Il Kunst Meran, sotto la guida di Martina Oberprantacher e con la curatela di Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi, prosegue nel percorso triennale The Invention of Europe – di cui vi avevamo detto qui – e questa primavera – e sino al 9 giugno – ad esser protagonista di una mappatura sempre più necessaria è l’artista Belinda Kazeem-Kamiński con la sua prima personale in Italia, Aerolectics il cui opening è stato parte di una rete più ampia di riflessione, legata al convegno internazionale Riparare e restituire. Sulle funzioni redistributive delle istituzioni museali e che ha ridistribuito il concept stesso della progetto in mostra, secondo i prodromi di una emersione di fatti storici, concetti antropologici, culturali, politici, filosofici e letterari che, mai come oggi, ad ogni latitudine, necessitano di un ripensamento, al fine di scardinare quella visione di centrismo nord occidentale che, lo comprendiamo sempre più, è diventata un pericolo per il presente ed il futuro della società. Una prospettiva che, come la Storia dell’Antropologia e gli Studi Sociali del ‘900 insegnano hanno perimetrato anche la narrazione museale entro griglie parziali, che ha estromesso una trama più dinamica ed interculturale che, invero, è anche quella più naturale se è vero che la Storia delle Arti è coincidente con la Storia dell’Umanità. Le molte tracce intellettive affiorate si ritrovano in riflesso nell’opera di Belinda Kazeem-Kamiński e nella visione programmatica dei curatori. Per Segno abbiamo chiesto loro di rispondere a qualche domanda per voi lettori.

Courtesy the artist, Foto Ivo Corrà
Il progetto Aerolectics si inserisce nel programma triennale ‘The Invention of Europe’, che mette in discussione la narrazione monolitica del continente attraverso una prospettiva tricontinentale. Nel concepire questa mostra, come avete lavorato affinché la pratica di Belinda Kazeem-Kamiński non solo dialogasse con la specificità storica e culturale di Merano, ma anche amplificasse il dibattito sull’idea di colonialismo latente nelle istituzioni culturali europee? In che modo, poi, la conferenza ‘Riparare e Restituire. Sulle funzioni redistributive delle istituzioni museali’ si interseca con questa riflessione, e quali ripercussioni vi augurate possa avere sul ruolo dei musei nel contesto della ‘giustizia redistributiva’?
Lucrezia Cippitelli: Abbiamo invitato Belinda perché ci tenevamo a lavorare con una artista che fosse connessa con la macro regione germanofona che si spande al nord ed al sud delle Alpi. Inoltre conoscevamo la sua pratica di ricerca rigorosa che coinvolge una visione etica della produzione artistica ed una consuetudine a lavorare con gli archivi. Sin dai primi incontri, Belinda aveva mostrato l’interesse a ragionare sulla Chiesa Cattolica – a partire dalle sue fenomenologie istituzionali, politiche ed iconografiche presenti sul territorio austriaco – e sulla sua relazione con il colonialismo europeo. Durante il suo primo viaggio di ricerca, in cui ha iniziato a costruire una relazione con il territorio sudtirolese visitando Merano, la Kunst Haus e la regione, Belinda ha seguito la sua prima intuizione sulla scia di un volume sulla storia della relazione tra evangelizzazione, colonialismo europeo in Africa e presenza africana in Europa. Durante la ricerca, aveva individuato in una sede dell’Archivio di Stato di Brunico i documenti riguardanti le tre bambine che protagoniste della sua mostra. Da quel momento, il suo lavoro è stato orientato a trasformare questa scoperta iniziale in un percorso site-specific per la Kunst Haus. Aerolectics è una esperienza visiva e fisica della relazione tra colonialismo, chiesa cattolica, evangelizzazione ed esperienza dei corpi neri in Europa. E’ stato un percorso intenso nella gestazione, che ha dato luogo a un’esperienza che per Belinda è di riparazione – le bambine diventano soggetti e non più oggetti interiorizzati e brutalizzati; la loro presenza è una affermazione della loro identità ma anche della loro rabbia e invocazione di vendetta. In questo senso abbiamo pensato alla riparazione: a Kunst Haus è diventata lo spazio che amplifica voci mai ascoltati, che rende visibili immagini che mancano – le tre bambine sono state oggetto di narrazione e speculazione, ma non esistono, negli archivi, delle loro immagini. L’idea di ripensare istituzioni e musei come possibili spazi che evolvano in termini non di tecnica museografica, ma in termini etici (spazi che facilitino, diano voce e supportino la diffusione di voci ed immagini che la storia non ha fatto emergere) è stata quindi molto immediata, quasi naturale, da connettere con l’idea di fare una conferenza internazionale in cui diverse voci, da diversi continenti, affrontassero questo tema a partire dalle loro esperienze. Si è trattato di un convegno molto intenso e molto sentito, dove abbiamo tenuto a costruire non solo un background teorico su cui impostare il nostro lavoro con Kust Meran, ma anche e forse soprattutto, costituirci come un’alleanza, un gruppo che lavora guidato dalle stesse domande, da necessità forse diverse poiché siamo tutte e tutti persone formate da provenienze ed esperienze esistenziali diverse, ma sicuramente da intenti etici e politici affini. Per redistribuzione non ragioniamo in termini puramente materiali (restituzioni, riparazioni economiche,messa a punto di dispositivi giuridici che le permettano). ragioniamo in termini di parola, di presenza e visibilità, della necessità, da parte di noi bianchi, di farci alleati e sostenitori di voci e storie altre. Non è una questione professionale, è una presa di coscienza più profonda. Etica appunto.

