Indagatore dell’inconscio

A margine della sua personale La pelle del tempo al Museo Carlo Bilotti di Roma, in corso sino al 21 aprile 2024, ho incontrato Danilo Quintarelli, indagatore dell’inconscio. Ne è nato questo colloquio, in tre parti, in cui approfondiamo i momenti salienti della sua ricerca.

L’artista di Avellino, ma romano di adozione, ha immaginato la mostra come una vera e propria installazione: un’azione sospesa tra reale e virtuale in cui ogni elemento invita a riflettere sul passato e sul futuro del palazzo in cui la mostra ha luogo. Ne La pelle del tempo le numerose trasformazioni subite dall’Aranciera di Villa Borghese nel corso dei secoli sono infatti evocate da una serie di dipinti che ricalcano le sovrapposizioni delle superfici murarie, la “pelle” della struttura architettonica, e da un video realizzato a quattro mani col videoartista Andrea Maioli (Kanaka Studio) che ripercorre, sulla base di alcune foto di Quintarelli, le evoluzioni surreali di un grumo di colori.

Parliamo un po’ delle tue origini, della tua città natale.

Sono nato ad Avellino, una città dove si è conservato un approccio alla quotidianità molto lento, una calma riflessiva alla quale bisogna essere inclinati e che soprattutto va saputa gestire. Tale dimensione come di attesa può essere di sprono, regalarti quella scintilla che ti consentirà di dare forma alle tue ambizioni, oppure inghiottirti e tenerti incatenato all’umidità delle tue ansie e delle tue paure.

Tu quando e come hai iniziato a dedicarti all’arte? 

Quando frequentavo il Liceo Scientifico, un mio compagno di classe mi coinvolse nelle sue attività di writing, facendomi appassionare. Iniziai con disegni e bozze di lettering, poi mi diedi ai murales. Non posso dire di essere stato un artista “di strada” coi fiocchi, non mi sono impegnato a sufficienza, ma è grazie al writing che ho compreso quanto l’arte possa essere potente, nei suoi risvolti curativi e sociali. Seguì, durante i primi anni di Università, un periodo di “fermo” creativo, in cui i miei interessi si spostarono sulla fotografia. Dopo aver frequentato Ingegneria, mi iscrissi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove mi accostai, finalmente in modo serio e sistematico, alla fotografia, raccogliendo gli elementi teorici e concettuali che, a tutti gli effetti, sono la base della mia ricerca artistica attuale.

L’artista è sempre un uomo che guarda. E che invita a guardare. Ci sono state “apparizioni” che hanno cambiato radicalmente la tua visione del mondo?

Assolutamente sì! Devi sapere che, ad Avellino, abitavo all’ultimo piano di un palazzo che soffriva di infiltrazioni dal tetto; il risultato erano vaste macchie di muffa, che riempivano il soffitto. Durante la mia infanzia e adolescenza, trascorrevo ore ed ore ad osservare quelle macchie e a perdermi negli infiniti mondi che mi offrivano. Vi cercavo immagini familiari, personaggi di un’intricata storia o semplicemente figure buffe. Mi ha sempre affascinato la tendenza del nostro cervello ad associare a forme indefinite immagini appartenenti alla nostra esperienza. Di tali argomenti mi occupai approfonditamente in periodo accademico studiando Psicologia della Forma e la Teoria della Gestalt.

Seguivi, senza saperlo, la lezione di Leonardo, il quale, nel suo Trattato della pittura, cercando un “modo d’aumentare e destare l’ingegno a varie invenzioni”, invitava il pittore a guardare “in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di vari misti. Se avrai a invenzionare qualche sito”, proseguiva, “potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverso battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e buona forma; che interviene in simili muri e misti, come del suono delle campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t’immaginerai”.

Tutt’ora, quando guardo le macchie, i buchi, le crepe e le erosioni dei muri vi cerco i personaggi e le ambientazioni delle mie storie. Probabilmente questo modo di guardare “leonardesco” ha condizionato il mio approccio al mondo e alla considerazione che ho di esso.

L’arte è anche dialogo con altri artisti: arriva sempre un momento in cui le macchie sul muro sono loro. 

I primi che mi vengono in mente sono tutti i Surrealisti, Antoine D’Agata, Francis Bacon, Alberto Burri e Mark Rothko. Ognuno di essi ha in qualche modo influenzato il mio approccio. Il pensiero surrealista ha sicuramente dato il via al mio interesse per il mondo dell’irrazionale e dell’inconscio: ancora oggi scrivo utilizzando la tecnica surrealista della scrittura automatica. Antonine D’Agata e Francis Bacon sono accomunati da un’estetica che trova origine nelle miserie umane, un elemento molto vicino alla mia fotografia che, non a caso, ricorda molto il lavoro dei due artisti, pur avendo fondamenta concettuali molto diverse. Anche Alberto Burri, per la matericità delle sue opere e i materiali poveri che adopera, ha indirizzato in modo evidente la mia ricerca. Che dire poi di Rothko, che forse tra tutti è quello che più mi ha incoraggiato. Quando ho studiato Rothko, ho scoperto che eravamo accomunati dalla stessa concezione dell’opera d’arte: essa è infatti la soglia che permette a chi le si accosta di accedere ad una dimensione più alta, dove cadono le maschere e la sincerità regna.

Un minimo comun denominatore tra personalità soltanto all’apparenza così diverse e inconciliabili potrebbe essere l’interesse per l’inconscio che attribuisci all’influenza surrealista.

Tirare le linee di una figura può circoscrivere il suo significato all’interno dei nostri confini razionali. Le figure dei miei quadri sono personaggi senza contorni il cui significato non ha limiti.

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