Nel 1912, in un intervento intitolato Die Schulreform, eine Kulturbewegung (II,I 12-16), il giovanissimo Walter Benjamin, con lo pseudonimo di ‘Eckhart’, scriveva: «Ma qualsiasi cosa offra la scuola resta merito e prodotto del passato, anche se talora del più recente. Al futuro non può offrire nient’altro che attenzione e rispetto. Ma la gioventù, al cui servizio è la scuola, le offre il futuro. La scuola riceve una generazione insicura, nella realtà come nella coscienza, forse egoista e ignorante, spontanea e grezza (e sarà lei a formarsi al servizio della scuola), una generazione tuttavia che è al tempo stesso tutta piena delle immagini che porta con sé dalla terra del futuro. La cultura del futuro è quindi in ultima analisi lo scopo della scuola – e per questo deve tacere sul futuro che le viene incontro nei giovani. Deve lasciare che sia la gioventù stessa ad agire, deve contentarsi di offrire libertà e di pretenderla. E così vediamo come ‘esigenza più pressante della pedagogia moderna’ non sia altro che quella di creare spazio per la cultura a venire».
Nessun progetto di risanamento e di bonifica pedagogica può essere efficace, se non vengono contemporaneamente rimosse le condizioni che fino a oggi hanno oggettivamente incoraggiato gli usi dispendiosi delle forze e delle energie dell’innovazione. Il mero intervento di risanamento o di bonifica dell’istruzione è destinato a essere vanificato dalla reiterazione degli stessi usi, dai quali derivavano gli effetti rimossi dell’intervento tecnologico. Allo stesso modo, nessun intervento di riqualificazione del fare pedagogico, di valorizzazione delle sue risorse storiche, culturali, scientifiche, può essere efficace, se non riesce a creare, come suggerisce Benjamin, nuove condizioni, che a loro volta propizino e rendano conveniente forme d’uso (strumenti tecnologici sostenibili e compatibili con lo sviluppo dell’apprendimento) e azioni desiderate. I dati sulla connettività transnazionale ci dicono che il principale motore della modernizzazione delle città statunitensi e nord-europee sono le territorializzazioni digitali. Sono direttamente gli amministratori delle grandi città a guidare il processo di dispiegamento delle opportunità tecnologiche. Del resto, chi segue da tempo il mercato Hi-tech non si stupisce certo di questo dato.
Da sempre l’innovazione, in territori differenti e megalopoli alterne ai piani nazionali e internazionali, è il risultato di un progetto politico che vede la scuola pubblica al centro di un composito fronte mediamorfotico. La logica che porta a questo è strettamente legata alla natura stessa dell’innovazione didattica: oggi, proprio per l’effetto delle tecnologie intelligenti, l’individuo si trova in prima fila nel determinare gran parte delle proprie attività. Siamo nella fase che il Medialismo definisce di «decentramento della potenza di calcolo del soggetto attivo». In questo nuovo quadro, a riclassificarsi è innanzitutto il rapporto fra individuo e socialità, a partire dalla relazione che lega il singolo con le istituzioni pubbliche. Se aumenta l’autonomia dell’individuo, diminuisce il suo bisogno di assistenza, o almeno ne muta il segno, come ci suggerisce Andrea Balzola, nel suo tempestivo istant-book: EDU-ACTION. 70 tesi su come e perché cambiare i modelli educativi nell’era digitale (Meltemi, Milano 2021, con una postfazione di Giovanni Ragone). Il rapporto fra amministratori e amministrati, educatori ed educati, tecnologie e ambiente tecnologizzato non è più segnato dal bisogno di mediazione nelle attività primarie (formazione, assistenza, inclusione), perché gran parte di queste attività sono ormai largamente disseminate proprio dal nuovo contesto sociale ed ecologico che vede l’azione, il progetto e l’individuo futuro “impresario mediale di se stesso”. Subentra, invece, un’altra domanda, quella di partenariato nella competizione globale. Il singolo cittadino, a qualsiasi livello, si pone il problema di disporre di un contesto tecnico, che lo abiliti alla competizione, o almeno che non lo penalizzi. Fondamentalmente, in questo contesto è proprio la dotazione della tecnologia didattica, a partire dalla connettività e dall’emergenza Covid -19, a mettere in moto i nuovi modelli, a scuotere le nuove declaratorie. Secondo Balzola, la possibilità di disporre oggi di una sufficiente dose di connettività è parte essenziale dei diritti di cittadinanza, anche se sicuramente non esaurisce la richiesta di progettualità futura e di integrazione e libera progettazione dei saperi. Sarà questo il motivo per cui, nelle comunità tecnologicamente più avanzate, si dice che se uno non ha una soggettività connettiva, non può candidarsi nemmeno ad amministratore di un condominio!
