Diana Pacelli è un’artista di origini campane che, dopo la laurea in lettere in Italia ed i primi lavori nel settore della comunicazione, avverte di voler sviluppare in modo personale la sua esigenza comunicativa. Tale necessità la porta ad avvicinarsi al mondo dell’arte ed in particolare alla scena artistica berlinese, tra le più aperte e ricettive alle nuove sperimentazioni. Diana si forma come artista a Berlino, dove vive da oltre 10 anni, sviluppando diverse tematiche e dove è presidente e cofondatrice del collettivo Intermission Collective.
La Germania è una delle mete preferite dagli artisti sia per la posizione geografica che per l’interesse mostrato verso le diverse forme d’arte e le agevolazioni economiche che offre agli artisti. Per citarne una, tra le ultime decisioni prese dal governo tedesco per aiutare gli artisti in tempi di pandemia, è stato aumentato il fondo annuale destinato all’acquisto di opere d’arte, che è passato da 500mila euro a 3 milioni per il 2020, con possibilità di acquisto sia da fiere e gallerie che direttamente dagli artisti.
Alice Ioffrida: Da cosa è nata la scelta di lasciare l’Italia?
Diana Pacelli: Dalla frustrazione di vivere in un Paese nel quale il lavoro culturale è ritenuto alla stregua del volontariato, poco più di un’attività che si paga da sé tramite un ipotetico prestigio che conferirebbe.
A.I.: Credi sia possibile per un artista restare in Italia e costruirsi una carriera basata sulla propria produzione e sulla propria ricerca?
D.P.: Mi sembra che, a differenza di quanto non avvenga in Germania, la carriera artistica sia considerata a livello istituzionale un hobby di lusso piuttosto che una professione.
A.I.: A tal proposito, cosa pensi della scena artistica tedesca, quali differenze vedi rispetto a quella italiana?
D.P: Temo che il paragone tra la realtà che vivo a Berlino e quella che ho lasciato in Italia sia davvero infausto. Dopo New York, Berlino è la città con il maggior numero di artisti a livello mondiale. C’è un’enorme quantità di iniziative indipendenti e spazi autonomi dedicati alla sperimentazione. Esistono numerose organizzazioni di categoria che interagiscono con le istituzioni locali e nazionali per creare i presupposti affinché gli artisti possano lavorare. L’arte viene concepita come una professione di pubblica utilità, per cui usufruisce anche di un consistente flusso di finanziamenti pubblici.
A.I.: Dalla tua esperienza emerge una visione molto positiva del settore artistico tedesco, quali credi siano i pro e i contro dello svolgere una professione artistica in Germania?
D.P.: Al momento non vedo dei contro specifici nell’esercitare la professione artistica in Germania. Di pro ce ne sono molti, ma direi che quello principale è che esiste un’enorme varietà di strumenti a supporto degli artisti, non solo a livello economico ma anche sociale. A Berlino, ad esempio, c’è un numero incredibile di edifici dedicati ad atelier e lavorare in un contesto simile consente di arricchire la propria rete di conoscenze e contatti e, in alcuni casi, essere inclusi in un sistema organico che garantisce al contempo auto-protezione e disseminazione.
A.I.: Berlino è una città-stato dalle mille opportunità, è per questo che l’hai scelta?
D.P.: Ero stata a Berlino un paio di volte e me ne sono subito innamorata. Anche se allora la mia decisione è stata relativamente impulsiva. A undici anni di distanza posso confermare che non si è trattato di una fiamma passeggera.
A.I.: Di sicuro vivere in un posto ricco di stimoli ha influenzato la tua ricerca artistica.
D.P.: A Berlino c’è spazio perché tutti possano diventare chi vogliono. Senza Berlino non avrei mai avuto la possibilità di costruire, come è avvenuto, il mio percorso un tassello alla volta.
A.I.: In Italia gli artisti spesso devono piegarsi al mercato, vista la mancanza di fondi pubblici e di interesse per le ricerche artistiche. Tu quanto ti senti influenzata dal mercato?
D.P.: La mia ricerca è completamente svincolata dal mercato, perché sostanzialmente esula dai medium più commerciabili. È soggetta invece alle grandi correnti tematiche che regolano il flusso dei finanziamenti in termini di sperimentazione.
A.I.: Anche la partecipazione ad un bando pubblico può direzionare in un senso o nell’altro una ricerca artistica. Pensi che un artista debba scendere a molti compromessi per potersi esprimere?
D.P.: Per la maggior parte degli artisti il percorso verso una carriera stabile è decisamente impervio, e la Germania non fa eccezione. Però la differenza è che in Germania, grazie anche alla forte presenza di fondi pubblici, non si è obbligati a scegliere forme espressive vendibili e veicolabili da una galleria perché anche forme più sperimentali trovano una loro collocazione nel panorama generale. Anche se questo non significa che la Germania sia immune da mode del momento.