Courtesy the artist, Foto Ivo Corrà
Il lavoro di Belinda Kazeem-Kamiński sembra porsi come un dispositivo estetico e politico di disobbedienza epistemologica, in grado di riscrivere le narrazioni dominanti e restituire qualcosa di necessario a soggettività negate dalla storiografia occidentale. Come si traduce questa strategia nell’ecosistema istituzionale di Kunst Meran? Pensando all’eredità coloniale in Alto Adige e alle stratificazioni di senso presenti nel contesto meranese, che tipo di effetto auspicavate che la mostra sortisse nel tessuto sociale e culturale della città, e quale impatto state già osservando?
Simone Frangi: Kunst Meran ci ha selezionati sulla base di un progetto molto preciso, sia dal punto di vista macro concettuale che organizzativo, che prevede tre anni di ricerca, progettazione curatoriale e produzione artistica – per gli spazi della “casa” – che ruotassero intorno all’Invenzione dell’Europa. Ora che Mudimbe è deceduto da qualche settimana e che abbiamo visto quante voci, nella nostra bolla, lo hanno indicato come un pensatore fondamentale nel fondare un immaginario non eurocentrico, ci siamo rese conto di aver dato voce a una intuizione corretta: far risuonare il suo sguardo sovvertendo la prospettiva ed immaginando di rinegoziare dal profondo l’identità europea a partire dalle esperienze degli artisti dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe è quanto richiede questo periodo storico veloce e pericoloso. Kunst Meran ha accolto la proposta ed immaginiamo abbia compreso la necessità di lavorare in questo senso. Il contesto altoatesino è un filtro interessante da cui produrre senso in questa direzione: qui le narrazioni essenzialiste sull’identità, i nazionalismi, la violenza della colonizzazione (che tocca i corpi ma anche le lingue) è immediatamente percepita. E questo percorso risuona con ferite antiche e con emergenze politiche anche molto recenti (dalla crescita di una fazione conservatrice e razzista al consolidamento di una comunità di lavoratori non bianchi e non europei che sono diventati a tutto dritto cittadini meranesi o altoatesini). La mostra di Belinda risuona con tutto ciò, e con la storia della Chiesa Cattolica e degli immaginari e della cultura materiale che sono comuni nella regione. Sappiamo dai commenti lasciati dai visitatori che visitano Aerolectics è stato commovente, shockante, disturbante, in alcuni casi ha trovato anche critiche da parte di chi non vuole entrare a priori nella contestazione della religione cristiana. Sappiamo che stiamo facendo un percorso faticoso e vorremmo che lentamente questo amplifichi il ruolo della Kunsthaus non solo in termini di produzione artistica, ma anche di circolazione di idee e – questa è sarebbe il nostro desiderio ultimo – anche in termini delle comunità che la frequentano.