Per Balzola non basta più il wimax, il sistema di connettività wireless a lunga distanza, quello che è diventato proprio lo strumento attraverso cui gli istituti di istruzione locale disegnano il profilo funzionale della propria città e il collegamento con le altre. Secondo Balzola, attraverso l’emergenza Covid-19, siamo andati oltre lo spirito del web accettabile o inaccettabile. La nuova domanda è: come è meglio usarlo e come è possibile trarne i migliori benefici? Siamo al piano regolatore della medialità, ma anche al piano integrato tra memoria storica e memoria futura. Proprio distribuendo opportunità e saperi umanistici, nei vari quartieri e nelle varie comunità della connettivizzazione globale, si determinano e si scambiano i valori. Autore multimediale e insegnante di Mass Media all’Accademia di Belle Arti di Brera e di Torino, Andrea Balzola è docente per i corsi di formazione per educatori Regione Piemonte e Regione Toscana. Ha pubblicato, tra gli altri, i volumi: Le arti multimediali digitali (con A. M. Monteverdi); L’arte fuori di sé (con Paolo Rosa), La scena tecnologica. Collabora alle riviste universitarie Mediascapes Journal, Connessioni Remote, Hi-Art, Historia Magistra. Il volume, uscito di recente in veste Meltemi, ha alcune cose nuove da dire, anche a dispetto di chi tenderebbe a pensare – ma ingiustamente! – che lo sceneggiatore e lo studioso del teatro e dei nuovi media, ami rievocare le esperienze virtuali del suo passato tecnologico. EDU-ACTION. 70 tesi su come e perché cambiare i modelli educativi nell’era digitale è l’accorata perorazione del debordismo-aforistico (del pedagogista maturato nell’ambito di una didattica socratica, di memoria interna ed esterna all’apparato scolastico), perché i responsabili dell’educazione facciano finalmente tesoro dei preziosi contributi di numerose e rigogliose ricerche prodotte dalle scienze psicologiche, sociologiche, pedagogiche e tecnologico-cognitive. Queste pagine di Balzola sono forse l’ultima esortazione in favore di nuovi metodi attivi, il cui messaggio rischia forse di essere sepolto definitivamente tra le molte pagine della storia pedagogica, a cui si ribellava Benjamin nel ‘12, senza che le persone di scuola, o ancor più i politici che tengono le redini della educazione pubblica, ne abbiano tenuto il debito conto. “Capire e inventare attraverso la tecnologia.” ripete Balzola “Ho concluso la prima stesura di questo volume all’inizio del 2020, poco prima che esplodesse la bomba della pandemia del Coronavirus. Ovviamente un evento simile e le sue ricadute sul sistema educativo non erano prevedibili, ma l’importanza del tema dell’e-learning, blended learning e formazione a distanza (FAD), con l’uso sempre più determinante delle tecnologie digitali nell’applicazione dei modelli didattici, era evidente già da tempo. L’inserimento nelle scuole di diverso ordine e grado dei dispositivi, e di nuove metodologie operative ad essi riferite, è stato un processo molto lento, graduale, disomogeneo e discontinuo, con risultati alterni e incompiuti. L’improvvisa accelerazione, legata alla chiusura obbligata delle scuole e all’emergenza di mantenere “in qualche modo” la continuità didattica, ha provocato una corsa alla sperimentazione delle piattaforme educational disponibili, con un uso ancora più intensivo dei dispositivi portatili (i Mid, Mobile internet device) e dei social media, per tentare di colmare il vuoto, di rimediare all’interruzione drastica di tutte le aggregazioni sociali e relazionali, tessendo i fili (o il wire-less) di una nuova esistenza collettiva, in remoto. L’anno scolastico e accademico ha quindi visto il suo secondo semestre attuarsi e concludersi all’insegna della teledidattica, e quanto accaduto lascia indubbiamente, al di là dei tempi e degli sviluppi dell’emergenza sanitaria globale, un segno indelebile sul sistema educativo, apre ulteriori interrogativi, rivela esigenze di rinnovamento sempre più urgenti e imprescindibili. Non penso che quanto ho scritto, dopo decenni di studi e pratiche formative, sia stato superato o ribaltato dallo tsunami in corso, credo invece che questo trauma debba essere inteso come un’opportunità imperdibile per fare quel salto evolutivo nel sistema educativo da tempo invocato a più voci, ma sempre rallentato, disperso, bloccato dalla routine procedurale, dalla disattenzione politica, dagli scarsi investimenti e dalla palude burocratica. Pur essendo sempre stato un promotore della sperimentazione, soprattutto creativa e comunicativa, dei nuovi linguaggi multimediali digitali, non credo affatto che questa riforma del sistema educativo debba essere pilotata dall’innovazione tecnologica, e meno che mai da scelte tecnocratiche e anti-umaniste, è