Tu e Luigi fate parte da tempo del collettivo Bai e avete spesso lavorato insieme; Angelo, per suo conto, ha lavorato con artisti del gruppo di Scicli. Come è nato questo vostro sodalizio? Cosa vi ha spinto a realizzare questa mostra?
Io e Luigi siamo legati da un forte grande rapporto di amicizia e di stima reciproca, che risale sin agli anni Sessanta, quando frequentavamo la Scuola d’Arte di Comiso, e successivamente quando insieme ad altri otto amici abbiamo costituito il collettivo BAI, artisti con interessi diversi che a tutt’oggi si muovono nell’ambito della pittura e della scultura. Il rapporto di amicizia e di stima reciproca con Angelo, che ho avuto modo di conoscere insieme a Luigi, nasce attraverso momenti diversi del suo percorso artistico, ed in particolare in occasione della sua partecipazione alla mostra “Luce da Luce”, organizzata a San Cataldo.
Un punto di incontro potrebbe essere una certa tendenza all’astrazione, o quantomeno alla dissoluzione della figura.
I nostri lavori, pur diversi, si propongono spazialmente riuniti, in una armonia sorprendente, in un viaggio apparentemente informale, ma in realtà ricco di forme, di figure, di colori e materia che propone passioni e tensioni, in una libertà espressiva che esalta la creatività individuale.
Sia come sia, la mostra fotografa un momento preciso del vostro percorso. Attraverso quali tappe siete giunti a questo crocevia?
Cominciai negli anni ‘50. All’epoca frequentavo la Scuola d’Arte di Comiso, nella sezione Ceramica, dove ho potuto sperimentare molte tecniche e diversi materiali. Contemporaneamente ho cominciato a preferire la pittura. La pittura mi ha permesso di inventare e sperimentare. Ho fatto le prime esposizioni nel 1962 e i miei quadri erano dei paesaggi con figure. Dopo una pausa di silenzio, negli anni Ottanta ricomincio la mia sperimentazione ponendo l’accento su una tecnica di manipolazione sociale: il manifesto. Uno strumento di persuasione che si insinua nelle nostre giornate, e che nella mia ricerca pittorica viene strumentalizzato a sua volta. Analizzato in ogni sua parte, diviene forma e colore, suggerisce nuovi spazi e viaggi. Il manifesto, così rivisitato, si fa superficie: non supporto all’immagine, ma immagine esso stesso, tesa tra sogno e realtà. Dal 2010, dopo un proficuo ventennio di ricerca e sperimentazione tra Informale e Astrattismo, torno alla figurazione: in questi nuovi lavori, nutriti attingendo al “magazzino dei ricordi”, i legami tra presente e passato si rinsaldano anche grazie ai continui accostamenti con la fotografia, che diventa il supporto ideale nel mio colloquio con la pittura.
Tra i tratti stilistici su cui sarebbe possibile concentrare l’attenzione, e che richiederebbero comunque un approfondimento individualizzato, uno che particolarmente mi ha colpito è l’uso del colore: Luigi ha iniziato a produrre sculture colorate, e anche i colori tuoi e di Angelo si sono fatti più saturi e brillanti…
Io col colore ci parlo; nei miei dipinti esso risalta e primeggia su tutto. Sono innamorato dei colori: frammenti di vita che hanno l’aspetto della terra, del sangue, del cielo e di tutte le cose; raggi di luce che, a volte, denunciano implacabili le imperfezioni della materia. Nell’uso che ne faccio – come negarlo? – è presente una memoria della mia terra natale.
Fondamentale, come tu stesso accennavi, la contaminazione con la fotografia.
Pur prediligendo la pittura a olio e l’acrilico, ho sperimentato tecniche diverse, utilizzando la fotografia come supporto per dipingere, con assoluta libertà, tra figurativo e astratto. L’utilizzo della fotografia come fonte di ispirazione è strettamente legato alla scelta di una pittura oggettiva, a volte anche fredda, poiché non deriva dall’osservazione della realtà, bensì dall’immagine riprodotta della realtà stessa. La mia pittura però è, nello stesso tempo, espressiva, perché ricca di sfumature e di intense pennellate che contraddicono la meccanicità della riproduzione tecnica.
Chi sono i tuoi maestri, vicini e lontani?
Anzitutto i miei docenti, da Belletti a Brancato, e in primis Gioacchino Distefano. Tra gli altri che di sicuro hanno suscitato in me una suggestione, Burri, Bacon, persino Caravaggio… Quel che conta è non accogliere passivamente un influsso, ma trascenderlo in qualcosa di completamente nuovo.
Hai mai avuto momenti di crisi nella tua ricerca? Come li hai superati?
Nel mio percorso artistico ho avuto momenti di crisi, certo. Quel che è importante, e che va sottolineato, è che il blocco dell’artista, così io lo definisco, si supera: nella maggior parte dei casi – anzi, quasi sempre – è un blocco del tutto momentaneo, che permette poi all’artista di proseguire lungo il proprio percorso, continuando a coltivare la propria arte. Altre volte, invece, il blocco creativo va interpretato come un segnale ben preciso, come l’esigenza di una svolta. Un ottimo modo per superare il blocco creativo, è tornare a fare qualcosa per sé, senza pensare alle mode, ai gusti del pubblico o alle tecniche che vanno per la maggiore.
Qual è il tuo atteggiamento verso la spiritualità?
È la speranza. La fede. Cerco sempre di dipingere con il cuore e l’umiltà del pellegrino.
Pensi che la tua arte possa incidere, in qualche modo, sulla realtà?
Io non penso che l’arte influenzi più di tanto la realtà. E tuttavia le mie opere sono una forma di rivendicazione e un invito al risveglio. Io spero che l’arte incida un giorno sulla realtà; è anzi il mio desiderio più grande.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
A continuare il mio viaggio verso l’ignoto e l’indicibile nei meandri dell’io. Un viaggio in compagnia della pittura. Stiamo invecchiando insieme, io e la pittura. Ci frequentiamo da così tanto tempo che chi dipinge, e chi è dipinto, non saprei dirlo più.


