Claudio Verna, Beautiful Life, exhibition view. Courtesy LABS Contemporary Art

Beautiful Life. Claudio Verna e l’urgenza del colore

Lo spazio bolognese di via Santo Stefano apre le porte alla prima rassegna personale del maestro abruzzese, tra i padri fondatori della Pittura Analitica negli anni Settanta.

“Caro Marco, la parola “antologica” allude inevitabilmente a bilanci o consuntivi e sembra escludere l’idea stessa del movimento”. Con queste parole, il pittore abruzzese Claudio Verna (Guardiagrele, 1937) rispondeva, nel 1994, a Marco Meneguzzo – curatore della personale alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Spoleto, e più tardi, con Volker W. Feierabend, responsabile del catalogo generale dell’artista – per continuare, subito dopo: “preferisco pensare che la mostra che stiamo preparando sia piuttosto l’occasione per una verifica su cui impostare il lavoro di domani”. A quasi trent’anni dalla rassegna sui Grandi Formati, Verna testa ancora una volta la tenuta del suo discorso teorico in occasione della personale bolognese Beautiful Life, allestita all’interno dello spazio di LABS Contemporary Art in via San Lorenzo. Inaugurata il 7 ottobre, e aperta al pubblico fino al prossimo 2 dicembre 2023, la mostra, per la cura di Davide Ferri, non intende delineare un profilo consuntivo della carriera dell’artista, offrendone uno sguardo retrospettivo, bensì svincolare il maestro dai sentieri più accreditati, che ancora oggi, dopo oltre sessant’anni di attività, lo costringono al ruolo di campione della Pittura Analitica, quella corrente dai molteplici battesimi (tra le tante etichette coniate, anche Nuova Pittura o Pittura-Pittura) che negli anni Settanta, sulla scorta della lunga eco di Roland Barthes – il primo, negli anni ’50, a parlare di “grado zero” della scrittura – e di un diffuso clima di “analiticità”, volle tornare a un’inchiesta metalinguistica sulle fondamenta della pittura, per raggirare le voci d’equivoco su una pratica ormai bollata, dai santoni dell’avanguardia, come reazionaria e antiquariale. 

Quella di Ferri appare dunque una fatica doverosa, un’incombenza urgente e tra l’altro già affrontata dal critico in una precedente personale dedicata a Verna (Colori agili, Monitor Gallery, Roma, 2013): “colori agili – scriveva per l’occasione – non è un’antologica, non nasce all’insegna del “Best of”, ma vuole provare a scardinare l’idea di un Verna campione della Pittura analitica e basta, della Pittura-Pittura, di un Verna anni Sessanta/Ottanta/Novanta, di un Verna richiudibile in serie, bloccato nelle periodizzazioni o nelle asperità concettuali dei Settanta”. Anche a Bologna, a dieci anni di distanza, Ferri tenta di smarcare il maestro dalla trappola delle etichette facili, optando per un taglio curatoriale orientato ai lavori più recenti – tele dal 2009 al 2023 – e solo “punteggiato” da due opere databili rispettivamente al 1971 e al 1976. Scartando una scansione rigida, definita per periodi, una logica di pacchetto utile a un’economia mentale – ma deleteria per una corretta comprensione del percorso dell’artista – Ferri racconta gli esiti più prossimi del maestro in nome della simultaneità di piani temporali: “Nella pittura di Verna – commenta – il tempo si confonde da qualche anno a questa parte, e i periodi che hanno scandito il suo percorso hanno la tendenza a collassare l’uno nell’altro, e – inevitabilmente – a richiamarsi e rilanciarsi reciprocamente”. E tutta questa rete di richiami, ritorni e riemersioni è stata abilmente orchestrata dal critico, che ha gestito l’organizzazione e il posizionamento delle opere affidandosi tanto a dinamiche di affinità quanto a dialettiche di contrasto.

