How will we live together?

How will we live together? Breve introduzione alla Biennale di Architettura 2021

Con la consegna del Leone d’Oro alla Carriera all’architetto spagnolo Rafael Moneo ha aperto al pubblico, lo scorso 22 maggio, la XVII Biennale di Architettura di Venezia. Un’apertura significativa non solo perché in epoca pandemica si sono create le condizioni per far ripartire i primi eventi internazionali in presenza, ma perché offre l’occasione per uscire dalla condizione di resistenza passiva agli eventi e proiettarsi nel futuro, sentendosi partecipi del cambiamento in atto.

“How will we live together?”, la domanda con cui il curatore Hashim Sarkis, in maniera quasi profetica, presenta la Mostra, assume un valore quanto mai urgente. Prima della pandemia l’architetto libanese, con questo quesito, portava l’attenzione su quanto i fenomeni di intenso cambiamento che il mondo sta vivendo ci spingano a ritrovare un equilibrio nel vivere insieme e nel rispetto del pianeta. Alla luce di quanto accaduto nell’ultimo anno e mezzo, la domanda acquista nuovi significati e pertanto si è resa necessaria una rimodulazione dei diversi contributi in riferimento alle riflessioni alimentate dalla pausa forzata. I toni della mostra, spesso distopici, risentono di tutta la drammaticità della situazione, talvolta mettono in scena le derive peggiori di questi cambiamenti, come nel caso del Padiglione Italia curato dall’architetto Alessandro Melis.

“How will we live together?” è una domanda rivolta agli architetti in quanto interpreti del modo in cui le persone vivono insieme. Ma soprattutto in quanto capaci di dare una risposta di sintesi rispetto a discipline diverse, poiché sono – secondo Sarkis – “intrinsecamente catalizzatori”. Una risposta che riesca a superare le convenzioni sociali e che proponga visioni e progetti alternativi a quelli offerti sinora dalla politica in gran parte del mondo. 

La Mostra Internazionale, attraverso la domanda-titolo che la introduce, sviscera dei temi necessari. Gli invitati esplorano questi temi attraverso contributi molteplici, articolati in cinque diverse sezioni corrispondenti ad altrettante scale di progetto.

Among Diverse Beings riguarda la scala umana, le relazioni con il proprio corpo, con gli altri corpi e con lo spazio circostante. Questa sezione indaga la sfera conflittuale di tali relazioni. Ad esempio, l’installazione che apre la mostra all’Arsenale dell’artista nigeriana Puju Alatise, disponendo nello spazio sculture di uomini, donne e bambini fuori da porte che rappresentano le barriere umane, restituisce la sensazione di sentirsi un estraneo rispetto alle convenzioni sociali e mette in luce tutta la vulnerabilità dell’esistenza umana.

As New Households parte da una riflessione sul nucleo familiare e ne indaga le declinazioni contemporanee che si riflettono inevitabilmente sull’abitare e sulla necessità di proporre nuovi modelli insediativi, dalle abitazioni per persone singole a quelle per famiglie multigenerazionali o per categorie vulnerabili, lavorando su una varietà di gradienti tra spazio individuale e spazio sociale.

As Emerging Communities propone nuove forme di vita collettiva, da soluzioni di coabitazione in ambienti estremi come la superficie lunare (“Life Beyond Earth” di Skidmore, Owinngs & Meller), a forme di abitazione e costruzione più sostenibili, che si fanno rappresentazione fisica di un ecosistema naturale, come nella proposta “Ego to Eco” (studio EFFEKT), in cui una foresta vivente in miniatura, alimentata da un sistema idroponico, è formata da 1200 piantine che dopo la Biennale verranno trapiantate in Danimarca attraverso un progetto collettivo di rimboschimento urbano.

Across Borders include proposte che travalicano i confini. Non solo i confini geografici e politici che producono disuguaglianze sociali, ma anche quelli funzionali, legati allo spazio e alle città che abitiamo. È in mostra, qui, un’architettura che indaga e lavora con gli spazi di transizione, tra foresta, fiume e città nell’Amazzonia urbana (“Somatic Collaborative” di Anthony Acciavatti, Felipe Correa, Devin Dobrowolski), tra città ed entroterra, tra habitat umani e non umani. Lavora con gli spazi del margine, consentendo di invertire la prospettiva e metterne in luce il valore di spazio comune del pianeta, come nel caso dell’Antartide, il “settimo continente”, riserva del 70% di acqua dolce disponibile sul nostro pianeta (“Antartic Resolution” di Unless – Giulia Foscari).

As One Planet esplora soluzioni alla scala planetaria per contrastare l’emergenza climatica e l’asfissia da globalizzazione, considerando il pianeta e le sue specie come un unico ambiente. Emblematico, il contributo collettivo curato dallo Studio Other Spaces con i sei co-designer Caroline Jones, Hadeel Ibrahim, Kumi Naidoo, Mariana Mazzucato, Mary Robinson, e Paola Antonelli: un appello a tutti i partecipanti alla XVII Biennale per una “Future Asembly”, basata sulla coesistenza di esseri umani, animali, piante ecc., per immaginare futuri possibili per il pianeta, ripercorrendo le tappe delle Nazioni Unite, “paradigma per un’assemblea multilaterale del ventesimo secolo”.

La pluralità dei contributi conferma la complessità della domanda posta dal curatore e allo stesso tempo compone un nuovo paradigma per vivere generosamente insieme. La Mostra comprende opere di 112 partecipanti e diversi gruppi di ricerca che, per provenienza geografica, fanno della XVII edizione quella maggiormente diversificata nella storia della Biennale.

Sul numero 281 della rivista Segno, sei pagine dedicate all’esposizione veneziana.