Valerio Deho

In direzione contraria: Valerio Dehò

Buona parte delle statue che compaiono nelle installazioni di Maurizio Cattelan, come ormai sanno anche le pietre, sono state realizzate dallo scultore francese Daniel Druet che, stanco di non venir neppure nominato nei crediti e nei cataloghi, ha pensato bene di citare in giudizio Cattelan, il suo gallerista Perrotin e il Monnaie de Paris, chiedendo loro un risarcimento milionario. Ha fatto bene? Ha fatto male? Lo abbiamo chiesto, tra le altre cose, a un critico non propriamente allineato come Valerio Dehò, già commissario alla Quadriennale e docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Bologna, nonché storico curatore di Milano scultura.

Cattelan è stato citato in giudizio da Druet, lo scultore che ha concretizzato le sue idee. Secondo te chi ha ragione?

Ha ragione Cattelan. Druet sta sfogando solo la sua frustrazione, umanamente comprensibile, ma totalmente inutile. Gli hanno chiesto un lavoro, lo ha fatto ed è stato pagato. Cattelan non ha copiato Druet. Ha trovato un bravo artigiano che lavora per un museo delle cere e gli ha ordinato dei lavori. Druet è stato bravo, non c’è dubbio. Ma in un universo cinico e fatuo come quell’arte contemporanea, la bravura è un difetto. Contano altri valori come la provocazione, il captare il sensazionalismo mediatico, il fare parte di un certo entourage. I ceroplasti o i tassidermisti che lavorano per Cattelan devono rassegnarsi all’anonimato. Gli artigiani carrarini che lavorano per i Cattelan o per i Marc Quinn e per le centinaia di artisti che mandano rendering da migliaia di chilometri che si trovano autori di sculture che non hanno mai toccato, cosa dovrebbero dire? Invece stanno zitti, incassano e fatturano.

Un giudizio sull’ultima Biennale: meglio la rassegna o i grandi eventi organizzati in contemporanea?

La Biennale è fatta oggettivamente bene, ordinata, pulita, politicamente corretta, multietnica, non scontenta nessuno se non chi non c’è. Come sempre. Ha anche il vantaggio che si dimentica in fretta.

Lo stesso non si può dire per Kiefer, o per la Dumas. Uno degli eventi collaterali della Biennale, la mostra Venezia Madredella Repubblica di Startè, è una tua creazione. Che cosa intendi per “Free State Of Art”?

È un’idea vecchia, probabilmente l’utopia di un falansterio di artisti che vivono in pace con tutti tranne che con se stessi. Uno stato, una repubblica libera e autogovernata. C’è il profumo di una società anarchica. La speranza c’è sempre, anche se tutto va nella direzione contraria.

Quest’anno curi la sesta edizione dell’unica fiera italiana dedicata alla scultura.

Milano Scultura la faremo a Milano con Ilaria Centola alla Fabbrica del Vapore dal 9 all’11 settembre. È una fiera che vuole valorizzare una lingua che non muore mai. Diciamo che ogni tanto finge di essere morta. Ma ormai il mondo è tridimensionale, vogliamo la realtà virtuale tutti i giorni, la prospettiva ci ha ingannato abbastanza. La tecnologia ci porta in dimensioni plurime ed è bellissimo vedere in una fiera il marmo e il silicio.

La scultura, più di altre discipline, ha sofferto dell’attuale tendenza alla smaterializzazione dell’arte; non credi sia destinata a scomparire?

Vedo che sei scettico sul futuro della scultura, ma non temere, la smaterializzazione dell’arte sta finendo. Tornano tutti al corpo, alla fisicità, ad una dimensione plastica dell’arte. Il digitale implica una sudditanza rispetto alla materia insopportabile. Crea uniformità, conformismo, immagini stereotipate. Basta aprire un programma di intelligenza artificiale per mettersi a ridere. La corsa agli NFT è solo una moda sciocca e fatua di chi cerca la novità nella tecnologia e non nelle idee. Poi è immorale che si consumi energia per produrre delle copie di copie. Leggo che il consumo annuale di energia di Ethereum (la criptovaluta più diffusa con il Bitcoin) lo collocano a circa 97TWh, quasi 10 gigawatt, paragonabile al consumo del Pakistan, un Paese da 220 milioni di abitanti. I notai costano e consumano di meno.

Cosa consiglieresti a un artista, a un critico e a un curatore che intendano dedicarsi alla scultura?

Consiglierei di farsi un viaggio: Pompei, Acropoli, Granada. Per cominciare. La giovane critica pensa che l’arte sia nata con l’Arte Povera. Non sanno leggere un quadro nemmeno con l’audioguida, figuriamoci una scultura di Giacometti. Eppure Damien Hirst ha raccontato tutto con il Naufragio dell’Incredibile, una “storia del mondo in cento oggetti” come ha detto lui stesso. La plasticità ha dominato la ricerca di verità da parte dell’uomo. Non ci si sente dei deficienti a guardare un film con gli occhiali 3D? La realtà è già così, perché scimmiottarla in modo così banale? Gli artisti che rincorrono le tecnologie non hanno niente da dire. Lo fanno strano per farsi notare. Poveretti.

Progetti per il futuro?

Ho un programma di mostre per i prossimi tre mesi che vanno da Vasco Bendini a Giuseppe Veneziano, dalla Public Art al collezionismo in Alto Adige. Ci sarà anche una mostra a Palermo che stiamo definendo e sarei felice di tornare a lavorare in Sicilia. Poi sto cercando complicità per ricordare i 60 anni di Fluxus, l’ultima avanguardia degna di questo nome. Infine l’anno prossimo andrà in porto a Pavia, benedetto da sant’Agostino, un progetto sulla morte, grande e visionario. Come mai nessuno lo ha mai fatto?