Il titolo del progetto, Beautiful Life – che a sua volta deve il nome a una tela del 2017, esposta in mostra – è un invito a riconoscere la bellezza della vita nella mobilità, nella disposizione al cambiamento, nell’amore per quel “pulsare di toni e tocchi sotto la pelle del dipinto” che ha la meglio sulla forza d’inerzia e sulla stanchezza dell’animo: “Quando mi pongo di fronte alla tela – scriveva Verna nel 2010 – ho sempre la sensazione di avventurarmi in un territorio ancora tutto da esplorare”, per continuare, poco dopo, affermando che “la tecnica si fa complice delle pulsioni che mi animano e del pensiero che sorregge la ricerca”. Niente di più distante dalle prescrizioni concettualiste, che ponendo la mano al servizio del pensiero, avevano stabilito, in quegli anni, gerarchie ben precise e strutture d’autorità che ben poco trovavano in comune con l’entusiasmo spontaneo di un pittore, qual è Verna, sempre ben disposto a fidarsi del quadro e a battere i sentieri tracciati in autonomia dalle forme e dai colori. Un concetto, questo, ribadito anche ad Alberto Dambruoso, durante un intervento a I martedì critici: “A un certo punto – spiega Verna – il quadro non riceve più le tue indicazioni, ma comincia a parlarti. A quel punto devi seguire le indicazioni del quadro […] anche se ha preso una strada che non è quella che avevi deciso prima”. 

Aprendo la schiera di quattro opere sulla parete di destra, Beautiful Life palesa nell’immediato le sue volontà teoretiche, offrendosi come un De Pictura che, rinunciando alla parola, rimette piuttosto i suoi argomenti alla fisicità del colore, espressa per varianti cromatiche e mutazioni d’intensità materica. Già Filiberto Menna, animatore, alla metà dei Settanta, della linea analitica dell’arte moderna, scriveva, nel catalogo della personale di Verna alla Galleria Il Milione di Milano: “Claudio Verna crede nella possibilità di parler peinture. Ma il suo parlare si affida alle parole stesse della pittura, sicché egli discorre della pittura facendo la pittura”. Tornando all’opera, un acrilico di recente fattura, la si può descrivere come un monocromo impuro, che vela un primo livello giocato sui toni del giallo arancio; tuttavia, il diaframma di protezione palesa una certa vulnerabilità, rivelando i punti deboli e preparando il terreno all’emersione di aree sotterranee e circoscritte di pittura. Mantenendo in vista anche la squadratura del piano di superficie, Beautiful Life appare disseminata di piccoli grumi di pasta pittorica, concentrazioni locali dall’aspetto puntiforme che, unite, suggeriscono nuove trame e costellazioni inattese: trasferire il discorso critico su Verna dal piano formale e metalinguistico a quello contenutistico, si potrebbe però obiettare, ci condurrebbe alla deriva su crinali scoscesi, a piste inconcluse e forse contraddittorie. Tuttavia, è proprio Verna a fugare un’ipotesi simile, valida se e solo se si intende tenere il punto dell’oltranzismo, chiudendo anche gli spiragli più stretti ai capricci della fantasia. “La pittura – ha chiarito ancora a Dambruoso – ha sempre questa funzione di aprire e chiudere”, e il suo spazio d’abitazione, per citare Nicolas De Stael – autore caro al maestro – è “un muro, ma tutti gli uccelli del mondo possono volarci dentro”. Ad ogni modo, non serve un aggancio narrativo esplicito a schiudere le porte dell’immaginario individuale; per permettere agli uccelli del mondo di librarsi in volo, basta rivolgersi al colore, e agli infiniti mezzi permessi alla sua genetica. 

Anche nel Progetto del 2023, il camminamento perimetrale, di un blu acceso, trascolora in una nebulosa centrale – inquadrata da una sorta di disegno poligonale irregolare, sui toni del rosso-arancio – che schiarisce progressivamente verso il centro, permettendo l’individuazione di ulteriori masse puntiformi. Anche qui la pittura, che nel contrappunto cromatico chiama a confronto alcune soluzioni di Achille Perilli – apre un mondo, e contemporaneamente lo chiude e lo delimita. 

