Kunst Meran attende il pubblico sino al prossimo 13 ottobre con la mostra LA LINEA INSUBRICA progetto esordiente The Invention of Europe. A tricontinental narrative (2024-2027), l’ampio programma curatoriale triennale in cui mostre e programmi pubblici indagano in maniera critica sui concetti ormai anacronistici legati all’idea di Europa, criticamente sull’idea monolitica d’Europa, attraverso opere e visioni di Liliana Angulo Cortés, Sammy Baloji, Binta Diaw, Abdessamad El Montassir, Alessandra Ferrini, Ufuoma Essi, Kapwani Kiwanga, Francis Offman, Vashish Soobah, Betty Tchomanga, The School of Mutants.
Ne abbiamo parlato con la curatrice Lucrezia Cippitelli ed il curatore Simone Frangi tanto da farvi venir voglia di prendere il primo treno per Merano e visitare la mostra subito dopo aver letto questa intervista!
Azzurra Immediato: Il programma ‘The Invention of Europe’ si propone di decostruire l’idea monolitica di Europa attraverso una narrazione ‘tricontinentale’. In che modo questo approccio critico permette di ripensare le strutture epistemologiche che hanno storicamente definito l’identità europea e quali sono le implicazioni filosofiche di una tale revisione storica? Raccontateci poi come è nato questo progetto.
Lucrezia Cippitelli & Simone Frangi: Partiamo dall’ultima domanda. Abbiamo iniziato a lavorare insieme
quando ci siamo incontrati nei corridoi dell’Accademia di belle arti di Brera, a Milano. Arrivavamo da
esperienze complementari ma diverse: Simone un percorso di direzione artistica a Viafarini e di ricerca su
tematiche legate alla cultura coloniale in Italia; Lucrezia da un percorso di ricerca internazionale su teorie
post coloniali, sviluppate anche come pratica curatoriale tra Africa ed America Latina. Il nostro sodalizio si è concentrato inizialmente su queste assonanze, e si è poi consolidato per una condivisione etica profonda: crediamo che lavorare dal mondo dell’arte su queste tematiche sia una necessità politica urgente del nostro presente, e non un campo di specializzazione professionale. Per noi collaborare significa quindi fare ricerca e di condividerla e non, soprattutto in un periodo in cui si ritorna molto su queste tematiche, programmare eventi di arte contemporanea che mettano in gioco il termine decolonizzazione. Questo modo di procedere è stato prima di tutto un percorso di costruzione di relazioni e scambio continuo con attiviste, scrittori, giornaliste, teoriche, artiste nazionali ed internazionali: una rete per noi fondamentale per studiare e costruire uno sguardo. La continua ricerca teorica, che si alimenta in sintonia con la rete di relazioni ed è costantemente in fieri, è l’altro elemento costante della collaborazione che stiamo ora mettendo in atto con Kunst Meran. La direzione artistica del programma The Invention of Europe a Kunst Meran è stato un ulteriore tassello di un lavoro collettivo, che è stato ora accolto in un contesto estremamente complesso ed anche carico di possibilità ulteriori. Il nostro primo lavoro è stata la ricerca iniziata a Brera, con i nostri studentesse e studenti, e confluita nel volume Colonialità e culture visuali in Italia. Grazie a Kunst Meran stiamo espandendo quest’indagine rivolta al “noi“, dall’Italia all’Europa, inquadrando quest’ultima come territorio immaginario, costruito su narrazioni identitarie ideologiche, consolidatesi in più di 500 anni di colonialismo. Il titolo di questo percorso, L’invenzione dell’Europa, risuona con il titolo di un testo per noi fondamentale del filosofo congolese Yves Valentin Mudimbe: L’invenzione dell’Africa. Ma siamo consapevoli che questo titolo efficace che abbiamo individuato istintivamente è intriso delle parole di pensatrici ed i pensatori anticoloniali che ci hanno cresciute, da Anibal Quijano a Samir Amin, Gayatri Spivak, Vandana Shiva, Silvia Rivera Cusicanqui ed Achille Mbembe, fino al gruppo di ricerca Aesthesis Decolonial che coinvolge tante pensatrici e pensatori di Abya Yala. Parlare di identità costruite a partire dal territorio sud tirolese e dalla materialità della sua cultura rende queste teorie un’sperienza incarnata. Non ci siamo sforzati molto per immaginare un percorso simile in un territorio costruito su violenze, egemonie culturali, narrazioni. Già Simone aveva lavorato a Bolzano e la sua ricerca ha aggiungo al nostro bagaglio culturale il lavoro di Alexander Langer, che ci ha insegnato che questa regione è un prisma attraverso cui leggere le sfide presenti e future poste dalla coabitazione delle pluralità nell’Europa contemporanea.
A.I.: La selezione degli artisti per ‘La Linea Insubrica’ sembra basarsi su una convergenza di pratiche
multidisciplinari e di background culturali diversi. Quali sono le metodologie curatoriali e le teorie
estetiche che avete applicato per creare un dialogo coerente tra queste opere eterogenee, e come queste influenzano la comprensione del rapporto tra Europa e Africa?
L.C. & S.F.: Abbiamo scelto di lavorare con artisti i cui progetti risuonassero con la nostra ricerca. Entrambi
sappiamo di essere debitori nei confronti della teoria, e nello stesso tempo entrambi siamo grandi
sostenitori della ricerca artistica, in cui la convergenza di teoria e prassi costruisce e condivide immaginari
potenti e tangibili, con lucidità, profondità, etica. Gli artisti e le artiste con i quali abbiamo aperto il dialogo, lavorano sì, come hai sottolineato, in ambiti formali diversi e provengono certamente da culture diverse. La nostra scelta però non era volta a mettere insieme diversi linguaggi o provenienze culturali eterogenee. La Linea Insubrica è il primo capitolo di un percorso di treanni che indaga l’essenzialismo identitario europeo attraverso lo sguardo di artiste ed artisti che provengono da Africa, America Latina e Asia (da qui il sottotitolo del progetto triennale, A Tricontinental narration, che usa un termine degli anni della decolonizzazione). In questo primo anno dedicato allo sguardo di artiste e artisti legati al continente
africano, abbiamo principalmente cercato storie, eventi, immaginari che potessero decostruire lo sguardo
eurocentrico e far comprendere la complessità del nostro presente a partire da un contesto immaginato
come l’Africa. Artiste ed artisti ci aiutano a leggere tra le righe la narrazione europea e la sua autolegittimazione costruita su dispositivi (musei, archivi, istituzioni educative, specializzazioni dei saperi). I lavori che costituiscono tutto questo primo capitolo, dalla mostra alle performances (organizzate in
partnership con il festival Transart per la giornata del 21 Settembre 2024 intitolata Metamorfismo) sono
opere che attraverso immagini o esperienze potenti e talvolta immediate rendono tangibile a pubblici anche eterogenei il discorso che ci sta a cuore e che crediamo sia necessario far emergere. Vogliamo ancora sottolineare: non si tratta di una discorsività radicale astratta ed accademica, ma di una serie di storie che ci aiutano a posizionarci nel presente. In particolare in questo momento in cui dieci mesi di bombardamento a tappeto su una popolazione impoverita ed inerme in Palestina viene affrontata dai governi delle nazioni europee con la preoccupazione di un’escalation regionale, più che come l’emanazione di cinquecento anni di prassi genocide, estrattiviste e inferiorizzanti nei confronti del mondo non occidentale.
A.I.: Il tema dell’estrattivismo, presente nelle opere di Binta Diaw e Francis Offman, solleva questioni
etiche e politiche profonde riguardo allo sfruttamento delle risorse e delle persone. Come queste opere contribuiscono a una critica dell’estrattivismo come pratica neocoloniale, e quale ruolo giocano nella riflessione più ampia sulla sostenibilità e sulla giustizia globale all’interno della mostra?
L.C. & S.F.: E’ vero, il percorso che abbiamo realizzato insieme alle artiste ed agli artisti fa emergere la
relazione estrattiva che l’Europa ha costruito con l’Africa, che passa attraverso l’uso delle materie prime,
come elemento più evidente, soprattutto se ragioniamo su esperienze della nostra vita quotidiana: il caffè
che Francis Offman rende materico nei suoi dipinti, o il carcadé di Binta Diaw – il “tè degli italiani”
commercializzato e reclamizzato dal regime fascista che in Senegal è una bevanda tradizionale (il Bissap,
fatto con i fiori dell’hibiscus). I lavori degli artisti che abbiamo invitato ragionano però anche su una consapevolezza che vuole rovesciare il discorso. The School of Mutants, il collettivo internazionale fondato a Dakar durante una residenza da Stéphane Bottero ed Hamedine Kane (e poi esteso a collaboratori di tutto il mondo), mette per esempio a disposizione del pubblico strumenti di comprensione anticoloniale del mondo attraverso un dispositivo discorsivo che è anche giocoso e mobile: un carretto che ricorda quello dei gelati. Proponendo un confronto su tematiche che riguardano la storia coloniale e le pratiche anticoloniali, cerca di costruire un sapere collettivo che sia uno strumento del presente, che parli alle comunità che nel presente hanno bisogno di esprimere determinate necessita: più che autolegittimarsi come autorialità educante mette a disposizione strumenti discorsivi. Questo lavoro mette in evidenza soprattutto come l’organizzazione e la condivisione dei saperi sia di fatto eurocentrica nella sua forma verticale e circoscritta in territori accademici: è una scuola non gerarchica, non autoritaria, non accademica, non monodirezionale, non disciplinare, potenzialmente alla portata di tutte e tutti. Per il 21 Settembre abbiamo costruito, insieme ai responsabili delle attività educative di Kunst Meran ed a un gruppo di studentesse e studenti della scuola di Didattica dell’Arte dell’Accademia di Brera (dove entrambi abbiamo insegnato), un percorso per il carretto: sarà una performance incarnata in un dispositivo mobile che vuole attivare, dialogare, far parlare, far incontrare. Un antidoto all’estrattivismo coloniale, anche del sapere.
A.I.: La rielaborazione dei materiali archivistici nelle opere di Liliana Angulo Cortés e Kapwani Kiwanga
mette in discussione i codici dominanti di assoggettamento e narrazione storica. Come queste pratiche artistiche contribuiscono a una riscrittura della memoria collettiva e quali sono le implicazioni epistemologiche di un tale processo di revisione?
L.C. & S.F.: Il progetto di Liliana Angulo Cortés, afrodiscendente, artista, attivista, ricercatrice ed attirce del
mondo culturale ed istituzionale colombiano, evidenzia come lo sfruttamento del lavoro degli schiavi
afrodiscendenti nella Nueva Grenada (la Colombia del XVIII Secolo) andasse di pari passo con l’estrazione
dei saperi indigeni, che venivano raccolti per poi essere catalogati e conservati nelle istituzioni accademiche europee. In particolare il lavoro scava negli archivi, sia europei (la sua ricerca inizia infatti nella biblioteca dell’Orto Botanico di Madrid) che in Colombia (negli archivi di diversi musei importanti del Paese, a Bogotà e Medellin), e mette in dialogo le immagini e le storie che ne emergono con la Colombia del presente: una società ancora fortemente feudale, razzista, classista, dove i conflitti sociali emergono nello scontro di una classe alta ancora ereditiera dei titoli e delle terre occupate e distribuite all’aristocrazia spagnola durante la conquista ed una classe bassa razializzata (indigeni, afrodiscendenti, meticci, campesinos) che vivono ai margini della società pur essendo di gran lunga la maggioranza della popolazione. L’estrattivismo del XVIII secolo, lo sfruttamento dei corpi degli schiavi e dei saperi degli indigeni sono entrati nel patrimonio culturale europeo attraverso libri di viaggio, trattati di scienze naturali, studi universitari, mentre sul territorio sono rimasti sotto forma di omicidi organizzati di contadini senza terra, di occupazione delle terre abitate da comunità afrodiscendenti, distruzione di interi ecosistemi per costruire porti o miniere, annichilimento di ogni forma di resistenza. La stessa relazione tra costruzione di dispositivi coloniali che organizzano saperi ed hanno dato forma allo sviluppo materiale e tecnologico in Europa ed la loro eredità nel presente, è evidente nel film che Sammy Baloji ha presentato a Kunst Meran il 18 Luglio 2024 Aequare. The Future That Never Was, menzione speciale alla Biennale Architettura di Venezia del 2023. Il film mostra come agricoltura ed estrazione mineraria abbiano stravolto gli equilibri ecologici del territorio del nord’est del Congo quando sotto il dominio coloniale belga, vaste aree della seconda foresta pluviale più grande del mondo sono state trasformate in aree coltivabili e insediamenti, evidenziandone l’impatto sulle società di oggi. Questi due lavori, che partono dai materiali di archvio, riscrivono di fatto la storia perché rendono disponibili immaginari altrimenti rinchiusi negli archivi europei (costruiti e disciplinati secondo la forma mentis eurocentrica), dove non parlano.
A.I.: Il ricco public program di La Linea Insubrica integra eventi performativi, sonori e proiezioni di film
d’artista. In che modo queste iniziative estendono l’esperienza espositiva e quale ruolo svolgono nel
facilitare un dialogo critico e partecipativo con il pubblico?
L.C. & S.F.: Kunst Meran fa un lavoro molto attento ai pubblici, alla città di Merano, al territorio, consapevole dell’importanza della produzione visiva e culturale contemporanea nella vita di una comunità che vive un territorio geopolitico complesso oltre alla quotidiana esperienza del turismo di massa, che sembra rendere invisibile il tessuto sociale, culturale, umano. Per questo negli anni la “casa”, come chiamiamo la kunsthaus, ha affinato strategie di relazione e attivazione dei suoi pubblici, a partire da un dipartimento educativo estremamente attento, attivo ed efficace, ed un lavoro molto puntuale sui linguaggi usati nella comunicazione e mediazione delle attività. In questo contesto, immaginare un intervento che non prevedesse esclusivamente la cura di una mostra, ma che potesse aprire conversazioni con diverse entità del territorio, è stato quasi naturale, anche in dialogo con la direttrice, Martina Oberprantacher, che viene lei stessa da un’esperienza estremamente legata all’arte come processo partecipativo e pedagogico. Il public program è effettivamente un dispositivo che cerca il dialogo ed abbiamo in questo senso ragionato su due fronti: il primo far avvenire le attività proposte al di fuori degli spazi di Kunst Meran. L’attivazione della School of Mutants si muoverà per le strade di Merano, ma coinvolgerà anche diverse realtà del territorio, tra cui il Coworking della memoria e il centro culturale Ost West, chiedendo inoltre a rappresentanti di diverse associazioni territoriali di contribuire. Ma anche la scelta di produrre nuove commissioni, frutto della ricerca sul territorio, vuole cercare di inserire il lavoro degli artisti in un dibattito pubblico, in dialogo con diverse entità con le quali artiste ed artisti si sono confrontate.
Tornando al public program, la performance di Alessandra Ferrini programmata per il 21 Settembre è un
lavoro site-specific che è in corso di preparazione e produzione perché e parte di un dispositivo che
abbiamo pensato di replicare ogni anno, una residenza a Merano in cui l’artista invitata sviluppa e realizza
un’opera originale, una vera e propria commission. Nel caso di Alessandra Ferrini la ricerca che l’artista sta portando avanti in questi mesi localizza in modo più preciso l’installazione ospitata al primo piano della Kunst Haus, indagando i legami del ventennio fascista con il territorio in particolare attraverso oggetti che sono conservati negli archivi cittadini.
A.I.: Il progetto ‘The Invention of Europe’ mira a influenzare tanto la comunità locale quanto il discorso
artistico internazionale. Quali strategie avete previsto per valutare l’impatto del progetto e come pensate di sostenere e amplificare i risultati ottenuti nel corso del programma triennale?
L.C. & S.F.: Come dicevamo più sopra, l’attenzione di Kunst Meran ai pubblici ed al dialogo con il territorio ed è insita nel suo modo operandi – e va detto, nella sua genealogia, trattandosi di uno spazio fortemente voluto da una generazione di intellettuali locali che negli anni Novanta hanno fondato, costruito, promosso sostenuto e talvolta ne hanno difeso l’esistenza, in quanto ambito vitale in cui mettere in dialogo la città di Merano con la regione (una regione internazionale ed estesa, che coinvolge anche l’Austria e la Germania). La programmazione didattica, il dialogo con diverse associazioni, il linguaggio, la volontà di coinvolgere figure diverse è una parte costante del nostro lavoro collettivo, come parte del team. In questo senso ripensare insieme l’identità visiva, cercare partners con cui continuare a crescere, condividere pubblici sono parte di un cammino che si fa insieme, costantemente. Il dipertimento di didatica di Kunst Meran ha una attività molto intensa e molto partecipata con le scuole: si tratta di studenti dell’educazione primaria e secondaria, non di Università o Accademie, perché queste stanno a Bolzano. Si tratta di pubblici che dibattono il significato di ogni opera, e si avvicinano alla mostra non per il suo potenziale metalinguistico: non parlano di arte, ma di come le opere sono specchio di un mondo e di come lo ribaltano.
Parlando di partnership con entità territoriali, la relazione con Transart è stata voluta e vissuta come dispositivo per far confluire pubblici eterogenei. E lo stesso possiamo dire del progetto in corso di preparazione per la mostra personale di Belinda Kazeem Kaminski che aprirà a Marzo 2023. Oltre ad essere un nuovo lavoro, site-specific ed ancora una volta legato ad immaginari radicati nel territorio, prevede la cooperazione con un festival di musica della città, evento molto seguito e popolare a Merano, che permetterà di aprire l’ambito delle arti visive con quello della musica e pensare alla produzione
contemporanea come uno spazio immaginario, che declinato in diversi linguaggi, invita i pubblici a ripensare il proprio contesto.
Ancora una volta, il Kunst Meran si apre al mondo attraverso uno sguardo internazionale, che fa della lontananza, solo appartente, la vera linea comune che aggrega realtà distanti e tematiche urgenti che proprio da un altrove possono essere riconosciute, affrontate in maniera analitica, critica e farsi varco in una riflessione ben più ampia, una trama che attraverso il fertile territorio sa elevarsi verso altre tappe di umane mappature. Grazie ai curatori Lucrezia Cippitelli & Simone Frangi e al programma che porteranno avanti siamo certi che molte saranno ancora le scoperte da fare, le denunce filosofiche da appoggiare e le condizioni da affrontare, anche quando non sembrano toccare il nostro quotidiano, da qui, dalla Linea Insubrica su cui è sorta Merano.
La Linea Insubrica
a cura di Lucrezia Cippitelli & Simone Frangi
Kunst Meran | Merano Arte
Via Portici 163, 39012 Merano
02.06.2024 – 13.10.2024
Martedì-sabato: 10-13 | 15 -17
Domenica e festivi: 11 – 13 | 15 – 17
info@kunstmeranoarte.org | www.kunstmeranoarte.org