A.I.: A parte la necessità di vivere e lavorare in un posto in cui puoi esprimerti, vorresti tornare in Italia?
D.P.: Sarei felice di vivere tra l’Italia e la Germania, anzi, tra l’Italia e Berlino.
A.I.: Parliamo adesso della tua poetica. Mi hai raccontato che hai intrapreso questa professione per un’esigenza comunicativa. Quali sono stati i tuoi primi lavori artistici?
D.P.: I miei primi lavori sono stati progetti che univano la fotografia alla narrazione, talvolta toccando il linguaggio del reportage. Poi ho cominciato a sperimentare con la materialità della fotografia e ne ho oltrepassato la bidimensionalità, iniziando una ricerca sul supporto che ha rotto qualsiasi legame precostituito con il medium e mi ha portato al mio lavoro attuale: una durational performance.
A.I.: Questo tuo ultimo tuo progetto indaga il tema dell’identità nazionale, sia dalla parte di chi accoglie ed ha accolto che dalla parte di chi arriva e viene accolto.
D.P.: Ho lavorato per molto tempo su aspetti e prospettive diverse sulla tematica dell’identità come costrutto sociale e nel 2019 ho acquisito la mia seconda cittadinanza, quella tedesca. Da quel momento ho cominciato ad interessarmi all’identità nazionale. Qui a Berlino sono io l’immigrata, sono io la persona estranea che deve integrarsi all’interno di un contesto. Mi sono chiesta com’è essere dall’altra parte, ovvero in che relazione di potere sono io rispetto l’immigrato che vive nei campi in Calabria ed ho svolto lì una ricerca. Dopo questa esperienza, l’idea di lavorare in maniera più approfondita sull’identità nazionale italiana ha acquisito una forma più precisa e quindi ho iniziato a lavorare sul mito degli italiani “brava gente”, anche perché svolgo un master alla Bauhaus di Weimar dove vicino si trova il campo di concentramento di Buchenwald. Mi son chiesta: gli italiani che sono arrivati a Buchenwald come ci sono arrivati? Ho scoperto diverse ricerche di sociologi e storici che affermano che sono stati portati dagli italiani stessi. Quindi ho cominciato una ricerca su quali siano state le responsabilità degli italiani nell’ambito della deportazione e sono arrivata a scoprire che un terzo degli ebrei che sono stati deportati nei campi di concentramento in Germania ci sono arrivati perché ci son state delle denunce di delazione da parte degli altri italiani. E la stessa cosa vale per i partigiani. Quindi parte dell’orrore della seconda guerra mondiale è responsabilità diretta degli italiani che tutt’ora non ne hanno idea, viene esternalizzato normalmente solo ai tedeschi.
A.I.: Una volta appurata tale responsabilità, in che modo prosegue la tua ricerca?
D.P.: Quello che a me interessa, in termini di lavoro artistico, è capire come venire a patti con questa responsabilità contraddittoria. Non possiamo semplicemente flagellarci per liberarci di questa colpa, non porterebbe da nessuna parte. E questo lo dico anche dopo 10 anni in Germania in cui vedo il modo in cui i tedeschi hanno affrontato le loro colpe. Mi sono resa conto che i tedeschi vivono ancora nella colpa e questo non è un modo utile di guardare alle proprie responsabilità. Secondo me bisognerebbe tentare un approccio che muove dalla responsabilità che si ha avuto nel passato verso il futuro, cercando di integrare le contraddittorietà dell’essere umano.
A.I.: La tua ultima performance ‘Trenta Denari’ tratta proprio questo tema.
D.P.: La mia performance prende avvio dal campo di concentramento di Buchenwald, dal quale parto per arrivare a piedi al campo di concentramento di Fossoli. Per tutto il percorso porto una maschera dietro la nuca che ritrae il mio volto, a simboleggiare l’identità nazionale italiana e la relativa responsabilità storica che sono state dimenticate nei campi di concentramento tedeschi. La maschera viene tolta all’arrivo nel campo di concentramento di Fossoli e donata alla fondazione che lo gestisce.
A.I.: Quali sono i progetti in cantiere che realizzerai nel futuro prossimo?
D.P.: Il prossimo lavoro in cantiere costituisce quello che io considero il secondo atto della mia personale Mnemomachia, di cui ‘Trenta denari’ è invece il primo atto. Dopo aver guardato al mito del bravo italiano dalla prospettiva della delazione durante la RSI, il prossimo lavoro si concentrerà sulla cosiddetta impresa coloniale italiana e lo farà attraverso lo sguardo di un personaggio femminile.
L’urgenza comunicativa di Diana Pacelli l’ha portata a lasciare il suo lavoro e ad esplorare nuovi territori, lontani dal suo paese natale. A Berlino ha trovato terreno fertile per le sue ricerche ed è riuscita a stabilire la sua presenza come artista, difficilmente avrebbe trovato le stesse possibilità economiche e lo stesso interesse in Italia.