L’infilata di dipinti prosegue poi con A88, opera più remota dell’insieme. Qui Verna struttura la più classica delle grigliemoderniste, disponendo un reticolato geometrico a due toni e sfruttando la prossimità cromatica di un giallo intenso e di un arancio altrettanto deciso. La squadratura del foglio, tuttavia, la rete di salvaguardia che impedisce l’accesso a un altrove, presenta però dei punti di permeabilità, degli interstizi in cui la trama fitta e precisa dei riquadri si interrompe, momenti in cui i segmenti lineari si spezzano invitando l’occhio e alla mente alla disobbedienza. È l’ammutinamento del pittore, l’allergia alla manutenzione ordinaria a cui certa filosofia aveva costretto l’autore. Ribaltando le gerarchie di nuova fondazione – all’autore, sepolto tra le pagine di filosofi come Roland Barthes e Michel Foucault, era subentrato, in posizione di comando, il lettore (o l’osservatore) – ed anzi sconfessando l’impianto dialettico che definisce, quasi hegelianamente, un servo e un padrone, Verna riesce, al contempo, a intensificare lo sguardo del ricevente senza però rinunciare alla sua quota di arbitrio. Quello di Verna, dunque, non è uno scambio a somma zero, i legami che crea non rispondono alla logica osmotica del travaso, ma prevedono, di contro, un aumento generale dell’energia coinvolta: a sua volta, un maggior investimento energetico da parte di un occhio più partecipe e responsabilizzato non implica necessariamente il declassamento dell’artista a basso funzionario, costretto a malapena a “tenere la contabilità” dell’eredità modernista. Questi, perciò, non ama sottrarsi alla marachella, non perde il vizio del dispetto e dell’irruzione oltre il limite. A tal proposito, è ancora un testo degli anni Settanta a venirci in soccorso. Riferendosi alla prima delle sue Archipitture, eseguite a partire dal 1975, Verna scrive: “Finito il quadro, al primo sguardo l’effetto è quello di una grata simmetrica di bande colorate e di 25 quadrati. Immediatamente dopo, si percepisce la diversa colorazione e larghezza delle bande, mentre il fondo acquista la sua posizione centrale, ponendosi come filtro e termine di profondità rispetto alle bande”. Subito dopo, prosegue affermando che “A questo punto, l’occhio si è fatto più attento, più critico, e mentre va alla ricerca della logica che ha informato il quadro per «impossessarsene», scopre che l’apparente simmetria dell’immagine è falsata dalla diversa larghezza e posizione delle bande, che hanno trasformato i 25 quadrati in 25 rettangoli tutti diversi tra loro”. Dalle dichiarazioni in presa diretta dell’artista, quindi, appare chiaro come il suo intento sia quello di addestrare al dettaglio un occhio impigrito, abituandolo allo sguardo di prossimità e al calcolo di precisione che smaschera l’inganno delle forme e mette fine alla pantomima delle identità fittizie.

In Transiti 1 (2013), collocato subito dopo, a sinistra, Verna allenta la presa sulle rette che organizzano la griglia, sciogliendo la tensione e rinunciando così alla compattezza strutturale in favore di un dettato più libero e di un movimento più sciolto, fondato sull’economia di pesi e contrappesi, sulla politica equilibrista del do ut des regolata dalla reciproca compensazione dei vettori di forza. Anche qui, poi, il sistema generale delle linee viene invaso dall’entusiasmo dei colori caldi cari al pittore, e anche qui, come nel Sembiante della parete opposta, la dominante cromatica è interrotta per contrasto da affioramenti localizzati e distribuiti in maniera omogenea.

