“Identificazione: incerta. Architetto: riduttivo. Artista: riduttivo. Designer: riduttivo. Pioneer: maybe. Anyway: Nanda Vigo”: così amava definirsi l’artista milanese. Personalità trasversale e dirompente dell’avanguardia artistica italiana, la Vigo operò con coraggio e costanza sulla scia di continue innovazioni e sperimentazioni, apprezzate da molti artisti, fra i quali Giò Ponti e Lucio Fontana, con i quali collaborò in varie occasioni. Amò per l’intera vita Piero Manzoni, con il quale ebbe un rapporto controverso e talvolta inibitorio per la sua carriera professionale; tuttavia, non si allontanò mai dal desiderio di lavorare nel panorama artistico, superando certe barriere precostituite e assecondando costantemente la libera integrazione fra arte, design, architettura, ambiente.
La mostra, infatti, non vuol essere un promemoria cronologico del lavoro professionale dell’artista, ma una vera esperienza sensoriale: molte delle sue opere necessitano di essere esperite e attraversate per essere comprese. Questo è il motivo per il quale una serie di ambienti, interni storici e installazioni, quasi tutti demoliti, sono stati ricostruiti per la mostra, nelle dimensioni originali. Inoltre, attraverso una selezione di oggetti, mobili ed elementi di scenografia, l’esposizione dà prova della radicalità con la quale la Vigo definì il proprio vocabolario artistico: eterogeneo ma fortemente riconoscibile, lontano da certi codici consolidati, per inaugurare un nuovo rapporto con l’arte. Troviamo esposti, così, oggetti di design, tra i quali molte lampade; documenti della rivista «ZERO», che testimoniano l’adesione al gruppo negli anni ‘60; dispositivi a immersione e ricostruzioni a grande scala, come l’Ambiente spaziale: «Utopie», condotto insieme a Lucio Fontana, in occasione della XIII triennale di Milano, spesso formalizzati attraverso l’uso di materiali riflettenti e cromatici, che alterano la percezione e risvegliano i sensi.
Questa specifica sensibilità, rivolta agli effetti di trasparenza e riflessione e causati dalla presenza della luce, si rivelò all’artista fin dalla tenera età: la Vigo era solita raccontare di una splendida giornata di sole a Como – aveva circa sette anni – durante la quale, mentre passeggiava con la famiglia, si trovò innanzi alla Casa Del Fascio di Giuseppe Terragni: “sono rimasta fulminata […]; la luce che entrava all’interno del vetrocemento della facciata si scomponeva in miriadi di piccoli arcobaleni e continuava a mutare, perché basta un minimo di spostamento del sole, della luce, e cambia completamento tutto”. Fernanda – questo il suo nome di battesimo – capì ben presto come tutto questo avesse un effetto sugli uomini e sulle loro percezioni della realtà fisica: qualche anno dopo, infatti, verrà chiamata “Signora della Luce”. Il movimento costante dell’onda elettromagnetica materializza e rende visibile all’occhio umano quel vuoto che invade lo spazio interno, nel quale sono immerse le azioni e relazioni umane; la luce tocca, fisicamente, la nostra quotidianità, divenendo madre del mutamento. Il ricordo folgorante della Casa Del Fascio scandirà il ritmo dell’intero lavoro professionale dell’artista, che sempre rivolgerà l’attenzione su quell’Inner Space, uno dei suoi principali oggetti di lavoro, come il titolo della mostra ci ricorda.
A tal proposito, soffermiamoci su una serie di opere, chiamate Cronotopi, parola che tiene insieme topos – spazio – e chronos – tempo, considerate variabili tutt’altro che assolute. Tali opere sono fra le più celebri espressioni artistiche della Vigo, tanto da essere esposte non solo lungo il percorso espositivo, ma anche nel cortile d’ingresso. Troviamo il concetto di cronotopo nella relatività di Einstein, nella matematica di Minkowsky, nell’analisi letteraria di Bachtin; Nanda Vigo mostrò la sua ricerca cronotopica a partire dal 1959, pubblicandone nel ‘64 un manifesto, intitolato Informazione: obiettivo dei suoi Cronotopi è, innanzitutto, il benessere psico-fisico di chi esperisce l’opera artistica. Si tratta di veri Ambienti, nei quali è possibile entrare, ma anche di frammenti spaziali, labirinti, piccole installazioni grandi come oggetti. In entrambi i casi, ci troviamo all’interno o innanzi a gabbie riflettenti, costituite da pannelli – in specchio, vetrocemento, vetro colorato ecc. – che si sovrappongono, reagendo fra loro e con la luce proveniente da tubi fluorescenti, neon o altri dispositivi luminosi. Queste gabbie, delimitate da cornici metalliche, si lasciano quasi trasformare dalla luce che si riflette e rifrange continuamente, sgretolandosi in infiniti porzioni spaziali. Questo processo altera la percezione che il fruitore ha non solo dello spazio, ma anche del tempo nel quale è immerso, sentendosi trasportato in un campo energetico adimensionale, di riflessione anzitutto interiore. Il percorrere fisicamente certi spazi, cambiando punto di vista, arricchisce ancor di più questo scambio di energia in divenire: anzi, possiamo dire che il Cronotopo si vivifica proprio grazie al movimento delle persone al suo interno. La Vigo, infatti, dichiarava nel 2006: “ho cercato la smaterializzazione dell’oggetto attraverso la creazione di false prospettive, in modo tale che lo spazio attorno allo spettatore si identifichi con l’oggetto stesso”.
La ricerca cronotopica non fa altro che mostrare la volontà di Nanda Vigo di liberarsi da ogni vincolo, di spingersi oltre i confini, per conquistare una propria autonomia di pensiero e azione. E, forse, attraverso il Cronotopo, possiamo esperire quello stesso sentimento, folgorante ed eterno, che la piccola Nanda provò dinnanzi alla Casa del Fascio di Terragni.