Courtesy the artist, Foto Ivo Corrà
‘Le tempeste non possono essere domate’, scrivi nel tuo lavoro, evocando Asue* e la sua resistenza a un sistema che voleva renderla docile, assimilata, civilizzata. In Aerolectics, il tuo approccio multidisciplinare si fa strumento di una archeologia della memoria che non si limita a disseppellire storie sepolte, ma le traduce in un’esperienza sensoriale che sfida lo sguardo dominante. Come hai strutturato la tua ricerca per questa mostra e come hai negoziato il rapporto tra documentazione storica e immaginazione radicale? Quale tipo di risposta hai percepito dalle istituzioni e dal pubblico e da chi ha interagito con il tuo lavoro, soprattutto considerando la sua forte componente politica e decoloniale?
ENG: “Storms cannot be tamed”, you write in your work, evoking Asue* and her resistance to a system that wanted to make her docile, assimilated, civilised. In Aerolectics, your multidisciplinary approach becomes the instrument of an archaeology of memory that does not merely unearth buried stories, but translates them into a sensory experience that challenges the dominant gaze. How did you structure your research for this exhibition and how did you negotiate the relationship between historical documentation and radical imagination? What kind of response did you perceive from institutions and audiences and from those who interacted with your work, especially considering its strong political and decolonial component?
Belinda Kazeem-Kamiński: Quando mi sono imbattuta nella storia di Asue*, Schiama* e Gambra*, tre ragazze africane portate in un convento di Orsoline a Brunico da un prete italiano negli anni Cinquanta del XIX secolo, non ho avuto dubbi: dovevo seguire questa pista. L’incredulità e la sorpresa che ho incontrato quando ho iniziato a condividere le mie prime idee hanno rivelato qualcosa di essenziale. Le storie delle oltre 800 bambine africane portate in Europa da Olivieri erano rimaste in questo territorio. Sono letteralmente incorporate nel paesaggio. Attraverso i video, le sculture, i suoni e i testi presenti in mostra, le mie opere diventano portatrici di un’atmosfera. Non ricostruiscono una narrazione fissa, ma creano uno spazio carico – una sorta di sistema meteorologico ancestrale – in cui la storia di Asue* e delle altre ragazze accede finalmente alla visibilità. Questa visibilità è importante. Non risolve la violenza dell’archivio, ma vi risponde. Volevo portare queste ragazze in un altro campo visivo, plasmato dal lutto e dall’immaginazione, dalla presenza e dalla cura. Quando ho letto le tracce d’archivio di Asue*, Schiama* e Gambra*, è stata la descrizione di Asue* a colpirmi maggiormente. Non era vista come una bambina in difficoltà, ma come un disturbo. Quel linguaggio mette a nudo la violenza morale dell’istituzione e la sua incapacità di riconoscere il suo dolore, la sua rabbia e il suo spirito. Da quel momento ho iniziato a immaginarla letteralmente come una tempesta, come una forza capace di sconvolgere il presente. Questa tempesta – emotiva, storica, meteorologica – è diventata un modo per lavorare attraverso gli strati di sedimenti che si sono sovrapposti alla sua storia. I paesaggi sonori, le invocazioni, la coreografia delle installazioni: tutto serve a evocare la presenza tempestosa di Asue* e a invitare gli spettatori a sedersi con lei. In termini di narrazione, all’interno della mostra, mi sono affidata alla frammentazione, all’eco e alla circolarità. Non stavo cercando di ricostruire la storia di Asue*, ma di rispondere ai suoi riverberi, iniziando con una sorta di “schiarimento della gola”, come scrive Tina Campt in Listening to Images (2017). Si tratta di una metafora e di un metodo. È un modo per riconoscere il peso di parlare in un silenzio modellato dalla cancellazione. La sensazione che volevo sottolineare è quella di un’immobilità carica, una tensione che si accumula, trema, ma non si risolve. In questo spazio tra schermi, corpi e storie, spero che gli spettatori possano percepire non solo la perdita, ma anche la persistenza della presenza. Un rifiuto di scomparire. Seguendo pensatori come Kamau Brathwaite e Édouard Glissant, ho abbracciato la non linearità e i ritmi ciclici, permettendo alle storie di sovrapporsi e risuonare piuttosto che risolversi. Il pubblico è invitato a entrare in questo movimento: invece di procedere attraverso una narrazione chiusa, incontra echi, ritorni e rotture. Non posso parlare per i visitatori, ma volevo che avessero la sensazione di muoversi quasi all’interno della poesia che li accoglie all’ingresso e che evochi nella tua domanda; il significato emerge lentamente, in frammenti, sensazioni e riverberi che si accumulano muovendosi nello spazio e nel tempo.

Le parole dei curatori Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi, unite al pensiero dell’artista Belinda Kazeem-Kamiński provano a interfacciarsi con una visione, la nostra, ormai stratificata e occlusa, spesso obnubilata da un pensiero ormai non più accettabile e che necessita di appellarsi anche all’Arte ed alla sua capacità di leggere le tracce di questo nostro tempo, secondo percorsi altrimenti invalicabili. Ciò che l’artista ha compiuto ed è ravvisabile in ogni angolo del Kunst Meran e nella sezione dedicata alla documentazione appare realmente come una nuova geografia, la mappa necessaria da consultare ed indagare perché il ruolo che il sistema missionario ha avuto in Alto Adige permette ad ognuno di noi di scovare tracce e fili dei nostri luoghi di appartenenza, squarciando il velo di una storiografia che ha taciuto, non ha veduto in uno spazio che oggi tentiamo di ridefinire, a fatica, europeo e multiculturale.

Courtesy the artist, Foto Ivo Corrà
Aerolectics – Belinda Kazeem-Kamiński
a cura di Lucrezia Cippitelli & Simone Frangi
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