La logica del contrasto, poi, presiede tanto la disposizione del Sembiante (2012) e dell’Andante appassionato (2012) – che manifestano soluzioni analoghe, fatta eccezione per la dominante tonale – quanto l’impaginazione dell’ultimo dipinto, Pittura, del ’76. Sia qui che nell’Andante, e ancora in Bone Black, del 2009 – quest’ultimo collocato sul lato corto della galleria – fa la sua comparsa la figura della banda obliqua. Nel primo caso le bande, che sono due, “squarciano, e interrompono dal margine inferiore della superficie del dipinto […] l’uniformità del bianco”, realizzando il loro scopo – scrive Ferri – per mezzo di “affermazioni complementari: una assertiva e in positivo, determinata da una campitura blu e uniforme, e una in negativo, come pulsazione di colori che sembrano emergere da dentro o da sotto il bianco”. Altrove (Andante appassionato), la breccia parte da nord, e la linea diagonale, penetrando sulla superficie del quadro, scioglie la continuità della trama assorbendo, seppur in parte, le macchie di colore che la circondano. Verna, dunque, lascia che il suo colore contamini la purezza di una forma, la diagonale, che a suo modo agisce da “parte per il tutto”, assommando alla ricerca del rigore, all’esattezza del progetto, l’abbandono misurato alla passione. In Bone Black, infine, la banda obliqua è sfruttata come elemento separatore, che divide la grande massa nera dalla porzione restante, sui gradi dell’avorio. Così facendo, Verna riconfigura la natura del rapporto tra le parti, smorzando i toni del contenzioso: la banda, infatti, entrando in scena per fermare un incontro difficile, e suggerendo un “cessate il fuoco”, finisce per imbastire un secondo dialogo; qui, la distanza tra le parti in causa – la banda stessa e il corpo nero sulla sinistra – risulta ulteriormente accentuata rispetto allo scontro iniziale.

Dalla proposta cromatica di Bone Black, una gamma a saturazione ridotta che non rinuncia a fulminee illuminazioni – l’ingresso della banda è protetto, su entrambi i lati, da timidi vapori rosati – Verna si muove, con la coppia di piccole tele in prossimità dell’accesso (Fuoco di mezzogiorno mietitura, del 2019), verso cataloghi più ricchi e tinte più ferme: in entrambi i casi, un fondo color malva fa da base a un tratto spensierato, condotto per mezzo dell’olio e dell’acrilico e ancora una volta sviluppato nei gradienti del giallo, del rosso e dell’arancio. In queste prove, Verna medita sul ductus nervoso dell’amato Van Gogh – i cui celebri girasoli offrirono, nella gioventù del pittore, la prima occasione d’avvicinamento alla pittura – e prosegue una ricerca condotta, già dalla metà dello scorso decennio, per mezzo del pastello su carta. 

Caldo, infine, è anche il profilo cromatico della Cascata (2009), quadro che apre e/o chiude la mostra. Qui, il titolo, che – spiega Verna – “fa parte del quadro” in qualità di elemento d’ausilio (“deve aiutarlo, non spiegarlo”) è intuibile a partire dalle fasce laterali che chiudendo la zona centrale imprimono un moto e individuano un vettore di forza con verso e direzione specifici. Cascata, inoltre, è anche un lavoro che parla di luce, e non lo fa per interposta persona, bensì’ mediante il suo analogo che è il colore: “La luce – spiega Verna – non illumina le cose, le fonda”, ed è proprio in una constatazione del genere che giace l’essenzialità della pittura di Verna, in essa dimora la sua urgenza. 

Per misurarsi con un dipinto di Claudio Verna, infatti, occorre fare un passo indietro, restituendo agli scaffali di una libreria nevrotica molti dei compendi che parlano d’altro, e al contempo avanzare in direzione del quadro e di tutto ciò che lo informa. In un momento in cui la critica ama spesso arrischiarsi nelle acque alte dell’ibridazione disciplinare, affaticandosi, con scoraggiante dilettantismo, tra sociologia dozzinale, rudimenti di antropologia e impegno politico diffuso a concentrazione omeopatica – e dunque inservibile – la vicenda artistica di Verna, così come quella di altri, può contribuire – condizione prima, una restrizione del campo d’indagine – a dare una base metodologica solida a un esercizio troppo spesso sedotto da un profilo troppo vago di cultura, un territorio mobile, in perenne espansione, che però appare dominio assai vasto e ingovernabile.

Claudio Verna, Beautiful Life, exhibition view. Courtesy LABS Contemporary Art

Claudio Verna. Beautiful Life
a cura di Davide Ferri
07.10 – 02.12.2023
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