Anton Giulio Onofri, Termini, 2020, La Galleria Nazionale, Roma

Vuoti di vita

Lo scorso 8 marzo, esattamente a un anno dal primo lockdown nero che ci ha lasciati tutti a casa un po’ spaventati e increduli e smarriti per le sorti del singolo o anche della specie, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea è stata inaugurata Roma Città Chiusa, piccola ma preziosa personale di Anton Giulio Onofri (come non ricordare il suo romanzo del 2013 Lo splendore e la scimmia) nata da un lungo racconto – avviato il 4 aprile 2020 – diviso in due parti legate, rispettivamente, alla prima e alla seconda fase della pandemia che ha colpito appunto questo nostro XXI secolo ancora tutto da scrivere.

Roma Città Chiusa, in un progetto di Anton Giulio Onofri

In un primo momento, quando eravamo tutti in un tempo sospeso e d’attesa e forse anche sindemico, questo elegante itinerario firmato da Onofri è stato offerto a pillole (in forma di webserie) sulla piattaforma della nostra Galleria Nazionale dove, a partire dal suo lancio con il primo episodio (Roma città chiusa – Episodio 1, diventato anche il nome del progetto), abbiamo avuto modo di seguire i suoi sviluppi interni, scanditi ritmicamente a puntate puntualmente corredate da una evocativa denominazione (nella loro cadenza interna i tre episodi della Fase 2riportano, ad esempio, il titolo Dove l’aria è popolare è più facile sognare? – Ep. 1La bellezza è solo degli occhi di chi guarda – Ep. 2 e Mare mare, non ti posso guardare così – Ep. 3) alla cui base troviamo conflagrazione, fissione semantica.

«In quei giorni di virus e di clausura ho avuto un privilegio. Su incarico della Galleria Nazionale sono andato in giro per Roma a fotografarla deserta, svuotata, silenziosa. Una città in pausa di riflessione, da noi, da tutto, e da se stessa», ricorda Anton Giulio Onofri in un volume che a breve tutti potremo leggere e sfogliare per seguire la leggerezza di scatti che sembrano trattenere al loro interno la sensuale, pregnante, espressiva vivacità cinematografica.

Anton Giulio OnofriPiazza del Popolo, 2020, La Galleria Nazionale, Roma.

Allestita sulla parete dell’ala sinistra del bookshop, Roma Città Chiusa ha oggi l’aspetto di una pungente quadreria, di una riquadratura piacevolmente scomposta, mondrianea direi, con delle verticalità e delle orizzontalità il cui articolarsi interno ci porta a leggere una mappa, con piazze deserte o con strade cristalline screpolate dal sole. Non c’è inquietudine in questi scatti, né tantomeno smarrimento: alla retorica dell’immagine il fotografo sostituisce abilmente una oggettività che prosciuga e che va subito al centro della verità per farci capire la profonda autenticità del fatto e mostrarci una città vuota di vita, nuda di umanità, restituita in tutta la sua chiara silenziosità, con una stordente forza metafisica che fa pensare alle Piazze d’Italia di de Chirico. 

Le foto in mostra, quelle scelte dalle 165 inserite online nelle 8 puntate della saga pensata da Anton Giulio Onofri, sono in tutto 22 e disegnano l’itinerario intermittente di un taccuino che ha la capacità di toccare il nervo scoperto della inquadratura (quella del migliore cinema italiano) e assieme della scrittura ad alta voce (morbida, psicologica). Roma, in questo resoconto visivo tracciato da Onofri con la sua Leica M10, si presenta pallida e assorta, solennemente “sonnolente” e “indifferente” (come la statua del meriggio montaliano), chiusa in una aperta solitudine che si spinge fino alla voce del mare: ad Ostia, dove in uno scatto così perfettamente simmetrico, si sente una brezza leggera.

Anton Giulio OnofriPorta Pia, 2020, La Galleria Nazionale, Roma

Il taglio delle fotografie è perfetto: c’è una grande limpidezza e ariosità assecondata da un occhio clinico che però si rilascia al tuffo del trasporto, al proprio corpo solitario che è lì e che guarda mentre registra in tempo reale l’impianto scenico della città con il desiderio di depositare sulla memoria della pellicola (in quell’inconscio ottico individuato da Benjamin) la sua accecante riflessione sul presente. «Prima di tornare a casa, mi sono arrampicato sul Pincio per fotografare Piazza del Popolo dall’alto. Il parco, dove nei soleggiati sabati di primavera accorrono da ogni parte della città famiglie con bambini e coppiette di fidanzati, era vuoto e misterioso come il giardino di un sultano arabo. Affacciato dal parapetto a picco sulla piazza stavo impostando esposizione e diaframma della macchina fotografica per gestire il violento controluce, quando alle mie spalle avverto arrivare in automobile una pattuglia di carabinieri. Mi avvicino per spiegare che sto realizzando un servizio fotografico su Roma e le sue piazze per la Galleria Nazionale. Fornisco, come richiesto, documento d’identità e le autorizzazioni del caso. Appurato che tutto fosse in regola, i due carabinieri, un uomo e una donna, vanno per allontanarsi, quando la donna prega il collega di aspettare un attimo, e scendendo dall’auto mi chiede che cosa volessi fotografare da quel punto specifico. La accompagno verso la balaustra, e ci affacciamo insieme su Piazza del Popolo, in quel momento inondata di luce: l’obelisco, perfettamente incuneato in verticale nel rettilineo di Via Cola di Rienzo, proietta la sua lunga ombra sui sampietrini argentati dai riflessi del sole. ‘Sembrano le due lancette di un orologio’, dico alla carabiniera, che visibilmente colpita dal panorama mi risponde: ‘E segnano pure l’ora esatta!’ Sulla piazza, rotonda come il quadrante di un cronografo, l’obelisco e la sua ombra sembrano infatti segnare le cinque del pomeriggio. ‘Vieni a vedere pure tu! È bellissimo!’ grida la carabiniera al collega, che sorridendo scende dalla vettura e ci raggiunge per affacciarsi anche lui sul tramonto. Restiamo lì, zitti tutti e tre per qualche secondo, finché il carabiniere dice ‘Non l’avevo mai vista da qui, Roma’. ‘Nemmeno io’ aggiunge lei».

Anton Giulio OnofriOstia, 2020, La Galleria Nazionale, Roma