meno eclatante ma più acuta, meno esplosiva ma più ambigua, meno euforica ma più corrosiva e profonda. Dice incredibilmente Luigi Malerba nel 1978, ovvero quando ancora non era accusato di post-modernismo: “Il buffone ha una memoria capricciosa, i ricordi non entrano nel suo repertorio. Parla al tempo presente. L’immediatezza è lo strumento della sua rappresentazione. Il passato remoto avvolge ogni cosa nell’alone della lontananza. Una storia comica raccontata al passato remoto può diventare un piccolo dramma. Il passato remoto è il tempo della tragedia,l’imperfetto il tempo dei sentimenti (la deleteria letteratura della memoria), il presente è il tempo ideale del comico. Franco Fortini concede all’avanguardia la “memoria involontaria”, che non contraddice nessuna ipotesi: “Veni, vidi, vici” sarà dunque da leggere come una tragedia in tre tempi (si tratta pur sempre di una guerra) o come una battuta di commedia accelerata?” (Appunti e citazioni sul comico e l’avanguardia, in Fine delle Avanguardie, I Problemi di Ulisse, ANNO XXXII, vol, XIV, MAGGIO 1978, Sansoni Nuova, Firenze, p.79).

Finale di sintesi. Siete per il cinema o la televisione? Siete per la poetica dello schermo diffuso o per l’assoluto dell’immagine riprodotta nei video delle gallerie d’arte o degli smartphone? O meglio, preferite stare comodamente seduti di fronte alla quinta parete domestica oppure avete voglia di immergervi nel brivido performatico di una sala di un museo contemporaneo? Interrogativi oziosi, visto che si tratta di diverse forme spettacolari, che presuppongono una diversa eattuale fruizione. In ogni caso, a differenza di quello che ci mostra The Square, il fruitore comincia ad essere piuttosto esigente: preferisce una fruizione “mobile” costruendosi, smartphone alla mano, il proprio immaginario, piuttosto che andare al cinema o in una galleria d’arte e rischiare di restare lontano dall’evento sovrapposto alla vita quotidiana. E non è un caso che la curiosità del cinema riguarda maggiormente come “l’arte visiva” – che diviene arte in virtù della sua collocazione (si pensi alla diffusione del ready-made in termini di popism e all’oggetto comune traslato rispetto al suo contesto funzionale) – esalta il dada-capitale puro e non la quantità di opere d’arte riproducibili. Queste ultime, anzi, proprio in virtù della moltiplicazione degli schermi e della loro collocazione, hanno di gran lunga stimolato la tensione di cui è pervaso Christian: interruzioni imprevedibili del fuori contesto dentro il perimetro di The Square (che credeva chiuso e quadrato)! Tanto che il direttore di un museo (un certo altro da sé) è diventato un vero esperto, nel decodificare i vari sedativi che l’elite dell’arte chiede alla dittatura stessa delle multinazionali dello spettacolo. Quelli che non vogliono, comunque, rinunciare, al l’insostenibile magia del feeling da vernissage o da tic isterico, non disperino: sono in fase di realizzazione alcuni progetti relativi alle ristrutturazioni dei Musei, come ci illustra “il film di Piazza” che racconta il contrasto tra l’opera dell’artista e di un pubblico che ha fatto della bellezza il suo credo, rifiutando le condizioni dei mendicanti e della povera gente e mandando in corto circuito eccesso e difetto, idealismo e cinismo, polpa e scheletro della propria vita e del proprio lavoro di curatore di una grande struttura fondata sull’apparenza!

Tutto il cinema di Ostlund è percorso da un particolare tono di irriverenza,in cui la trasgressione della norma sociale si attua attraverso la forza destrutturante delle regressione e della nullità. Il punto di riferimento di questa filmicità mediale restano i centri del sistema dell’arte, per quanto di beffardo e di tenero è presente nei comportamenti di ciò che H.S. Becker chiama “art worlds”(Mondi dell’arte; Berkeley: University of California Press, 1982). In questo senso, la demenza di “The Square” non costituisce solo una maschera che permette di svelare i meccanismi della crisi della relazione sociale e artistica (come il quadrato che fa da opera d’arte e che ridicolizza gli artisti della minimal art; un frame vuoto, paradosso dello schermo cinematografico), ma diviene operativa, in grado di trasformare l’emergenza di una possibilità espositiva in una campagna pubblicitaria col concorso di bambini-kamikaze! Con questa chiave di lettura, Ostlund nel suo film ha passato in rassegna alcuni degli argomenti di punta della condizione incomunicabile dei nostri tempi. Chiuso tra l’annuncio di una condivisione aleatoria, una passeggiata tra la vita di tutti i giorni e il cimitero dell’arte odierna, che costituiscono un “oggi” rassegnato emalinconico, il film ripercorre in flashback un “passato dell’arte” altrettanto malinconico e costellato di morte. Con una punta di “cattiveria necessaria” verso il mestiere dei curatori e dei registi museali, Ostlund è assai più furbo, proprio perché coglie il rapporto psicologico delle due figure del direttore-curatore-narciso e della messa in ridicolo di se stesso: visto che il quadrato esiste davvero, ed è un’installazione artistica nata qualche anno fa dalla mente dello stesso Ostlund e da quella di un produttore, Kalle Boman. Proprio come nel film, il quadrato è un’area pubblica in cui tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri, un luogo in cui lasciare i propri affetti ed effetti, avendo fede pienamente del prossimo.

Non sarebbe un film realizzato da una coscienza critica mediale, se non ci fosse una critica emergente e tagliente della società che ritrae. E, quindi, abbiamo un “mondo” e un “mondo dell’arte” che non sa capire se stesso, che è diventato talmente autoreferenziale da parlare solo linguaggi impenetrabili, all’interno di una serie di macchine espositive tutte uguali e conformi allo standard del dada-capitale: musei che espongono se stessi, il proprio vuoto – un neon qui, una struttura minimalista lì – senza la spinta per creare niente, che non sia niente, se non il grido del film: You Have Nothing. Il nervo scoperto che The Square tocca è quello che anche la cronaca porta alla luce: esiste una generazione di curatori e di direttori di musei per la quale l’arte contemporanea è la vita e la vita è il sistema dell’arte contemporanea; puoi passare le ore nei corridoi di un Museo poi, quando arriva l’ultima sala puoi infilarti un soprabito nero e andare nei corridoi di un altro museo, rincorrendo altri mucchi di cenere ed altri minimalismi. Nella chiusa, si percepisce una mistura di commestibile e di sepolcrale: dinanzi alla bimba esplosa, i superstiti assaggiano, pieni di cinico lutto, un ennesimo vernissage. Come uno di quei fantasmi che stavano dentro la performance espositiva, il nuovo King Kong addirittura vi getta lo slogan: «Il quadrato è un santuario di fiducia e amore al cui interno tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri».