Introduzione. Questa serie di annotazioni su Caravaggio che seguiranno sono rivolte agli appassionati del paradigma Merisi, ma anche a tutti coloro che amano i libri di letteratura artistica e di critica della storia dell’arte. Per questo la scrittura è deliberatamente culturologica e non richiede un partito della filosofia contro l’arte e viceversa, ma solo una assidua frequentazione con le arti. L’analisi dei “testi pittorici (di Caravaggio o in occasione di Caravaggio 2025) “non è un fine in sé”. È una pratica che deriva da diverse riletture, come quella di Saggio, la quale a sua volta si colloca in un contesto di studi istituzionali. Ma tale contesto è variabile, e con esso, fondamentalmente lo sono anche gli incontri bibliografici dei vari articoli di cui si costituisce. Questo significa che la natura non ci propone immagini e che esse sono necessariamente culturali? Una delle più antiche definizioni dell’immagine, data da Platone, ci illumina: “Chiamo immagini innanzitutto le ombre, poi i riflessi che si vedono nell’acqua, o sulle superfici dei corpi opachi, levigati e brillanti e tutte le rappresentazioni di questo genere”. Immagine di Caravaggio, dunque, dello specchio, è tutto ciò che mette in atto lo spesso processo di rappresentazione; come si vede”. Caravaggio sarebbe già un oggetto “altro” in rapporto ad un’altra camera ottica o ad un’altra lente e suggestione di Galileo Galilei, un’altra che essa rappresenterebbe secondo certe leggi particolari. Si usa il termine “paradigma Caravaggio” o “lente di Galilei” anche per parlare di determinate attività psichiche, come le rappresentazioni mentali, il sogno, il linguaggio per immagini ecc … Il paradigma Caravaggio corrisponde all’impressione che abbiamo, quando per esempio possediamo la descrizione di «un luogo situato del chiaroscuro», quasi come se ci trovassimo in esso. Si elabora una rappresentazione mentale in modo quasi allucinatorio ed essa sembra trarre le proprie caratteristiche della visione. “Si vede!” … “Sì, si vede!”. Il paradigma mentale di Caravaggio si distingue dallo schema mentale, che, invece, raccoglie i tratti visivi necessari e sufficienti a riconoscere un campo ottico, una forma visiva popolare. Si tratta quindi di un modello percettivo di oggetto, di una struttura formale che abbiamo interiorizzato e associato a un oggetto e che pochi tratti minimi bastano a evocare. Per gli psicoanalisti, l’elaborazione di tale schema corporeo ha luogo per il tramite dell’immagine virtuale del proprio corpo che il pittore scorge nello specchio, e che costituisce uno stadio fondamentale della sua elaborazione psichica e della formazione del suo ductus di luce e di ombra.
1. La luminosità è la causa per cui il nostro organo visivo percepisce lo spazio e gli oggetti in esso collocati; in più è di per sé stessa fonte di impressioni estetiche. Essa ha quindi grande parte nelle arti plastiche, le quali si basano su un principio cosmico della rappresentazione e possono valersi, come fa la pittura, della luce come mezzo stilistico ed eloquente. Nella pittura, in particolare, la luce è un fatto intrinseco, da creare anch’essa come un oggetto ed ha applicazioni varie che interessano più profondamente ed intimamente gli stessi principi formali. In genere, si deve notare che quanto più la pittura si attiene ad una concezione astratta delle forme, tanto minore è l’intervento della luce che essa reclama, man mano che la visione si fa più naturalistica l’intervento aumenta fino a divenire il principio formativo della visione. Nel primo caso il valore della luce è ridotto a semplice chiaro in contrapposizione allo scuro, nel secondo caso i valori si moltiplicano ed esprimono, non un modo di contrapposizione semplice fra chiaro e scuro, ma di relazione infinitamente variabile. Il primo compito della luce è quello di modellare la forma, restituendole profondità e volume; essa è il solo mezzo, quindi, per esprimere la tridimensionalità.

La pittura bidimensionale, come quella dei popoli primitivi o delle culture antiche, quali l’egiziana o la micenea, e orientali, ignorano infatti la luce come determinante plastica. Esse rappresentano il mondo come necessariamente piatto, senza “superficie di profondità”, fatto di oggetti giustapposti, privi di relazioni fra di loro. La modellazione della forma nella pittura tridimensionale comporta in sé solo un’eccezione della luce come stato luminoso, che è ancora un modo astratto di intenderla. Il modo diviene concreto e diretto, invece, quando la luce pone la forma modellata nello spazio, quando cioè mette in relazione spaziale una forma con un’altra, attraverso l’attribuzione locale o tonale del colore. La qualificazione spaziale della forma è, dunque, il secondo compito cui assolve la luce in pittura. Si può addirittura affermare che, l’evoluzione storica della pittura è intimamente legata alla molteplice soluzione dei problemi di luce che essa comporta. L’acquisizione della luce nella pittura come valore naturalistico e diretto fu una conquista dell’arte greca nel IV sec. circa. Dal significare la semplice situazione delle forme nello spazio mediante le ombre portate, passò alla creazione della forma attraverso i contrasti improvvisi con l’ombra. Questo processo si produsse anche nell’arte ellenistica, che da una visione lineare passò via via ad una visione pittorica, mentre la concezione naturalistica prendeva il sopravvento, attraverso le rappresentazioni di motivi paesistici. L’erede dell’arte ellenistica, la pittura bizantina, non ignorò la luce, ma la spogliò, secondo il proprio spirito d’astrazione, di ogni contenuto e formulazione naturalistica, riducendola schematicamente a delle lumeggiature e facendola quindi coincidere con il colore. Fu Giotto che nella sua tarda età, negli affreschi di Santa Croce, dopo averla usata come mezzo di modellazione della forma attraverso il chiaroscuro, reintrodusse in pittura, dopo tanti secoli, il più elementare degli effetti naturalistici della luce, le ombre portate dagli effetti illuminati. Con nuova potenza realistica e determinazione stilistica della forma, la luce opera al principio del Quattrocento tanto nella pittura italiana del Masaccio che in quella fiamminga del van Eyck. Essa impregna il colore e fa risaltare la sostanza plastica con distesa evidenza. Giunge poi a farsi equivalente della forma nelle opere di Paolo Uccello e di Piero della Francesca. Leonardo fu quello che per primo si dedicò all’analisi della natura della luce, dei suoi effetti atmosferici e delle sue compenetrazioni con l’ombra e per primo ne realizzò la funzione non più puramente plastica ma spaziale. I suoi insegnamenti li ritroviamo nel Correggio e nello stesso Raffaello. Nuovo significato acquista la luce nella pittura veneta con Giorgione e con Tiziano. Essi realizzano per primi il senso tonale (stilistico, espressivo) della pittura, che è poi il senso moderno, basando l’architettura interiore del quadro sopra una gradazione più intensa dei colori, determinata dalla quantità di luce e di ombra che ognuna di esse riceve in sé, per modo che il pitturato risulta come un insieme di grandi masse avvolte in una diffusa luminosità, che attenua i chiaroscuri e i contorni dei volumi. La luce così concepita indica la forma e regola la funzione delle ombre. D’ora innanzi la luce assume un ruolo superiore nella pittura, si libera dalla prigionia della forma, talvolta si separa anche dalla gradazione e diviene l’elemento organizzativo e spesso quello espressivo. Le pitture del Veronese, del Tintoretto, del greco, del Velasquez, del Rubens più che sommatorie di forme sono mondi spaziali di luce-colore, in cui le forme si indicano come unici accidenti e dalla luce traggono il loro significato.
Tutta la pittura del Seicento fu sollecitata da problemi luministici: a partire dalle anticipazioni del Caravaggio, che non concepisce il mondo e non lo realizza che attraverso un contrasto folgorante di piani di luce e piani di fantasiosi spazi in un continuo trascorrere di luci ed ombre, riducendo le forme a masse flottanti nel liquido luminoso del colore. Caravaggio propone una successione di chiarore e di ombra per variare il rilievo delle forme. Caravaggio introduce un mezzo di riproduzione della terza dimensione in pittura, levigando quello che qualcun’altro chiama “la forma profonda”. Il suo uso è proprio della modernità figurativa che ha il senso della tridimensionalità. La funzione del chiaroscuro varia a seconda del rapporto che intercorre fra i suoi componenti: il chiaro e lo scuro e a seconda dei nessi della luce e dell’ombra con il colore. Quando il chiaro ha il primato agevole con lo scuro si ha il chiaroscuro plastico (Giotto, Michelangelo). Quando primeggia lo scuro con sfumature di ombre che tendono a rammentare l’atmosfera intorno al volume dei corpi, si ha il chiaroscuro pittorico (Leonardo). Quando poi il rapporto fra il chiaro e lo scuro si fonda sul rapporto quantitativo e qualitativo della luce e dell’ombra che i colori assorbono in sé, si ha il chiaroscuro tonale (Giorgione,Tiziano). Se il contrasto tra le parti in luce e parti in ombra è improvviso e violento si ha il chiaroscuro luministico (Caravaggio). Studiando il Barocco, Severo Sarduy ha infatti messo in relazione aspetti della scienza e dell’arte ed è giunto a stabilire che, ad esempio, la forma della scoperta di Keplero dell’orbita ellittica dei pianeti non è diversa da quella che sottostà alle opere poetiche di Gongora, o ai quadri di Caravaggio, o alle architetture di Borromini (vedi: Barocco, Seuil, Paris, 1975).
Nel corso del Cinquecento e del Seicento, nonostante la spinta delle vicende storico-religiose della Riforma protestante e della Controriforma cattolica le quali portarono in Europa un generale mutamento dei costumi, il gusto per il Bello si mosse girando attorno ad una Bellezza carnale. Dei riflessi di questa Bellezza sensuale, da una parte spiritualizzata e dall’altra teatrale, di questo periodo si trovano rispettivamente nelle opere d’arte del Manierismo e del Barocco. Gli artisti manieristi cercarono di emanciparsi dalle regole rinascimentali attraverso la deformazione del Naturale e l’elogio dell’Artificiale. Nello stesso tempo, teorici come Lomazzo e Zuccari, volendo legittimare questa libertà artistica, dettero nuova dignità alla figura dell’Artista, che diventò non solo genio creatore ma anche veggente. Questi artisti-teorici considerarono l’Arte come una via indipendente per raggiungere l’Idea, considerata come la Forma visibile perfetta di ogni cosa. D’altra parte, si fece più intima la ricerca di una diluizione verso i perenni dualismi soggetto-oggetto e genio-norma, che nondimeno rimasero irraggiungibili.
La rivoluzione scientifica e filosofica che avvenne nel Seicento sconvolse anche la relazione tra Arte ed Estetica: il soggetto, la persona non era più metafisicamente al centro di un Cosmo finito e a lui subordinato, e pertanto doveva racchiudere e impadronirsi della propria posizione per mezzo delle sue capacità. L’artista ruppe i canoni tradizionali, utilizzando invenzioni eccentriche e ricercando un nuovo ordine attraverso lo studio scientifico della Natura. I limiti dell’artista diventarono quelli della Fantasia, e la Letteratura Artistica del periodo poté analizzarli con i criteri oggettivi di grazia offerti dal classicismo; i criteri soggettivi del gusto, legati alle nozioni di animo, folgorazione, genialità e intelligenza, organizzate in questo lasso di tempo. Che cos’è un’opera d’arte? Per Caravaggio, riassumendo, l’opera è caratterizzata da qualcosa che si spinge totalmente oltre quello che secondo A. Danto potrebbe essere aboutness ed embodiment. L’aboutness è l’essere a-proposito-di qualcosa, l’embodiment è l’essere più o meno “incarnato” in un oggetto. Un’opera d’arte è, dunque, per Caravaggio, un oggetto a proposito di qualcosa di pre-fotografico, una lente ingrandita sull’ontologia del reale, qualcosa che si presenta nella metamorfosi dell’autoritratto o nel Davide con la testa di Golia (1610 ca., olio su tela, Autoritratto come Golia). Nel suo trattato De pictura (1435), Leon Battista Alberti avallava la tradizione poetica secondo cui la pittura sarebbe stata inventata dal mitico Narciso, innamorato della propria immagine riflessa nell’acqua, perché “che altro è la pittura se non l’arte di abbracciare la superficie d’acqua di una fonte?”. Proprio lo specchio, nella storia dell’arte, è il malizioso e intrigante veicolo del primo apparire dell’autore del dipinto nel dipinto stesso: apparizioni timide, anonime, quasi impercettibili. Primi tentativi di auto affermazione di una figura che con difficoltà, nel ‘400, si stava affrancando dallo status operaio e artigiano per acquisire la dignità di “artista”, quale ancor oggi noi la intendiamo. L’immagine dell’artista in quanto pittore, nel caso di Caravaggio, si afferma con orgoglio, ma contemporaneamente va già verso una mutazione, un’alterazione irreversibile, la constatazione del reale in metamorfosi e in protofotografia: il cinquecentesimo anomalo anticipa la profondità del Barocco e del Rococò.

Alla riflessione sulla pittura e sui suoi virtuosismi tecnici si sovrappone quella sull’uomo e sulla labilità del suo corpo e della sua anima. Infatti, lo specchio ritornerà come oggetto e “funzione”, a sancire l’impossibile verità dello sguardo, la sua inafferrabile molteplicità. Ritornerà, lo specchio, anche nelle Vanitas pre-barocche e trans-naturalistiche di Caravaggio: moniti a non dimenticare la transitorietà delle cose terrene. Il volto dell’autore si riflette qua e là nei dipinti, in un vero specchio o in una brocca d’argento o di cristallo, spesso accanto a un teschio o nell’oggetto di domanda del senso stesso della pittura. Per costruire questa operazione il pittore riscopre un vecchio strumento. Si tratta di uno strumento antico e magico, lo specchio. Naturalmente, in questo ambito, lo specchio viene assunto come strumento utile alla riproduzione esatta e veritiera dell’ontologia pittorica.
A una prima considerazione etimologica specchio e riflessioni presentano alcune indicazioni interessanti che la pittura di Caravaggio ci aiuta a vedere. Già la sua stessa radice è specus, caverna, spelonca, antro, grotta, abisso, voragine, ma anche sotterraneo, scavo e infine cavità, apertura. La pittura di Caravaggio è una cavità artificiale scavata nel riflesso del naturale. A seguire l‟etimologia di specchio avremo ulteriori indicazioni. La radice di ri-flettere è appunto “flettere”, che ha una polisemia piuttosto larga, che comunque la si voglia considerare, ha tuttavia come carattere essenziale il “movimento dei corpi nello spazio e quindi nella luce diurna e notturna‟. «Flettere» significa infatti curvare, piegare, ma anche al passivo, riflettere, volgersi…: o anche arricciare, chiudere, girare attorno, modulare-girare, distogliere-esibire-cambiare, modificare-commuovere, persuadere, addolcire-derivare, formare-dirigersi, volgersi,passare. Tutti questi significati si ritroveranno nella dinamica del volto pittorico di Caravaggio davanti allo specchio della cromaticità e in sostituzione della grafia. Reflectere non significa forse “rinviare indietro”… e «riflettere» meditare, ma qui significa dare pastosità alla pittura. Nel suo andamento storico-temporale (da Aristotele a Hegel), il concetto di riflessione perde più o meno costantemente i caratteri della «chiarezza» del pensiero che riflette in se stesso e assume quelli della torsione e della manipolazione pittorica, si addensa nelle profonde oscurità adattate da Caravaggio.
Sullo specchio invisibile della pittura di Caravaggio si potrebbero scrivere pagine e pagine, senza mai giungere ad una verità, perché lo specchio che transluce in Caravaggio è “pura pittura”, prima di qualsiasi inframince o saccheggio ready-made. Baltrusaitis ha fatto un eccellente lavoro sul tema, per cui mi limiterò a scrivere qualcosa che ha a che fare con l’autoritratto della pittura di Caravaggio. Ci sono però alcuni aspetti assolutamente essenziali che vanno tenuti presenti e che molto spesso sono tenuti in ombra. Lo specchio ci rimanda a un lontanissimo «riflesso», quello di Narciso-Pittura, l’«autoritratto» di Narciso come autoritratto della pittura, che costituisce il termine «a quo» per discorrere della conditio sine qua non della pittura stessa. Con questo discorso, potremmo avvicinarci a dire che il realismo e il naturalismo di Caravaggio anticipa anche una forma di concettualità mediale. Il mito di Narciso, in pittura è una tautologia, è il mito del linguaggio pittorico, uno dei miti meno noti e meno analizzati per cui non è superfluo insistere. Il punto fondamentale, però, resta lo stesso: è permesso a qualsiasi cosa di essere un’opera, basta che ci sia un’adeguata lavorazione pittorica che possa contrastare con la spiegazione o la giustificazione dei manieristi.
Per tutti noi, prima o poi, è arrivato l’incontro con un’opera che ci ha lasciati spiazzati, ma mai quanto è arrivato con la presenza e la vista di un’opera di Caravaggio. E, in questo senso, la nostra esperienza del vedere, della vista in rapporto all’opera di Caravaggio, è sempre, come Husserl ha detto, una Fremderfahrung, l’esperienza di qualcosa di spaesante, di ‘altro’, rispetto alla cosa che ci sembra di sentire e percepire, e che pure non è nulla di nascosto o misterioso, poiché già si annuncia nella stessa immediatezza sensibile, in quanto singolarità e insieme relazione al Tutto, in quanto complessità di tempi irriducibili gli uni agli altri, in quanto attività e passività, che si riflettono nel rapporto tra lógos e páthos, tra ragione e affettività, rapporto che per definizione sfugge alla legislazione del solo lógos.
La relazione fra Raffaello e Castiglione, testimoniata dalla loro corrispondenza, così come le osservazioni di Vasari sulla pittura possono essere assunte quale segno del cambiamento intervenuto nella riflessione dell’opera d’arte caravaggesca e del superamento dell’interpretazione mentalista di A. Danto. Il riferimento alla natura è decisamente abbandonato in nome di una certa idea, che si presenta alla rivalutazione dello spirito e dell’abilità dell’artista. La maniera che si sforza nel Raffaello, come nel Perugino o in Perin del Vago, di simulare la natura, cioè di mettere in forma un artificio che sappia persino soppiantarla, in Caravaggio acquista una linea sottile che si contrappone a metà tra i limiti del naturismo e quelli dell’artificialismo. Cosa vuol dire, allora, essere spinti nell’abisso della superficie di Caravaggio? Il suo compito sommo è quello di porre una relazione tra osservabile e inosservabile in termini di indagine sempre aperta, ovvero: una volta posti i principi di ta physiká, lo specchio e la lente di Galileo indaga la possibilità dei fondamenti della stessa, compito che spetta solo e unicamente a essa. Ecco che tra scienza e metafisica si instaura un necessario legame per comprendere e rispondere alle sfide del suo e del nostro tempo presente. Il compito della visione di Caravaggio si muove, dunque, sul confine, o piuttosto sulla soglia, mai determinabile una volta per sempre, tra osservabile e inosservabile. È ‘oltre’ l’osservabile nella misura in cui ogni confine è sempre anche oltre-passabile ed è, a un tempo, ‘con’ tutto ciò che all’interno di quel confine la visione sembra poter definire. Il suo lógos consiste nel porre questa relazione tra l’adi qua e l’al di là della pittura, ovvero la pittura stessa. In conclusione, vedere con la pittura risulta un sapere concreto perché vive il suo inizio e il suo svolgimento assieme alla cosa stessa e, parimenti, acquisisce il carattere di non-sapere, poiché la cosa stessa è osservabile sullo sfondo della sua inconosciuta origine e del suo non prevedibile sviluppo. La “visione realistica” è questo continuo rimando all’inesauribile di ciò che appare, a quel qualcosa che sfugge caratterizzando l’essente e la sua non disponibile determinazione definitiva.
Mentre la leggiadria per il tardo Rinascimento diviene la qualità di un oggetto alterato e il portare a termine assume la specificità di un artefatto realizzato con ostinazione, in Caravaggio siamo contro la maniera, la cosa mentale e la stessa leggiadria sanno confrontarsi col reale. La leggiadria diviene allora il segno di una forma di vita, in cui l’umanista, per sopravvivere alle vicissitudini della storia, adotta coscientemente la maschera, la dissimulazione, rinnovando così i legami con la tradizione retorica. Il soggetto di Caravaggio non è né elegante, né trattenuto dall’affettazione: il registro in cui si esprime con più pertinenza è la concentrazione realistica, di cui parla Roberto Longhi. Raro contributo critico, nel campo sovente della storiografia artistica, di scrittura narrativa scorrevole, di divulgazione, il Caravaggio di Roberto Longhi, pubblicato per la prima volta nel 1968, è il solo testo di carattere complessivo dedicato a Michelangelo Merisi, anche sul piano filologico, che si scontra con il puro positivismo avanguardistico da cui aveva preso le mosse.
Caravaggio affonda le sue contraddizioni estetiche nella socialità, nel conflitto, nella parsimonia retta dalla tensione costitutiva fra naturale e artificiale, magari dentro al luogo storico in cui la dissimulazione dell’arte, al cuore dell’ideale dell’oratore prima e dell’artista poi, diviene un elemento costitutivo dell’idea di “riconoscimento popolare”: i codici condivisi non sono solo comportamenti ma indicano l’orizzonte del giudizio estetico, che trova nello spazio negoziabile della naturalezza la via intermedia fra ciò che è generalizzabile e ciò che è del tutto privato, individuato, intimo. A proposito: è notevole che tra gli storici dell’arte si usi parlare di “naturalismo” caravaggesco piuttosto che di “realismo”, quasi che i due termini siano del tutto sovrapponibili e che la perfetta descrizione delle forme sia di per sé sufficiente a rendere prova sicura di una determinata realtà; il punto, infatti, non è tanto (o forse solo) che il pittore lombardo fissi i corpi e la luce con un’evidenza quasi fotografica, e neppure che immetta nei dipinti l’elemento “popolare” e “feriale” (come spiegava Roberto Longhi); il punto è – ci ricorda il confronto con Pier Paolo Pasolini – che nei suoi quadri partecipiamo alla “discesa di Cristo tra gli uomini”, al suo calarsi nella più ordinaria quotidianità: “è quanto accade nella Cena in Emmaus, o nella Vocazione di san Matteo, dove Dio si mette a tavola in una taverna, o passa da un magazzino di merci, dove gente dei bassifondi conta un gruzzoletto di scudi”. Una discesa che sconvolge il tempo, se è vero che – in un anacronismo del tutto voluto – accanto all’esattore delle tasse Matteo sono seduti giovinastri vestiti più o meno come “ragazzi di vita”.
2. Il libro Lo specchio di Caravaggio, è lo stupore di un breve viaggio saggistico nella profondità della sostanza aerea di Michelangelo Merisi. Il lettore si troverà coinvolto nell’esperienza essenziale del volo nel duplice destino umano e pittorico dell’altezza e della profondità vissuta da Caravaggio nella sua unità, e sarà accompagnato a coglierne l’origine dinamica quale dimensione fondamentale dell’immaginazione. Attraverso la contemplazione aereo-pittorica del Merisi, A. Saggio ha saputo generare un percorso di riflessioni artistiche piene di vita e di attualità, quali la lente di Galileo, la costellazione estetica del mondo, la porosità e la densità del fatto cromatico, dove il reale si fa gioia dell’icasticità e della schiettezza. Infatti, è molto importante il testo finale del libretto di Saggio su Caravaggio, la tematica dello specchio e la lente di Galileo Galilei: “Il telaio prospettico senza l’occhio umano non vede: traguarda e incornicia, ma non crea immagine; lo specchio sì! Lo specchio specchia, comunque. Allo specchio “non è punto necessario la figura umana, se uscita questa dal suo campo, essa seguita a specchiare il pavimento inclinato, l’ombra sul muro, il nastro caduto a terra …” Questa scissione, questo portare al centro l’autonomia dell’oggetto e della rappresentazione, questa nascita oggettiva, analitica, riflessiva della visione come altro da sé e altro dall’uomo stesso è uno degli aspetti di quella che poi si chiamerà modernità e che si affermerà in tutta la sua forza molti secoli dopo” (A. Saggio, pag.40. rif. n. 24).In questo pezzo del discorso di Saggio, l’autore intreccia la conferma delle ricerche longhiane, le suggestioni di Maurizio Marini, l’anticipazione del modernismo di Michelangelo Merisi, il contatto con le avanguardie storiche, un certo materialismo, nonché l’oggettività della visione, la rottura della cornice, il rifiuto della visione prospettica, la vicinanza alla macchina fotografica, la lente di Galileo e la porosità profonda della pittura di Caravaggio.

Nel IX secolo, sarà il filosofo arabo Al-Kindi uno dei maggiori illustratori della camera oscura: a descrivere la camera in un suo trattato di cui ci resta una traduzione latina. Un altro arabo, Alhazen De Basrah, scrisse alcuni trattati sull’ottica e in uno di questi si occupò anche delle cosiddette “immagini rovesciate”. Aveva notato questo fenomeno sulle pareti bianche di una stanza buia e all’interno di una tenda nell’assolata pianura del Medio Oriente, osservando l’immagine che si formava in conseguenza di un piccolo foro nella parte della stanza o del tessuto della tenda. Alhazen, dopo precise osservazioni si servì della camera oscura per osservare, senza nessun rischio per gli occhi, un’eclisse solare. Nei secoli seguenti, ne parleranno anche Ruggero Bacone, Levi Ben Jorson, Cesare Cesarino e Giambattista Della Porta. Quest’ultimo descrive nel suo libro: “Magiae naturalis libri”, un fantastico modello di camera oscura, suggerendo l’uso ai pittori. Infatti, con questo attrezzo gli artisti potevano seguire i contorni dell’oggetto inquadrato e poi, sulle basi dell’abbozzo iniziale, completarlo e colorarlo con calma. Nell’estate del 1609, Galileo Galilei seppe che alcuni occhialai olandesi avevano realizzato un curioso strumento ottico: un tubo munito alle estremità di due lenti, guardando attraverso il quale gli oggetti lontani apparivano più vicini. Non appena conobbe i dettagli costruttivi, Galileo si dedicò a perfezionare lo strumento, riuscendo in pochi mesi ad aumentarne il potere d’ingrandimento. Galileo comprese subito l’inestimabile valore delle sue scoperte telescopiche e come esse costituissero nuove basi osservative per promuovere la dottrina copernicana sul moto della Terra.
Saggio conclude dicendo: “Narciso (il soggetto di un quadro di Caravaggio alla Galleria Barberini) si guarda triste e meditabondo in un nero specchio d’acqua: sta per cadere e la sua immagine si è formata per un solo attimo. Finendo il Cinquecento, Caravaggio sente che è finito il tempo. È finito il tempo come luce divina, come propensione alla serenità, come spazio e tempo assoluto. Michelangelo sa che il tempo moderno che comincia forse proprio con lui è quello dell’attimo, dell’istante, del dramma e del bivio. Ogni momento può presentarsi come quello della scelta, della morte o della vita. Solo l’attimo di un flash è il nostro barlume di vita, di desiderio, di possibilità: solo l’attimo in bilico della scelta “è”” (ibidem).
I lavori giovanili sono quelli più vicini ai modi leonardeschi, con la ricerca di punti luminosi che fanno splendere le figure e potenziano il colore: fra questi sono Il Riposo in Egitto e il Bacco. La stessa dolcezza e luminosità caratterizzano il Ragazzo col canestro di frutta e il Bacchino malato, la Buona ventura e il Canestro di frutta. Nel 1589-90 il Caravaggio si reca a Roma dove il cardinal Del Monte gli commissiona tre tele per la Cappella di San Matteo, in San Luigi dei Francesi. La prima è il San Matteo e l’Angelo, che scandalizzò i contemporanei per il realismo della scena, il Santo infatti non solo non è assolutamente idealizzato, ma ha le fattezze di un contadino, come ci fa notare la guida di Saggio. La seconda è la Vocazione di S. Matteo che presenta l’avvenimento, direbbe lo studioso di Giuseppe Terragni e di Borromini, come un normale fatto quotidiano, ma con una luce che vivacizza la scena, mettendo in evidenza la ricerca coloristica. La terza, assai più drammatica, è invece il Martirio di San Matteo, con un contrasto vivissimo fra l’ombra del fondo e la luce che investe le figure. Nella Chiesa di Santa Maria del Popolo ci sono due dipinti, risalenti al 1600-1601, la Crocifissione di S. Pietro e la Caduta di San Paolo, in cui ancora una volta colpisce l’emergere delle figure luminose. La ricchissima produzione del Caravaggio annovera, ancora a Roma, molte altre opere, tra cui la Madonna di Loreto in Sant’Agostino, la Deposizione della Pinacoteca Vaticana, il Narciso della Galleria Corsini. Nella Cena di Emmaus, la figura di Gesù che compare in mezzo all’oste e alla fantesca, schiettamente popolareschi, porta il personaggio, direbbe Saggio, a forme e comportamenti realistici: il vero umano si afferma di fronte alla trasfigurazione idealizzata tradizionale del sacro. Particolarmente significativa è la Morte della Vergine, composizione mossa e articolata, con raffinatissimi effetti di luce.
La vita del Caravaggio è un peregrinare continuo da un luogo all’altro: è costretto a fuggire da Genova perché colpevole di omicidio in seguito ad una rissa, si reca a Napoli, a Malta ed in Sicilia. A Malta dipinge il Ritratto di Alof de Vignacourt, a Siracusa la pala col Seppellimento di Santa Lucia, ed a Napoli le Sette Opere della Misericordia, opera complessa ed affollata che testimonia l’amore e l’attenzione che il Merisi riversa nella socialità partenopea. A questa burrascosa esistenza corrisponde il tormentato suo dipingere (con l’uso frequente della protofotografia) ora esplosivo, ora sommesso e quasi malinconico: negli ultimi lavori le figure – come osa dire Saggio nell’ultima nota-commento al suo libro – si fanno più minute e sembrano fondersi nella luce. Leggendo Saggio, e rivolgendosi ancora una volta contro il discorso tardo-manierista, quasi tutti i contemporanei non compresero l’arte di Caravaggio, il quale rinnegava le regole sino a quel momento ritenute validissime: nei suoi lavori emerge il prefotografico, ovvero il fantasma della camera ottica come tautologia della pittura, perché manca qualsiasi elemento decorativo o retorico, i soggetti di carattere religioso sono reali, talvolta veristicamente brutali, e rivelano la violenza e la disperazione di un animo inquieto e ribelle.

L’accumulazione del sapere sulla luce, sulle lenti, sull’occhio, pare dire Saggio, diventa parte di una sequenza di scoperte e realizzazioni che portano a una sempre maggiore accuratezza negli studi e nelle rappresentazioni del mondo fisico. Gli eventi privilegiati in questa sequenza normalmente includono l’invenzione della prospettiva lineare nel XV secolo, le innovazioni di Galileo e la fuga del nuovo occhio di Caravaggio! Ma la soglia è più reale dei due mondi che essa congiunge (visibile e invisibile), proprio perché la Luce coincide col suo stesso accadere: con il passaggio alla Luce – cioè all’invisibile, inteso come un’altra forma di vedere. Invisibile, infatti, non è qualcosa di celato, di non (ancora) visibile; non si tratta più di vedere qualcosa, ma di pervenire al puro vedere pittorico. Ciò che nella pittura caravaggesca è in questione – il ricondurre, nella contemplazione, il mondo sensibile al suo modello celeste – non ha nulla a che fare con una conoscenza rappresentazionale, direbbe Saggio. Chi varca questa soglia-evento, infatti, diviene egli stesso un puro vedere. Il mundus imaginalis, descritto da Saggio, non è un contenuto conoscitivo: esso è la possibilità già da sempre aperta di poter diventare non già l’oggetto della visione, ma la visione stessa. È per questo che, opponendo l’immaginario all’immaginazione, Saggio ribadisce il carattere assoluto e necessario di quest’ultima. Mentre l’immaginario vive delle fantasticherie del soggetto, l’immaginazione testimoniata dai soggetti di Caravaggio è ciò che anticipa, nel divenire del tempo storico, il permanere del tempo realistico, concreto. Vedere attraverso questa immaginazione, significa conoscere le cose nel loro campo pittorico: non secondo la prospettiva del soggetto, ma nella trasparenza del loro archetipo. Solo allora la realtà sensibile della pittura è davvero conosciuta per ciò che essa profondamente e originariamente è.