necessario prima mettere a punto una filosofia e un’arte dell’educazione e integrarle con gli strumenti e i linguaggi dei new media. Il modello va capovolto: la tecnologia dovrebbe dipendere dalla cultura e non il contrario, quindi essere concepita o rielaborata come “tecnicultura”, anziché come “tecnocrazia”, accompagnando un percorso evolutivo delle società umane, senza ingabbiarle in sistemi sempre più sofisticati e coercitivi di consumo, di controllo, di isolamento connesso e di manipolazione artificiale delle coscienze e dei comportamenti. Questa è, infatti, la motivazione con cui ho scritto questo volume, che raccoglie in una sintesi personale, rielaborata mediante l’esperienza diretta sul campo, i contributi di una nuova filosofia dell’educazione, dai precursori di inizio Novecento fino alle teorie pedagogiche ed epistemologiche contemporanee”. Una verità che si sofferma sulla riproduzione, e non passa attraverso l’esperienza educativa umana e la memoria storica, non è che una mezza verità: il vero scopo è di imparare a conquistare da sé la verità. In tempi di velocissime trasformazioni in ogni campo, tanto da essere diffusa la sensazione di essere sempre spiazzati, in ritardo, fuori sintonia, senza potere di conoscenza e controllo di quanto ci accade, questo volume tenta di lasciare nei lettori interrogativi e dubbi, tanti dubbi. Proprio per la natura dei nostri tempi, il problema educativo consiste eminentemente nel trasmettere il senso del problema, la problematicità dell’esistere, attivando e stimolando la libera creatività delle intelligenze nella ricerca delle soluzioni, svegliando le coscienze. La persona aperta, il soggetto sociale, in pace con se stesso e con gli altri, contrariamente alle apparenze e all’opinione corrente, sarà chi avrà imparato a costruirsi da dentro, facendo crescere la propria interiorità, e non solo dall’esterno e nell’esterno, ovvero chi si affiderà alla solidità del proprio centro, nel turbinio continuo dei mutamenti, alcuni veri, i più falsi, fittizi, fatui, usati frequentemente come strumenti di condizionamento e di dominio.
“Un individuo passivo intellettualmente, non può sentirsi libero dentro e fuori la pratica tecnologica”. Queste ed altre frasi sono come grida nella notte che avvolge la nostra scuola, svuotata, contestata, rigettata. Non c’è solo un diritto democratico allo studio, un diritto alla formazione intellettuale, ma un dovere alla formazione della libertà e della tecnicultura, non sempre riconosciuto, né sempre chiaramente compreso e tanto meno realizzato, sia dagli educatori che dai giovani di cui parlava Walter Benjamin, nel lontano 1912. Balzola, adottando una scrittura che è cara all’aforisma del periodo del ‘68, in cui si è maturato il capolavoro di Guy Debord, rivendica tutte le istanze essenziali che sono contenute nel diritto universale allo sviluppo totale della personalità creativa.
La presenza eloquente della tecnicultura, anche in virtù delle critiche e delle re-interpretazioni di ben noti studiosi, non solo nel mondo della tecnopedagogia, ma anche nel mondo delle idee e delle esperienze didattiche, testimonia un vivace azionismo dei concetti verificati e annunciati in questa sorta di operetta morale. Consegnando questo scritto al pubblico delle Accademie e delle Università di Arte e Media, ci viene spontaneo raccomandarlo come il documento di una impavida onestà intellettuale, che richiama quella di un Ivan Illich rinnovato. Come quest’ultimo, Andrea Balzola potrebbe, dunque, apporre sul frontespizio di queste pagine la frase sull’estetica elementare, che partecipa al testo antologico curato da Giovanni Ferrario, ed edito – da poco – dalla Pearson di Milano: Lecteur, c’est ici un livre de bonne foi!
Grazie all’innovazione tecnologica, oggi, qualunque attività di produzione, o di utilizzo di un bene (o di un servizio), può dar luogo ad un apprendimento e, dunque, alla produzione di conoscenza. Forse, seguendo il discorso di Balzola, potremmo spingerci a superare il pantano smithiano che Nella Ricchezza delle Nazioni, evoca il bambino che, impegnato ad aprire e chiudere alternativamente la comunicazione tra la caldaia e il cilindro, inventa un meccanismo che consente alla valvola di aprirsi e chiudersi automaticamente. In effetti, il liberismo di Smith ammette che “una delle scoperte che hanno contribuito a perfezionare le macchine fin dalla loro invenzione, è dovuta ad un bambino che stava cercando di fare meno fatica”. Insomma, invece di appoggiare il fato e le forme non volontarie di produzione di conoscenza, o meglio il semplice confronto tra il learning by doing e il learning by using, è il caso di restituire una tecnicultura razionale, consapevole e progressista.